Skip to content


«Non mi hai salvato»

Cosmopolis
di David Cronenberg
Canada, 2012
Con: Robert Pattinson (Eric Packer), Paul Giamatti (Benno Levin), Kevin Durand (Torval), Sarah Gadon (Elise Shifrin), Juliette Binoche (Didi Fancher), Samantha Morton (Vija Kinski)
Trailer del film

«L’istante del sopravvivere è l’istante della potenza», il potente è il superstite di fronte alla distruzione dei suoi simili. Questa definizione di Elias Canetti (Massa e potere, Adelphi, p. 273) si attaglia perfettamente a Eric Packer che nella sua Limousine diventata per lui tana, casa, ufficio, tempio, attraversa New York da un capo all’altro di un giorno imprecisato. Inimmaginabilmente ricco, questo giovane squalo vive della morte altrui. Morte dei loro beni, della loro autonomia, dei loro progetti, del loro eros. Tutti assorbiti, divorati e defecati nello spazio inattaccabile della lunga, lunghissima automobile bianca alla quale i colpi e le scritte dei cortei antisistema sembrano solo regalare il glamour di un’opera d’arte pop. Ma dove sta andando Packer in un giorno così sbagliato? Dal vecchio barbiere della sua infanzia, per farsi «sistemare il taglio». Un medico lo visita durante il tragitto facendogli un check-up completo. Scopre di avere «la prostata asimmetrica», così come il taglio sbagliato dei capelli. È questa asimmetria che il finanziere freddo e calcolatore non ha previsto. E che lo porterà a perdere centinaia di milioni di dollari in poche ore. Packer va verso colui che lo sta cercando per ucciderlo, un oscuro impiegato del suo impero finanziario che è stato da lui stritolato come tanti altri. Nella magnifica scena finale, costui gli punta la pistola dicendogli due volte «Tu non mi hai salvato, tu non mi hai salvato». Esattamente come il capitalismo non ha salvato dalla miseria miliardi di esseri umani, mentre era proprio questa salvezza che prometteva e che promette ancora.

Inquietante e gelido, fisico e virtuale, metafisico e antispettacolare, Cosmopolis è un film di enorme intelligenza anche perché basato sulla scrittura dell’omonimo romanzo di Don DeLillo. Come una volta venne detto dei film di Debord, qui non si esprime una teoria attraverso un racconto cinematografico ma si cerca di filmare direttamente la teoria. Una teoria che spiega come «il tempo sia diventato un bene aziendale». Poiché siamo tempo incarnato, questo significa che il Capitale sta succhiando il sangue dei nostri corpi sino a uccidere se stesso. L’interpretazione apparentemente scadente di Robert Pattinson nel ruolo del protagonista è forse funzionale all’asimmetria del film. Questo attore che sembra un “vampiro rincoglionito” -giusta l’efficace espressione dell’amica Silvana Mazza- sembra infatti dare al film tutto il suo non senso. Un non significato che, naturalmente, non è del film ma è della Finanza sprofondata nella sua propria luccicante barbarie.

Cesare / Contro il potere

Piccolo Teatro Strehler – Milano
Giulio Cesare
di William Shakespeare
traduzione Agostino Lombardo
ideazione e progetto scenico Marco Rossi e Carmelo Rifici
luci A.J. Weissbard
costumi Margherita Baldoni
musiche Daniele D’Angelo
adattamento drammaturgico Renato Gabrielli
con: Massimo De Francovich (Giulio Cesare), Marco Foschi (Bruto), Sergio Leone (Cassio), Danilo Nigrelli (Antonio), Federica Rosellini (Porzia), Giorgia Senesi (Calpurnia), Marco Balbi (Cicerone), Max Speziani (Indovino)
regia Carmelo Rifici
Produzione Piccolo Teatro di Milano – Teatro d’Europa
Sino al 6 maggio 2012

Niente toghe, niente templi e colonne, niente piazze. Solo l’essenza del potere. Rome is a room. Questo spettacolo traduce alla lettera l’intraducibile gioco di parole con il quale Shakespeare definisce la struttura chiusa del potere, penetra nella sua dimensione costantemente cospiratrice, segreta, onirica («Now is it Rome indeed and room enough, / When there is in it but one only man», atto I, seconda scena).
La regia di Carmelo Rifici dà grande risalto ai sogni, ai presagi, alla magia. Si comincia con l’indovino che enuncia monconi di frasi, di visioni, di paure e intorno al quale -improvvise- si accendono delle fiamme. Gli incubi di Calpurnia, moglie di Cesare, sono contemporanei all‘insonnia di Bruto e di Porzia. E il terrore della notte si scatena in tempeste, allucinazioni, squarci.
Ma è un sogno, questo, che si intreccia con il razionalistico piano inclinato dell’ambizione che tutti afferra e che si esprime nella elegantissima retorica dei discorsi di Bruto e di Antonio. Il primo tiene la sua conferenza stampa dopo l’assassinio di Cesare, argomentandone la necessità e i vantaggi per l’intera Roma; il secondo parla in un obitorio, con il popolo romano seduto in poltrona nelle proprie case -come fosse davanti allo schermo televisivo-, pronto a trasformare il sostegno ai cesaricidi in impulso di vendetta contro di loro, mano a mano che il raffinato eloquio di Antonio trasforma Bruto e Cassio da “uomini d’onore” in volgari traditori e assassini, rosi dall’ambizione assai più di quanto lo sia stato Cesare.
La scena si volge poi a descrivere i congiurati e i loro nemici nelle stanze degli stati maggiori, a stabilire tattiche belliche, a impartire ordini, a ricevere dispacci, a esultare per la vittoria o a prendere atto del fallimento. Tutti, comunque, burattini in mano alla volontà di potere, guidati da passioni mascherate dietro parole come “libertà, onore, popolo, giustizia”, trasparenti e inutili maschere razionalizzanti.
Nella lettura e nella messinscena di Rifici, Cesare «intuisce la fine e decide di consegnarsi alla morte, innescando lui stesso i conflitti perché l’azione possa precipitare velocemente» (Programma di sala, p. 8); Antonio utilizza il linguaggio come la più potente arma atta a condurlo al suo vero obiettivo: il potere; il popolo è pronto a seguire l’ultimo che parla; una geometrica freddezza intesse il dipanarsi degli eventi con il loro inevitabile esito, la morte.
«Cowards die many times before their deaths;
The valiant never taste of death but once.
Of all the wonders that I yet have heard
It seems to me most strange that men should fear;
Seeing that death, a necessary end,
Will come when it will come».
[I vigliacchi muoiono tante volte prima della loro morte: il coraggioso non assapora la morte che una volta sola. Di tanti prodigi che ho sentito il più singolare a me sembra che un uomo possa averne paura. La morte è una necessaria conclusione: verrà quando verrà» (atto II, seconda scena)]
Sono le parole con le quali Cesare risponde alle paure di Calpurnia. Parole come queste, la loro bellezza, danno ragione a Canetti quando afferma che a contrastare l’aculeo del potere non serve altro potere ma la filosofia, l’arte, il linguaggio: «Così i morti si offrono come il più nobile nutrimento ai vivi. La loro immortalità torna a vantaggio dei vivi: grazie a questo capovolgimento del sacrificio dei morti, tutto prospera. La sopravvivenza ha perduto il suo aculeo e il regno dell’inimicizia è alla fine» (Massa e potere, Adelphi, p. 336).

L’Università (s)valutata

3+2, CFU (Crediti Formativi Universitari pari a 25 ore ciascuno), debiti formativi, GEV (Gruppi Esperti Valutazione), VQR (Valutazione della qualità della ricerca). Le parole sono tutto. E quelle che ho indicato sono alcune delle espressioni dominanti nel linguaggio accademico contemporaneo. Una vera e propria neolingua imposta alle università italiane ed europee da una penosa scimmiottatura delle modalità e delle tradizioni degli Stati Uniti d’America. Paese, è bene ricordarlo, dove a pochi e costosissimi centri di eccellenza si contrappongono migliaia di università che valgono assai meno di un buon liceo italiano.
Un linguaggio contabile, bancario, aziendalistico che si pone l’esplicito obiettivo di formare non dei cittadini pensanti ma degli impiegati e dei funzionari del pensiero unico mercantile e capitalistico; una realtà che ha danneggiato prima di tutto gli studenti, costretti ad accumulare “crediti formativi” come fossero punti del supermercato, studenti sempre più trafelati nello studio e dunque inevitabilmente superficiali nella preparazione.
Adesso tocca ai docenti. Entro il 25 di questo mese di marzo 2012, infatti, ciascun professore e ricercatore dovrà indicare da uno a tre fra i lavori pubblicati dal 2004 al 2010, i quali saranno sottoposti ai GEV, dalla cui valutazione dipenderanno i futuri finanziamenti di ogni Ateneo. Fuori dall’Università si sa poco o nulla di tali pratiche; ecco perché ne scrivo anche qui.
Non è forse tutto questo un principio di giustizia e di riconoscimento del merito di chi ha ben studiato, scritto, fatto ricerca? Lo sarebbe, certo, se i criteri fossero trasparenti, rispettosi della specificità delle diverse aree del sapere, miranti a incoraggiare gli studi più rigorosi, innovativi, non conformisti. E invece la realtà è esattamente l’opposto. L’obiettivo è discriminare le Università in relazione all’acquiescenza dei loro membri al potere accademico, politico, editoriale.
Lo si può comprendere leggendo alcuni documenti di diversa fonte, dai quali riporto dei brani invitando a una lettura integrale tramite i link. Ripeto quanto scrissi qualche tempo fa: non è questione di studenti, professori, accademie. È questione del futuro e del presente di un pensiero libero, che non riduca il sapere e la ricerca a servi del sistema economico-politico dominante.

«Che cosa sta succedendo in questi giorni nell’Università italiana? In base alla “riforma” Gelmini (assunta in toto dal governo Monti) si è aperto, nel sacro nome del Merito, il capitolo della Valutazione, pomposamente denominato Vqr (“Valutazione sulla qualità della ricerca”). […]
Aree e linee di studio, in taluni casi intere discipline, saranno discriminate, con gravi limitazioni, di fatto, della libertà e del pluralismo. Non solo. Siccome la Valutazione si muove sulla base di sistemi a numero chiuso (per esempio, si stabilisce in partenza il rapporto percentuale tra le riviste di fascia A e quelle collocate nelle fasce inferiori), si produrrà un esito di frustrazione, non di stimolo: poiché è materialmente (e “politicamente”) impossibile che tutti pubblichino su riviste A, agli altri (spesso esclusi perché estranei al mainstream o per ragioni di non-appartenenza a forti cordate accademiche) si trasmetterà un messaggio molto chiaro: “non vale la pena che vi affatichiate, tanto…”. Qualcuno potrebbe pensare che si tratti di puro autolesionismo, cioè di stupidità: alle università e al governo dovrebbe interessare stimolare l’attività, non già deprimerla. Ma sarebbe – temiamo – un’obiezione ingenua. Come dicevamo, la Valutazione è un’arma; il proposito è (anche) quello di neutralizzare voci scomode (o soltanto periferiche), concentrando risorse e poteri nelle mani di ristrette cerchie di “ricercatori eccellenti”. Da questo punto di vista, svalutare (e scoraggiare) è utile quanto premiare. Tanto più che l’Università pubblica è costosa e deve “dimagrire” – sappiamo a vantaggio di chi. […]
Aggiungiamo qualche osservazione in merito alle conseguenze micidiali (e di dubbia legittimità) che questo sistema genererà a danno della piccola e media editoria. Far valere (di diritto o di fatto: come dicevamo, una caratteristica di tutta questa faccenda è la scarsissima trasparenza proprio in merito ai criteri di giudizio) una graduatoria tra le case editrici significa, in sostanza, impoverire il panorama culturale dell’intero Paese e renderne agevole la colonizzazione da parte di poche imprese private (e dei potentati accademici). […]
In sostanza, alcuni rispettabili imprenditori privati potrebbero presto diventare i Signori della ricerca scientifica italiana, poiché dalle loro insindacabili decisioni dipenderà la sanzione della qualità delle pubblicazioni, con tutte le conseguenze che da ciò discendono. E se a loro la Valutazione conferirà il tocco di Creso (qualsiasi schifezza avranno deciso di pubblicare potrà miracolosamente trasformarsi in una pietra miliare del progresso scientifico), una pietra tombale verrà invece posta sugli “sfigati” editori piccoli e medi, ridotti al rango di diffusori di merce di scarto.
Questi sono, ci pare, alcuni prevedibili – e già, in parte, attuali – effetti perversi della Valutazione. Su di essi (nonché sui gravi conflitti d’interesse inerenti a giudizi formulati da soggetti inclusi nella platea valutata) varrebbe la pena di confrontarsi prima che un sistema varato con il pretesto della meritocrazia sancisca definitivamente l’emarginazione di posizioni eterodosse e lo strapotere di grandi editori e lobbies accademiche».
(Alberto Burgio – Maria Rosaria Marella, Università, la Valutazione sbagliata, il manifesto, 21.3.2012 )

«Contro l’ERIH e la “valutazione dei tecnocrati” che secondo alcuni esso incarna, si assiste in questi giorni al capitolo forse più qualificato della continua, esasperata e taciuta serie di contestazioni che serpeggia da anni in Europa nella ricerca e nella formazione superiore. Dopo l’“onda” italiana e le rivolte sociali in Grecia, di cui l’università è stata ancora una volta epicentro, ecco in Gran Bretagna l’“Independent” del 22 gennaio dedicare una pagina indignata ad accusare i meccanismi bibliometrici del RAE di favorire tra l’altro “miopia intellettuale […], guasta convenzionalità […], e disonestà generalizzata”. Negli stessi giorni l’ERIH è stato costretto a ritirare la sua classificazione delle riviste, dopo che i direttori di 61 riviste internazionali di storia della scienza e di filosofia hanno dichiarato che avrebbero aperto il prossimo numero con un editoriale contenente la richiesta di non indicizzarle: “Non vogliamo avere parte in quest’attività pericolosa e sbagliata” (in “un universo in cui tutto” è destinato a “dar luogo a […] hit-parades”, come si legge nell’editoriale dell’ultimo fascicolo della “Revue philosophique”). Ancora, è di questi giorni in Francia una rivolta profonda –di cui qui non giunge notizia– contro le nuove leggi Sarkozy sull’università, incentrate sulla valutazione. Il “Nouvel Observateur” del 14 febbraio intitola: Une période de glaciation intellectuelle commence»
(Valeria Pinto, Sulla valutazione, dagli Atti di un Convegno svoltosi a Napoli nel 2009)

«Quanto tale immagine sia “realistica” lo si può constatare osservando le liste prodotte per Filosofia teoretica (ricavabili dalle attribuzioni tra parentesi nella lista unificata), che confermano tutte le precedenti riserve espresse dalla SIFIT [Società italiana di filosofia teoretica] sulla possibilità di produrre ranking sensati nei termini imposti alle Società. Si tratta di una selezione ampiamente arbitraria, dove si segnalano presenze incongrue e nella quale, viceversa, non sono neppure presenti riviste che ospitano una ampia percentuale della produzione dei docenti del settore. Il risultato, oggettivo, è l’assenza di rispetto per le pratiche riconosciute in una comunità scientifica. […]
Di fronte a questo stato di cose, la SIFIT non riconosce validità, anche solo orientativa, a quanto indicato nel documento GEV e respinge come una grave distorsione l’uso degli strumenti proposti, del tutto inidonei a favorire una valutazione fondata».
(Comunicato della SIFIT sui “Criteri” del GEV area 11, 29.2.2012)

L'arte, il gioco, il desiderio

Mario Persico NO
MADRE – Museo d’Arte Contemporanea Donna Regina – Napoli
A cura di Mario Franco
Sino al 19 marzo 2012

Esponente della Patafisica, Mario Persico ne dispiega tutta la carica distruttiva del potere e dei dogmi, coniuga impegno civile e accesi cromatismi, eros e politica. Perché l’opera d’arte non è una rappresentazione conclusa ma la sua disseminazione in una pluralità di significati. Al MADRE di Napoli si possono così gustare sedici opere divise in quattro sezioni: Scultura, Oggetti praticabili, Teatro, Erotismo. Il visitatore è spesso chiamato a diventare parte attiva attraverso le Opere estensibili, che possono mutare aspetto e forma mediante uno spostamento delle loro parti. L’opera si dispiega in questo modo non soltanto nello spazio ma anche nel tempo. Il tempo di chi ha guardato, oltre il tempo di chi ha ideato. Le Gru erotogaie mostrano la forza desiderante, la pulsione fisica dalla quale l’opera di Persico scaturisce. Sembra di vedere L’Anti-Edipo di Deleuze e Guattari farsi scultura, diventare la plastica manifestazione del desiderio animale che siamo. Quel desiderio senza il quale nessuna arte sarebbe mai nata. Il No che dà titolo alla mostra è un no alla riduzione dell’economia libidinale all’economia mercantile, un no alla miseria senza colori del presente. 

 

Hoover, il potere

J. Edgar
di Clint Eastwood
USA, 2011
Con: Leonardo DiCaprio (J. Edgard Hoover), Judi Dench (Madre di Hoover), Armie Hammer (Clyde Tolson), Naomi Watts (Helen Gandy)
Trailer del film

J.Edgar Hoover fu direttore dell’FBI dal 1924 al 1972, data della sua morte. Lo rimase con otto presidenti degli USA. Basterebbe questo dato cronologico-politico per comprendere che quest’uomo fu tra i più potenti del Novecento, capace di trasformare una struttura investigativa secondaria in una macchina il cui funzionamento si basava sullo spionaggio, sul ricatto universale, sull’intimidazione, sulla violenza, sulla menzogna sistematica. I fascicoli riservati, da lui raccolti nella sua infinita carriera, divennero leggendari e anche se poi scomparsi influenzarono decisamente e a fondo la politica statunitense, interna ed estera. Hoover nutriva un autentico odio nei confronti di chiunque si ispirasse anche lontanamente alle idee socialiste, ai diritti civili, a principi di equità sociale. Una delle sue prime vittime fu l’anarchica Emma Goldman, una delle ultime Martin Luther King.

«Si, mamma», è questa una delle chiavi interpretative del film. Hoover non si sposò mai e sembra avesse tendenze omosessuali. La venerazione verso la madre, l’ubbidienza al suo intransigente moralismo religioso, vengono visti come la fonte primaria dei comportamenti di Hoover. Nel descrivere un simile personaggio, Eastwood si muove sul crinale tra i dati storici che ne rivelano sempre più il carattere perverso e la scelta di far prevalere il punto di vista del protagonista. La struttura del film è infatti a incastro, con Hoover anziano che detta le sue memorie e quindi racconta le azioni compiute e gli eventi vissuti. Li racconta, naturalmente, dalla sua visuale. Il tutto immerso in una tonalità cromatica e narrativa piuttosto fredda, che si ravviva in due scene: la violenta e appassionata dichiarazione d’amore tra lui e il suo principale collaboratore Clyde Tolson; la dettatura alla sua decennale segretaria e amica Helen Gandy di una lettera calunniosa scritta allo scopo di indurre Martin Luther King a rifiutare il premio Nobel per la pace. A intervalli regolari e implacabili emerge la figura della madre, un’autentica Erinni possessiva e adorante il figlio.
Qualcosa di funereo intride tutto il film.

Speculare alla speculazione

Il numero 15 (dicembre 2011) di Alfabeta2 pubblica un ampio dossier dal titolo «Debito Crisi Potere» che spiega con chiarezza e lucidità le dinamiche politico-economiche che stiamo subendo e le cui vere modalità nulla hanno a che vedere con quanto stampa, televisione e governo vanno enunciando. Andrea Fumagalli così descrive il meccanismo della speculazione:

Alcune grandi società iniziano a vendere i titoli di Stato dei paesi che, a loro giudizio (d’accordo con le società di rating), corrono il rischio di avere difficoltà di finanziamento. Ne consegue il deprezzamento del valore dei titoli, inducendo aspettative negative sul loro valore atteso nel futuro. I tassi d’interesse relativi all’emissione dei nuovi titoli iniziano a crescere, ampliando il differenziale (spread) con l’interesse sui titoli di Stato considerati più sicuri (come quelli tedeschi). Tale tendenza si autoalimenta sino a creare un’emergenza […] che obbliga la Banca Centrale a intervenire comprando i titoli di Stato in cambio di nuova liquidità monetaria e, allo stesso tempo, chiedendo e imponendo misure economiche drastiche volte fittiziamente a ridurre il deficit pubblico. È il segnale che la speculazione ha vinto. Tutto ciò è abbastanza noto. Ciò che è meno noto è che, in contemporanea, il valore dei titoli derivati che assicurano i titoli di Stato (Credit Default Swaps, Cds) cresce enormemente, in modo proporzionale all’ampliarsi dello spread sui tassi di interesse. Ciò consente ai possessori dei Cds di poter lucrare elevate plusvalenze.

Chi sono tali “possessori”? Sono cinque grandi banche, tra le quali la Deutsche Bank, che nei primi mesi del 2011 «inizia a vendere circa 7 miliardi di titoli di Stato italiani (Btp)». C’è di peggio: «È noto che Mario Monti, stimato economista, è, oltre che presidente europeo della Trilateral, anche International Advisor di Goldman Sachs, una delle società finanziarie che controllano, come Deutsche Bank, il mercato dei Cds». Che cosa significa? Significa che a curare la malattia italiana è stato chiamato uno degli agenti patogeni che l’ha prodotta. Per quanto capillare e massiccia, la propaganda non può quindi nascondere che «le linee di politica economica che vengono imposte all’Italia (come alla Grecia) non hanno come obiettivo il risanamento dei conti pubblici, ma lo scopo di sancire esplicitamente il primato del potere economico-finanziario su quello politico (dal controllo sociale politico-mediatico al controllo disciplinare della finanza)». Fumagalli ne deduce un «diritto al default» da parte degli stati, anche perché «solo un terzo del debito pubblico italiano ha a che fare con l’attività di risparmio. Il resto è pura speculazione, nella maggior parte dei casi, internazionale» (Aspetti della dittatura finanziaria, p. 8).
Francesco Indovina conferma che «non pagare il debito è una scelta politica che un governo alternativo a quello attuale dovrebbe prendere» poiché «i provvedimenti presi e allo studio sono finalizzati a salvare la speculazione e le banche che a quella tengono il sacco» (Niente è come prima, p. 9). La verità è che «oggi, l’esplosione del debito pubblico in Europa è dovuta principalmente ai piani di salvataggio del mondo bancario e finanziario dopo la crisi del 2008» (Stefano Lucarelli, Il debito pubblico come tragedia culturale, p. 10).
Senza un’alternativa che deve essere in primo luogo culturale e poi di conseguenza politica -ma che governo, parlamento e stampa sembrano ignorare del tutto- «il ruolo del nostro paese, di questa Italia impoverita e depressa, all’interno dell’Europa sarà probabilmente quello di fornire una riserva di forza lavoro dequalificata e sottopagata; di fungere da discarica per i rifiuti dei paesi economicamente più forti, e da fornitrice di servizi finanziari occulti tramite le nostre mafie. Questa profonda involuzione renderà il nostro paese in sostanza un paese del Terzo Mondo» (Marino Badiale e Fabrizio Tringali, L’euro non è un dogma, p. 11).
Chi sono i veri “patrioti”? Coloro che svendono la Nazione alla speculazione delle grandi banche senza patria o quanti si sforzano di comprendere e che quindi non cadono nella favola dei “decreti salva-Italia”? Decreti che attuano in realtà «una prassi alla Robin Hood rovesciata: prendere al povero per dare al ricco. La prassi abituale del finanzcapitalismo, che drena reddito dai lavoratori dipendenti a favore di una cosca ristretta di azionisti, banksters e speculatori» (Augusto Illuminati, Bauci e Filemone, p. 13).

I filosofi

«La politica è una scienza, che si deve imparare, e non un modo per vivere senza lavorare (nel migliore dei casi) o per delinquere e arricchirsi impunemente (nel peggiore e molto diffuso). Spero che arrivino a capire che, come nessuno può diventare medico, ingegnere, magistrato (e tante altre cose) senza studi regolari, esami e correlativi diplomi, così nessuno dovrebbe esercitare la professione di “politico” (che vuol dire gestire lo Stato) solo per esperienza pratica, militanza nei partiti, tirocini da portaborse (di nuovo nel migliore dei casi) o per ricchezza, spregiudicatezza e legami criminali» (Bruno Tinti, Il Fatto quotidiano, 25.11.2011 ).
«Non ci sarebbe tregua dei mali nelle Città, e forse neppure nel genere umano […] se prima i filosofi non raggiungessero il potere negli Stati, oppure se quelli che oggi si arrogano il titolo di re e di sovrani non si mettessero a filosofare seriamente, sì da far coincidere nella medesima persona l’una funzione e l’altra -ossia il potere politico e la filosofia- e da mettere fuori gioco quei molti che ora perseguono l’una cosa senza l’altra» (Platone, Repubblica, 473 d, trad. di R. Radice).
Al filosofo, dunque, bisognerà affidare il potere, a chi si è dedicato con impegno, metodo e passione alla ricerca sugli enti e sull’umano. Il potere deve andare al filosofo poiché soltanto a lui appare «il legame originario di tutte queste cose» (Id., Epinomide, 992 a); costui non solo saprà governare in maniera disinteressata ma non potrà fare a meno di proiettare sulla materia politica il rigore, la necessità, la freddezza del cosmo.

Vai alla barra degli strumenti