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Catania dadaista

È una di quelle notizie che possono arrivare solamente da questa terra luminosa e perduta, da quest’Isola che probabilmente non esiste se non come sogno di qualche dio impazzito o ubriaco oppure agonizzante nel ricordo di trascorse glorie. A «Catania la guida turistica è un muto» recita un titolo del quotidiano locale.

Magnifico, fantasioso, malinconico e impensabile evento. Musei, città, istituzioni di tutto il mondo “ce la ponno sucare”, come si dice in questo luogo dadaista, sempre uguale e ogni volta assolutamente imprevedibile. Soltanto dal cuore lavico di Catania, un cuore mobile e però pietrificato e spento, possono sorgere dei sordi impiegati nei centralini telefonici, dei ciechi pagati per osservar le stelle, degli analfabeti alla guida di tutte le possibili accademie, dei servi al potere.

Tu, zero?

Tassare pensionati, impiegati, insegnanti e i loro lauti guadagni, salvando invece banchieri, grandi evasori, palazzinari, ai quali si garantiscono immunità, privilegi e condoni. Togliere qualche mancia a deputati, senatori, alti dirigenti pubblici, conservando intatti i loro stipendi da favola. Fare finta di cancellare le Province, eliminandone soltanto cinque e per di più tra quattro anni. Mentre l’economia è sull’orlo del baratro, occuparsi ossessivamente di leggi che imbavaglino la stampa e la Rete e che siano di festa per i criminali. Lasciare che aziende di ogni tipo chiudano ovunque, moltiplicando i disoccupati e rubando il futuro a intere generazioni. Introdurre il pedaggio sulla Salerno-Reggio Calabria, l’unica autostrada d’Europa nella quale per centinaia di chilometri si marcia a una sola corsia. Ridurre ulteriormente e drasticamente i servizi -sanità, scuola, trasporti, università, garanzie sociali- aumentando i loro costi per i cittadini e continuare a blaterare del proprio ormai stucchevole “miracolo”: «Se l’Italia può stare tranquilla è grazie a questi due signori» (indicando se stesso e Tremonti). Un’affermazione che ha lo stesso valore di quella riferita al Milan: «È la squadra che amo e perciò sono il primo tifoso. Però io quest’anno, nonostante i tanti infortuni, se avessi fatto l’allenatore avrei vinto lo scudetto con 5-6 punti di distacco…».
Davvero un visionario S.B, oltre che povero, tant’è che ieri alla domanda di un giornalista ha risposto: «Lei quanti soldi ha nel portafoglio? Io, zero; mi affido alla carità pubblica». D’altronde -diciamocelo- si può esser poveri e valere zero anche possedendo un impero. Come non dargli ragione: io no, zero; tu, zero? Se anche tu no, allora come me –lettore- sei uno dei fessi che farà la carità allo Zero.

Draquila. L'Italia che trema

di Sabina Guzzanti
Italia, 2010
Trailer del film

L’Italia ha una Costituzione, in essa vigono delle leggi. Inventare o trovare un grimaldello per superare i limiti che Costituzione e leggi pongono all’esecutivo era per Berlusconi e il suo governo una necessità primaria. Questo è stato, ed è, la cosiddetta Protezione Civile, che in nome dell’emergenza organizza persino i mondiali di nuoto a Roma e i viaggi pontifici. Il terremoto che il 6 aprile 2009 ha colpito una delle più antiche e belle città d’Italia ha rappresentato un’occasione d’oro per palazzinari e faccendieri che la notte del disastro ridevano felici alla prospettiva dei guadagni che la ricostruzione avrebbe loro garantito. È questo che il film documenta con passione, ironia e pianto. E dando voce anche a coloro tra gli aquilani che vedono in S.B. l’uomo dei miracoli, che descrivono compiaciuti l’arredamento trovato nelle nuove case ma che alla fine sono costretti ad ammettere che in queste case non possono neppure piantare un chiodo o spostare un mobile, tanto da concludere: «insomma, me sento ‘na schiava».

E in una condizione di prigionia sono stati costretti a vivere i cittadini nelle tendopoli-lager dove non si può consumare caffè «per non eccitare i terremotati», dove sono vietate le riunioni, dove “capi-campo” ed esercito controllano ogni movimento. Intanto, il cuore della città -al quale è vietato accedere persino ai suoi abitanti- è lasciato alla distruzione del tempo, all’incuria, alla desolazione. Ricostruirlo avrebbe comportato meno costi e avrebbe consentito agli aquilani di proseguire la loro storia. E invece si sono spese cifre enormi -pagate da tutti noi- per una New Town anonima, tristissima ed effimera. Ma foriera di lauti guadagni.
Splendida la figura del vecchio professor Colapietro che ha resistito, ha messo a posto a proprie spese la casa e continua a vivere tra le sue mura e i suoi libri. E che descrive con pacatezza quanto è avvenuto all’Aquila. È avvenuta una prova generale di militarizzazione del territorio, di sospensione dei diritti costituzionali, di propaganda in stile sovietico. Questo è il grande imbroglio che si nasconde dietro la Protezione Civile, ormai inquisita nei suoi più alti vertici. Un film da vedere per capire che cosa sia l’Italia del 2010.

1984

di George Orwell
(Nineteen Eighty-Four, 1949)
Trad. di Gabriele Baldini
Arnoldo Mondadori Editore, Milano 1998
Pagine XI – 327

In una mattina di aprile dell’anno che forse è il 1984 Winston Smith torna a casa e comincia a scrivere i propri pensieri in un quaderno che ha da poco acquistato. Ecco: questa è la sua colpa, lo psicoreato che aveva già cominciato a commettere e che adesso è provato dalla sua stessa scrittura. Winston Smith vive, infatti, in Oceania, uno dei tre stati sovracontinentali nati dalla guerra atomica degli anni ’50.
In ciascuno di essi

«LA GUERRA È PACE
LA LIBERTÀ È SCHIAVITÙ
L’IGNORANZA È FORZA»
( p. 8 )

Winston lavora presso il Ministero della Verità, il cui compito è la falsificazione sistematica e la creazione di documenti che modifichino il passato. Infatti, «chi controlla il passato, controlla il futuro; chi controlla il presente, controlla il passato» (260). In questo luogo, Smith lavora 60 ore alla settimana in quanto membro del Partito esterno. Su quest’ultimo domina il Partito interno il cui braccio operativo è la Psicopolizia e su tutti sta il Grande Fratello. Alla base della scala sociale, infine, vi sono i cosiddetti prolet, masse ignoranti e povere di milioni di persone alle quali è permessa una maggiore libertà di azione e di pensiero poiché esse pensare non sanno. In ogni caso, anche le masse vengono esaltate e controllate tramite la propaganda incessante contro il nemico interno ed esterno.

In questo mondo senza luce, Winston incontra Julia. Membro anche lei del Partito esterno, non crede ai suoi dogmi e cerca di godere della propria vitalità sessuale, atteggiamento che costituisce una forma di disobbedienza al Partito, il quale ha fra i suoi scopi quello di «abolire lo stesso piacere sessuale» (280). I due si incontrano quando possono, cercando di sottrarsi ai teleschermi che controllano ogni gesto quotidiano. Un giorno, O’Brien, membro del Partito interno, invita Winston a casa propria e gli rivela l’esistenza di un’opposizione al Regime guidata da Goldstein, vecchio fondatore del Partito e ora suo principale nemico e autore di un testo clandestino dal titolo La teoria e la pratica del collettivismo oligarchico. Winston e Julia decidono di entrare nella Fratellanza ma dopo qualche tempo vengono arrestati. Da qui comincia l’ultima intensissima parte del romanzo. A interrogare e torturare Winston è O’Brien che gli rivela come gli scopi del Partito siano ben più radicali di qualsiasi passata Inquisizione, di qualsiasi Regime totalitario del ventesimo secolo poiché il Partito vuole l’anima di chi ha pensato di resistergli e non uccide il colpevole finché questi non sia totalmente e sinceramente convinto della propria colpa e non provi autentico Amore per il Grande Fratello. A questo limite, infatti, sarà condotto Winston in un finale tanto terribile quanto malinconico e chiuso a qualsiasi speranza.

Si tratta di un libro chiave. E non solo per la potente forza visionaria, non solo per la scrittura lucida ed essenziale. È un libro che smaschera l’essenza del Potere il cui fine è lo stesso Potere. Orwell compie una singolare fusione di machiavellismo e anarchismo, il cui risultato è l’estrema, esaltata felicità con la quale O’Brien descrive il vero significato del Partito:

«I nazisti tedeschi e i comunisti russi si avvicinarono molto ai nostri metodi, ma non ebbero mai il coraggio di dichiarare apertamente i loro motivi, le loro ragioni. (…) Il potere non è un mezzo, è un fine. Non si stabilisce una dittatura nell’intento di salvaguardare una rivoluzione; ma si fa una rivoluzione nell’intento di stabilire una dittatura. Il fine della persecuzione è la persecuzione. Il fine della tortura è la tortura. Il fine del potere è il potere» (276).

La dottrina posta a fondamento di tale obiettivo consiste in una sorta di solipsismo antropocentrico, convinto che «non esiste nulla se non nella mente dell’uomo (…) non c’è niente al di fuori e oltre l’uomo. (…) La terra è il centro dell’universo. Il sole e le stelle ci girano attorno» (278-279). Un solipsismo collettivo che intende eliminare alla radice qualsiasi dimensione individuale, pensiero soggettivo, ambito privato. I teleschermi presenti ovunque, l’elaborazione della neolingua che riduce all’essenziale il numero delle parole, la vita in grandi alveari umani, la trasformazione dei figli nei primi nemici dei loro genitori -bambini trasformati in «una sottosezione della Psicopolizia» (142)-, la partecipazione obbligatoria alle iniziative serali dei Centri sociali, fanno sì che «nulla si possedesse di proprio se non pochi centimetri cubi dentro il cranio» (31) ma anche questo spazio alla fine sarà perduto. Lo stare da soli è già ragione di grave sospetto, così come il possesso o il desiderio di «qualsiasi oggetto antico o anche soltanto bello» (101) e dei libri, i quali vengono sistematicamente distrutti e sostituiti dalle opere collettive del Partito o da romanzi per i prolet elaborati con strumenti meccanici. L’ortodossia, quindi, consiste nel «non pensare, non aver bisogno di pensare. L’ortodossia è non-conoscenza» (57). E solo questo, infatti, interessa al Partito. Non le azioni compiute ma i pensieri che quelle azioni hanno prodotto
Nessuno ha mai visto il Grande Fratello poiché egli è la personificazione del Partito, è «la mente del Partito, che è collettiva e immortale» (261). 1984 è un libro molteplice, dai significati diversi e complessi. Un testo che descrive come lentamente si spegne l’ultimo uomo in Europa, che mostra la necessità del pensiero ribelle attraverso un incubo politico e televisivo nel quale individui e collettività vengono letteralmente cancellati dal servilismo assoluto verso il potere, verso la sua immagine.

La cosa

Leggo in questi giorni (su segnalazione di Dario Sammartino) quanto Franco Cordero ha scritto su Repubblica del 10 febbraio scorso.

«L’attuale incantatore non ha mondo psichico: ammesso che esista un’anima, misteriosamente combinata alla macchina corporea, l’Ingegnere cosmico s’era dimenticato d’infondergliela; sotto l’aspetto d’un giulivo imbonitore (quale appariva nella fase rampante) appartiene alla famiglia dei caimani, il cui modello Yahweh vanta allo sgomento Giobbe. O meglio, delle tre anime che san Tommaso mutua dallo scibile aristotelico, gli manca l’intellettiva: non pensa, nel senso complesso del fenomeno; al segnale percettivo rispondono riflessi infallibili e questa struttura assicura dei vantaggi sugli animali pensanti, perché il pensiero induce dubbi, stasi contemplative, conclusioni perplesse. Altrettanto utile è il vacuum morale: gli manca l’organo ossia i sentimenti definibili vergogna e colpa; quando mai gli alligatori soffrono nel ricordo delle prede divorate (…). Tale configurazione anomala spiega tante cose: vedi la sicumera con cui nega quel che ha appena detto (è caso raro scoprirlo veridico); o l’urlo belluino con cui assale chiunque pretenda d’applicargli le regole consuete. Insomma, è una macchina: accumula soldi, istupidisce l’audience, divora i concorrenti, tresca imbrogli, falsifica i conti, affattura le norme con l’automatismo delle ruote dentate; non avere coscienza, che risorsa. (…) Se non vanta exploits intellettuali, è solo perché li considera roba da poco (…); e passa quasi incolume nel ridicolo. Trent’anni fa conniventi e profittatori gli aprivano le porte ritenendolo innocuo, divertente, utile: rampava; è arrivato; chi lo sloggia più? (…) Dominus Berlusco assolda quante barbute vuole: fischia e corrono; comanda un apparato letale dell’omicidio bianco e l’adopera; i suoi giornali rodono teschi, affinché ognuno sappia d’essere vulnerabile dai sicari».

Riconoscere la disumanità di questa cosa è la prima condizione per comprenderla.

Nudo per Stalin

NUDO PER STALIN. Il corpo nella fotografia sovietica negli anni Venti
Milano – Museo Fondazione Luciana Matalon
Sino al 30 marzo 2010

La parabola dell’arte nella Russia diventata Unione Sovietica è emblematica. All’innovazione futurista degli inizi segue l’imbalsamazione staliniana. Significativa di tale destino è la vicenda del nudo. Negli anni Venti alcuni fotografi ne fanno un soggetto potente e innovatore. Con l’avvento di Stalin questi artisti vennero giudicati dei “pornografi”, le loro opere distrutte (compresi i negativi), gli autori stessi incarcerati. Il nudo-vestito diventa funzionale soltanto alla celebrazione dei successi economici, alle parate, alla vicinanza col corpo del Capo. Il monoteismo politico, come quello religioso, odia e teme la molteplicità del piacere. Anche per questo il potere è un’espressione di masochismo. Inevitabile che ci siano sempre dei sadici ad approfittarne. Stalin fu uno di questi.

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