Nel belletto della “democrazia” le attuali società rimangono sempre la stessa broda spettacolare e totalitaria. Sui quotidiani italiani di ogni tendenza, e anche sulle loro versioni in Rete, si parla ossessivamente di programmi televisivi; sembra che gli eventi non possano essere raccontati se non attraverso il filtro della loro icona catodica. La televisione trionfa ovunque e totalmente, non soltanto in una società profondamente realityshowizzata come quella italiana. Un gesto politico tanto semplice quanto apparentemente difficile da compiere ma dagli effetti dirompenti prima di tutto sulle vite di chi lo attua e poi -se esteso a una massa sufficientemente critica- sul sistema pubblicitario e commerciale che ci domina sarebbe questo: spegnere il televisore, non riaccenderlo, disfarsene. In cambio ci verrà restituito il tempo, il rifiuto dell’ovvio, lo sguardo straniato e straniante rispetto al veleno che ormai non ci rendiamo più nemmeno conto di assorbire ogni giorno dalla scatola incantatrice e incatenatrice. Per quanto mi riguarda, nessun accordo con l’esistente, nessuna concessione alla miseria televisiva, nessuna complicità col nucleo profondo del dominio contemporaneo.
di Pablo Larraín
Cile, Messico, Germania – 2010
Con Alfredo Castro (Mario), Antonia Zegers (Nancy), Jaime Vadell (Dott. Castillo), Amparo Noguera (Sandra)
Trailer del film
Un carroarmato avanza, lo vediamo da sotto, sentiamo i suoi rumori striduli. Durante una lezione di anatomia, docente e studenti dissezionano cadaveri in autopsia; un dattilografo trascrive le descrizioni dettate dal medico. Lo stesso uomo, si chiama Mario, entra in un teatro nel quale si esibisce come ballerina di varietà Nancy, la sua vicina di casa. Tornano insieme ma l’auto viene bloccata da una manifestazione di Poder Popular. Una mattina Mario trova l’abitazione di Nancy devastata. Lo stesso giorno il reparto di medicina legale in cui lavora è presidiato da militari. Vi arrivano centinaia di cadaveri fino a che lui, il medico e la sua assistente vengono portati in un luogo istituzionale, incaricati di eseguire l’autopsia sul corpo di Salvador Allende.
Un film asciutto e terribile, che come pochi altri è capace di mostrare l’obiettivo ultimo di ogni potente: diventare il sopravvissuto, essere l’unico superstite di fronte alla distruzione dei suoi simili; poggiare il proprio trono su mucchi sterminati di cadaveri. Questo fa Pinochet, questo fa ogni fascismo, questo fanno tutti gli eserciti. Ed è sconvolgente e magnifica la scena nella quale Sandra -assistente del medico- urla la propria angoscia e un profondo disgusto di fronte a quei corridoi, scale, stanze, ricolme di cadaveri. Altrettanto straniante il momento nel quale Nancy e Mario piangono a freddo, senza spiegazione alcuna. Ma è il finale che lascia ammirati per la tecnica e per il coraggio: un accumularsi di mobili davanti a una porta, che è l’esatto corrispondente soggettivo dell’accumularsi dei cadaveri nella nazione uccisa. In entrambi i casi, è in atto una decomposizione, individuale e collettiva.
Dopo l’intenso Tony Manero, Pablo Larraín costruisce un film duro come le pietre e affilato come un bisturi.
Mussolini era certamente assai più colto e meno volgare ma tra i caratteri comuni ai due uomini politici più importanti dell’Italia del Novecento e del XXI secolo uno è evidentissimo: il fascino sessuale che entrambi hanno esercitato sulle masse. Freud e soprattutto Reich colsero bene la natura erotica del rapporto che il capo assoluto intrattiene coi suoi servi adoranti, in particolare nei fascismi. Il caso Berlusconi credo che però vada oltre e costituisca un impensabile gorgo somatico. I governi guidati da questo personaggio hanno prodotto risultati economici e sociali del tutto catastrofici, impoverendo le famiglie, annullando uno Stato sociale pur minimo (sanità, scuola, università, energia, trasporti) a vantaggio anche di dissennate guerre coloniali, raggiungendo il picco della corruzione amministrativa, trasformando l’Italia nello zimbello del pianeta, imponendo una televisione pubblica e privata degna della Romania di Ceausescu. Gli italiani, insomma, “la prendono nel culo” continuamente. E tuttavia sembra che ancora milioni di loro apprezzino, difendano o almeno giustifichino chi li sta violentando. Il disprezzo mostrato da costui verso gli omosessuali appare dunque una forma di denigrazione verso l’intera società da lui sodomizzata ma anche verso se stesso in quanto androgino. Berlusconi racconta infatti che «subito dopo la partita dello scudetto del 1988, un tifoso vede la mia macchina, mi riconosce, si pianta davanti al cofano e grida: “Silviooooo, Silviooooo: sei una gran bella figa!”. È stato il complimento più bello della mia vita» (M. Belpoliti, Il corpo del capo, Guanda 2009, p. 77). Insomma, disprezzando gli omosessuali disprezza la gran figa che è in lui.
(Su questo vortice politico-carnale segnalo un approfondito articolo di Andrea Cortellessa nel numero di ottobre di Alfabeta2, Dalla Pornocrazia alla Mignottocrazia; aggiungo che oggi, 6.11.2010, l’Unità ha pubblicato dei brani da Eros e Priapo di Gadda, dove -tra l’altro- lo scrittore disegna il seguente ritratto del potente narciso: «in lui tutto viene relato alla erezione perpetua e alla prurigine erubescente dell’Io-minchia, invaghito, affocato, affogato di sé medesimo»).
A Cagliari contro agricoltori e pastori; a Milano contro gli studenti; a Palermo contro chi ricordava al papa il vangelo; in Piemonte e in Campania contro donne e anziani. Gente rincorsa nelle strade, tra i campi, ovunque. Cittadini picchiati a sangue. Da parte di chi? Della polizia di stato dotata di manganelli, di armi, di scudi, di elmi. Dotata di furia. Che cosa sono le dittature? Luoghi in cui chi ha usato violenza verso gli inermi può sempre giustificarsi dicendo: «ho obbedito agli ordini». Come i nazionalsocialisti.
L’amico Augusto Cavadi ha pubblicato su Centonove e sul proprio blog un articolo che riferisce della censura immotivata e anticostituzionale esercitata dagli organi di polizia in occasione della visita di Benedetto XVI a Palermo, censura che lo ha toccato anche personalmente. Ho dato ad Augusto questa risposta:
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Io penso e spero che la chiusa del tuo articolo sia ironica. Sai meglio di me come da sempre -diciamo almeno da Costantino e Teodosio ma anche prima- l’essenza della chiesa papista sia il potere. Il potere sempre e comunque, il potere esercitato direttamente o attraverso dei prestanome (imperatori, re, deputati dei parlamenti oligarchici e di quelli democratici), il potere todo modo. Il potere anche dei buoni sentimenti che convincono tanti che in fondo preti e suore del bene lo fanno, andando per esempio ad aiutare i bimbi africani. E ignorando invece che l’Africa era un continente tribale dagli equilibri stabili fino a che non ebbe la disgrazia di ricevere la visita della triade mercante-soldato-missionario cristiano.
Senza il potere la chiesa papista crollerebbe in una decina d’anni. I suoi capi -pontefici, cardinali, vescovi- lo sanno benissimo e per questo non accetteranno mai una chiesa come tu e altri la immaginate e chiedete. E hanno ragione loro. Perché senza il potere si dissolverebbe la sua struttura politica ed essa sarebbe fagocitata da altre autorità, come si vede infatti nelle chiese protestanti. Oppure si potrebbe pensare -sogno mirabolante, surreale come tutti i sogni ma forse possibile- che a capo di questa chiesa fosse eletto un Marcinkus o uno peggiore, che stringesse legami ancora più forti con le massonerie (a parole condannate dai papisti, ma solo a parole), con le banche mondiali, con le mafie di ogni territorio. A quel punto, infatti, l’essenza malvagia della chiesa romana apparirebbe ancora più chiara. E chiara sarebbe la stoltezza dei suoi fedeli, soprattutto di quelli “progressisti” e quindi illusi complici del male.
Come vedi, quanto accaduto a Palermo non solo è comprensibile ma è anche paradigmatico e necessario poiché del tutto coerente con duemila anni di legame totale con i poteri di ogni risma, con le guerre, con l’oppressione, con l’ingiustizia. Il Regno dei Cieli apparirà anche quando i capi di questa congrega saranno condotti davanti a qualche tribunale per rispondere di crimini contro l’umanità. Quali crimini? Basta sfogliare un qualsiasi manuale di storia per trovare molte risposte. L’ultima, ma solo in ordine di tempo, è il sostegno esplicito, costante e convinto a un personaggio come s.b., il quale poi ricambia con la censura totalitaria di cui parla il tuo articolo (oltre che con tante altre regalie finanziarie e sociali).
Rassègnati, caro amico, contro la chiesa papista “non praevalebunt”. Perché dovrebbero essere “le porte degli inferi” a ribellarsi contro se stesse.
Le origini sociali della dittatura e della democrazia
Proprietari e contadini nella formazione del mondo moderno
di Barrington Moore jr
(Social Origins of Dictatorship and Democracy. Lord and Pesant in the Making of the Modern World, Bacon Press, Boston 1966)
A cura di Domenico Settembrini
Presentazione di Luciano Gallino
Einaudi, Torino 1979 (1969)
Pagine XXIV-612
Il sottotitolo di questo libro ne indica con esattezza l’argomento. Contadini e proprietari terrieri hanno fornito un contributo decisivo alla formazione delle strutture sociali contemporanee ma con esiti ben differenti e anche paradossali.
La rivoluzione capitalista e borghese verificatasi in tempi e modi diversi in Inghilterra, Francia, Stati Uniti ha avuto come condizione l’estinguersi della classe contadina: «la scomparsa della classe contadina significò infatti che la modernizzazione poté procedere in Inghilterra senza essere ostacolata da quel grosso serbatoio di forze conservatrici e reazionarie che si manifestarono in certi momenti dello sviluppo in Germania e in Giappone, per non parlare dell’India. Così venne inoltre eliminata dal novero delle possibilità l’eventualità di una rivoluzione contadina sul tipo russo o cinese» (pag. 34). Anche in Francia l’alleanza tra borghesia e contadini giocò a favore della prima e negli Stati Uniti non esisteva una radicata tradizione rurale. Insomma, «sbarazzarsi dell’agricoltura come attività sociale fondamentale costituisce uno dei prerequisiti per il successo della democrazia» (484).
In Asia furono tre le vie verso l’industrializzazione: la rivoluzione contadina in Cina; l’alleanza fra élite rurali e urbane in Giappone (che, come in Germania, condusse al fascismo); il caso atipico dell’India, in cui l’assenza di qualsiasi rivoluzione dall’alto o dal basso ha prodotto una forma instabile di democrazia.
In ogni caso, la struttura portante della storia è la violenza: «attraverso tutta la storia conosciuta, la sorte comune a tutte le società umane è stata quella di essere teatro di lotte, scontri, contrasti, appropriazioni violente, accompagnate da molta ingiustizia e molta repressione» (150). Barrington Moore rifiuta di legittimare questa violenza universale ma respinge anche ogni sua demonizzazione e osserva come il carattere «pacifico» della Rivoluzione inglese derivi in realtà dalla violenza esercitata nel periodo precedente; come l’aver evitato una rivoluzione abbia favorito il fascismo giapponese; come la pace sociale e la sottomessa docilità delle masse indiane sia causa di enorme miseria e di stermini apparentemente naturali ma in effetti ben radicati nella struttura sociale e nella storia dell’India. In definitiva, «la conclusione a cui sono mio malgrado dovuto giungere in seguito all’esame dei fatti è che i costi della moderazione sono stati almeno altrettanto atroci di quelli della rivoluzione, forse anzi molto di più» (570).
Moore osserva che il potere non si limita a costituire l’inevitabile strumento di convivenza tra interessi differenti ma sia sempre anche una struttura criminale e oppressiva, in ogni caso al servizio di alcuni gruppi contro altri. Ad esempio, «il contributo arrecato dall’aristocrazia alla concezione e alla realizzazione di una società libera è stato perciò pagato a un prezzo sociale spaventoso» (552). L’Autore è, in generale, convinto che molti progressi politici -verso la libertà- e sociali -verso l’industrializzazione- siano sempre pagati dai gruppi più poveri e diseredati e comportino un notevole peso di costrizione. La storia umana presenta, così, anche un carattere tragicamente ironico: «una volta di più essi [i contadini cinesi] costituirono la forza principale per portare alla vittoria un partito che si pone l’obiettivo di realizzare con l’uso spietato del terrore una fase della storia, che esso ritiene inevitabile, in cui la classe contadina cesserà di esistere» (253).
Nella sua Presentazione, Luciano Gallino ben evidenzia la grande originalità di questo testo ormai classico negli studi storico-sociali, il suo porsi al di là di schemi consolidati. Le tesi di Moore costituiscono uno «stimolo irritante per ogni occhio di tipo ideologico» (X), il loro muoversi in direzione «dell’ideale della società decente, concretamente possibile a un certo grado di evoluzione storica, […] distinto e opposto a quello di società ottima -inevitabilmente sfociante in qualche forma di persecuzione» (XII).
I decenni che ci separano dal libro hanno reso il progetto di una società decente, «intesa come una società senza guerra, povertà e grossolane ingiustizie» (XII), un ideale di per se stesso rivoluzionario e assai difficile da raggiungere. Moore non difende i grandi racconti ideologici della modernità -liberalismo, comunismo- ma neppure la conservazione delle condizioni attuali (e sempre peggiori) di vita collettiva. E offre con questo un’indicazione metodologica di grande onestà scientifica ed etica: «per tutti gli studiosi di scienze umane la simpatia per le vittime del processo storico e lo scetticismo verso le pretese dei vincitori costituiscono una salvaguardia essenziale contro il pericolo di lasciarsi abbindolare dalla mitologia dominante» (590).