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Sulle strade del pregiudizio

Green Book
di Peter Farrelly
USA, 2018
Con: Mahershala Ali (Don Shirley), Viggo Mortensen (Tony Lip), Linda Cardellini (Dolores)
Trailer del film

Il Green Book era la guida automobilistica che i neri statunitensi dovevano utilizzare per muoversi senza troppi rischi nelle strade, contrade, hotel americani, specialmente al Sud, in modo da evitare di essere respinti, malmenati o peggio. Ed è quindi la guida che Tony Lip usa durante il lungo viaggio che nel 1962 lo conduce da New York verso l’Alabama insieme a Don Shirley, un musicista giovane, omosessuale, colto, raffinato e nero, al quale fa da autista. E fa molto di più: lo difende dalla violenza incolta, lo protegge dal pregiudizio, lo istruisce al conflitto, impara a stimarlo e a volergli bene. In cambio Don Shirley gli insegna a scrivere lettere alla moglie, gli insegna la bellezza. E dire che all’inizio Tony aveva buttato due bicchieri nella pattumiera soltanto perché da essi avevano  bevuto degli operai neri.
Nelle terre che hanno nome Stati Uniti d’America i neri possono migliorare la propria condizione soltanto adeguandosi ai paradigmi dei bianchi, o vengono fatti fuori. L’esempio più chiaro è Barack Hussein Obama, un guerrafondaio come i suoi predecessori e successori. Perché il complesso sistema culturale e politico degli States non lascia alternative. Mai le ha lasciate una nazione nata sul genocidio dei nativi, sulla deportazione di interi popoli dall’Africa, sulle uniche bombe atomiche sinora utilizzate nella storia, sulla guerra sempre e comunque.
Viggo Mortensen e Mahershala Ali danno vita a dei paradigmi singolari e interagenti: il rozzo italoamericano cresciuto in ambiente mafioso, l’artista nero riscattato dal talento e osservato con muto stupore dai contadini del Sud che vedono un bianco aprirgli la portiera e stare al suo servizio.
On the Road dentro le illusioni, i limiti e il  fallimento del melting pot americano.

Mente & cervello 81 – Settembre 2011

Che cos’è un rito? Come nasce? Quale funzione svolge? A queste domande cercano di rispondere da tempo discipline quali l’antropologia, l’etnologia, la sociologia della cultura, l’etologia. Un contributo importante può venire anche delle scienze della mente. Il ricco dossier di questo numero di M&C lo dimostra.
«Nella definizione dei rituali -specialmente di quelli che non riguardano la realtà quotidiana- spiccano di solito quattro caratteristiche fondamentali: ruolo del corpo, formalità, modalità e trasformazione» (A. Michaels, p. 54). A essere coinvolto in un rito è sempre l’intero corpomente in modi formalmente stabiliti e rigorosi, con modalità che differenziano lo stesso gesto se compiuto nel quotidiano o se invece inserito in una forma rituale, avendo come obiettivo una trasformazione di condizione interiore o di status comunitario.
I riti di iniziazione e di passaggio, ad esempio, sono tra i più importanti e prevedono tre fasi: di separazione dal luogo o dallo status precedente, liminale di transizione e di abolizione dell’ordine precedente, di integrazione nel nuovo luogo o nella nuova condizione. In generale, un rito fa parte di una ben precisa cultura e solo in quel contesto acquista il suo senso, si struttura in un linguaggio che spesso produce azioni -come quando un funzionario civile o religioso dichiara due persone marito e moglie-, ha una qualità estetica specifica e caratterizzante, segna una interruzione e un rallentamento del consueto flusso temporale attraverso il tempo della festa, del passaggio o del lutto. 

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Mente & cervello 79 – Luglio 2011

La relazione che intercorre tra il cervello umano e il linguaggio è uno degli eventi più affascinanti e complessi della natura. Infatti «la nostra capacità di svolgere compiti come quello di individuare il significato di una parola ambigua è frutto di milioni di anni di evoluzione», tanto da rendere la struttura del linguaggio «misteriosa persino per noi esseri umani, che pure ne padroneggiamo l’uso» (J.K. Hartshorne, p. 68). È anche per questo che ogni tentativo di realizzare robot dotati di parola, delle intelligenze artificiali capaci di parlare, è sempre miseramente naufragato. A metà del Novecento Alan Turing e dopo di lui altri studiosi pronosticarono che entro pochi anni il linguaggio dei robot sarebbe stato indistinguibile da quello degli umani. Ma «in realtà stiamo ancora aspettando. […] Un robot veramente dotato della facoltà della parola non sembra essere più vicino a realizzarsi rispetto ad altre fantasie tecnologiche tipiche del secolo scorso, come le città sottomarine o le colonie marziane» (Ivi, 66).

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