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I Mann e la Germania

Teatro Franco Parenti – Milano
Mephisto
Ritratto d’artista come angelo caduto

liberamente ispirato alla carriera di Gustaf Gründgens
raccontata da Klaus Mann
Regia e drammaturgia di Luca Micheletti
Con Federica Fracassi, Luca Micheletti, Michele Nani, Massimo Scola, Lidia Carew

La famiglia Mann ebbe un rapporto tormentato con la Germania. Le Considerazioni di un impolitico di Thomas (1918), per quanto successivamente in parte criticate dallo stesso autore, costituiscono una esplicita presa di posizione a favore della Kultur contro la Zivilisation e dunque dell’identità tedesca contro la decadenza europea. Mephisto di Klaus (1936) va invece in direzione opposta e rappresenta una dura denuncia del tradimento che gli artisti tedeschi attuarono aderendo al nazionalsocialismo. La vicenda di Hendrik Höfgen è quella del cognato di Klaus -l’attore Gustaf Gründgens- il quale transitò da posizioni rivoluzionarie all’adesione al regime nazista, con tutti i vantaggi che questo comportò.
Pur affrontando una tematica sempre attuale -qual è la relazione tra arte, pensiero, potere- il romanzo di Klaus Mann mostra i suoi anni e il suo radicamento in un contesto esistenziale e politico assai preciso. Luca Micheletti e gli altri ottimi attori fanno di tutto per renderne vivi i contenuti ma lo spettacolo risulta un poco kitsch e molto urlato. Forse certi libri bisogna lasciarli riposare in pace.

James Bond, l’anarchico

007 Spectre
di Sam Mendes
USA – 2015
Con: Daniel Craig (James Bond), Léa Seydoux (Madeleine Swann), Ralph Flennes (M), Christoph Waltz (Oberhauser), Ben Whishaw (Q), Andrew Scott (Denbigh)
Trailer del film

«I morti sono vivi». La prima inquadratura del film è questa frase, la quale introduce un efficace piano sequenza sulla festa dei morti a Città del Messico. Ci si sposta poi a Londra, Roma, Tangeri, Tokyo e altrove. Non manca nulla degli elementi classici della saga bondiana: lunghi e spettacolari inseguimenti, mezzi di trasporto di tutti i tipi, tecnologie miniaturizzate, complotti mondiali, ironia.
E James Bond conferma sempre la propria natura di immortale, identica agli eroi di tutte le saghe, che non possono morire qualunque cosa accada.
Ma in questo film ci sono almeno due elementi di novità, uno abbastanza ovvio, l’altro meno.
Il primo è che il potere si è spostato dal danaro e dalle armi alle informazioni, la raccolta delle quali costituisce l’obiettivo della Spectre, una sorta di fusione di facebook, google, apple/microsoft, che ha l’obiettivo di controllare sin nei minimi dettagli la vita di tutti, proprio di tutti. È sempre la profezia di 1984 che va realizzandosi. Non nei film di James Bond ma nella realtà.
Il secondo elemento è che la Spectre è composta dai nove stati più potenti del mondo. Non sembra quindi esserci più differenza tra gli stati e i criminali, gli stati sono criminali. Notevole.
Lascio quindi la parola a Dario Sammartino, che mi ha suggerito di vedere 007 Spectre dando delle indicazioni che corrispondono perfettamente ai suoi contenuti.

«Ti segnalo tre punti sagaci del soggetto dell’ultimo Bond, che forse ti incuriosiranno.
1) Lo scopo delle fatiche dell’eroe è di impedire l’avvio di un sistema di controllo mondiale di comunicazioni e dati. In apparenza il sistema è promosso da nove potenze, ma di fatto è asservito ad un’organizzazione criminale. Non so se rientrava nelle intenzioni dei soggettisti ma la conclusione è che potere e crimine coincidono. Inoltre il dirigente “cattivo” dei servizi segreti giustifica la scelta con la considerazione che il potere va attribuito a coloro che possono davvero esercitarlo, cioè in assoluta solitudine e senza gli impedimenti formali della democrazia: lo scopo finale del capitalismo finanziario attualmente al potere. Che J Bond stia diventando anarchico?
2) Sulle nove potenze, una è contraria al sistema (il Sudafrica). Prontamente l’organizzazione criminale esegue un attentato gravissimo, ed anche il Sudafrica si adegua. È la vecchia ma sempre efficace strategia della tensione: forse i soggettisti avranno studiano la storia italiana degli anni ’60/’70.
3) L’eroina si chiama Madeleine Swann, e di fatto aiuta proustianamente Bond a ricordare il suo passato».

Aggiungo che il film è un grande divertimento.

Facebook totalitario

«Es gibt Sklavenmärkte, bei denen die Sklaven oft die größten Händler sind»
(Ci sono mercati degli schiavi nei quali gli schiavi stessi sono spesso i più grandi mercanti)
Heidegger, Quaderni neri 1931-1938, VI, § 56

 

La creatura di Mark Zuckerberg è stata sin dall’inizio avvolgente e pervasiva delle vite di chi abita in essa. Gli analisti più attenti vi hanno scorto ormai da tempo numerosi elementi tipici di una struttura nella quale il controllo politico-poliziesco è attuato con l’attiva complicità dei controllati; di una cultura del vuoto e dell’infantilismo protratto sino alla maturità; di una vera e propria neolingua.

Gli sviluppi più recenti stanno dando pienamente ragione a chi, come Dario Generali, descriveva già quattro anni orsono facebook nei termini di una lusinga rivolta ai «mediocri con la falsa possibilità di uscire dall’anonimato, dando visibilità pubblica ad azioni ed esistenze straordinariamente banali, con il risvolto esiziale di annullare la privacy e di fissare per sempre quelle banalità a soggetti che magari col tempo potrebbero migliorarsi (o anche, più semplicemente, cambiare la propria condizione sociale) e venire quindi pesantemente danneggiati dalla leggerezza con la quale hanno divulgato i fatti della loro vita» (Fonte). Un elemento dell’analisi di Generali si sta dimostrando persino profetico. Questo: «In passato per cambiare esistenza bastava cambiare ambienti e amici, ora, per chi ha ceduto alle suggestioni di Facebook, il passato non smetterà mai di ritornare insieme alle stupidaggini che gli sprovveduti hanno avuto la superficialità di divulgare». Da qualche tempo, infatti, gli utenti di facebook subiscono quasi quotidianamente l’invito a comunicare a tutti i propri contatti (detti ‘amici’) fotografie e testi pubblicati esattamente lo stesso giorno degli anni precedenti. In questo modo l’oblio -struttura necessaria alla salute mentale degli umani- viene cancellato con il periodico ritorno non soltanto dei ricordi del soggetto ma anche di quelli dei suoi contatti, che lo inondano di immagini e parole del passato.
A ciò si aggiunga il pressante invito a formulare gli auguri a questo e a quello tra i propri contatti, invito che è sempre stato presente in modo discreto sulla piattaforma ma che ora appare subito a tutta pagina in occasione del compleanno di qualcuno dei propri ‘amici’.
Facebook, in altre parole, vuole farci pensare ciò che l’algoritmo ha deciso essere significativo; vuole trasformare la vita dei suoi utenti in base a ciò che per l’algoritmo è più importante; vuole invadere di se stesso il corpomente e il tempo degli umani. Sono questi -pensiero eteronomo, imposizione di una gerarchia dei valori, mobilitazione totale- tre degli elementi caratteristici di ogni struttura e forma totalitaria.

Lo scambio simbolico

Lo scambio simbolico e la morte
(L’échange symbolique et la mort, 1976)
di Jean Baudrillard
Traduzione di Girolamo Mancuso
Feltrinelli, 2007
Pagine 255

Nelle società avanzate il principio di simulazione ha sostituito il principio di realtà. Alla contraffazione della prima età moderna e alla produzione di quella industriale, segue la simulazione, intesa da Baudrillard in termini assai complessi, a partire dalla universale riproducibilità tecnologica, artificiale e mediatica di ogni ente, evento e processo: «Per le opinioni, come per i beni materiali, la produzione è morta, viva la riproduzione!» (pag. 78) e, con essa, una cultura impregnata della morte artificiale e della equivalenza generale di ogni cosa con ogni altra, fondamento dello scambio capitalistico che ha sostituito e distrutto lo scambio simbolico.
Lo scambio tra forza lavoro e salario si fonda sulla morte, «bisogna che un uomo muoia per diventare forza-lavoro. È questa morte che egli monetizza nel salario» (55). La morte diventa così l’equivalente generale della socializzazione. Nel passaggio «dallo scambio simbolico delle differenze alla logica sociale delle equivalenze» (188), reale diventa «ciò di cui è possibile fare una riproduzione equivalente. […] Al termine di questo processo di riproducibilità, il reale è non soltanto ciò che può essere riprodotto, ma ciò che è sempre già riprodotto. Iperreale» (87).
La simulazione è anche il simulacro al quale i rapporti sociali vengono ridotti e la stessa struttura politica della democrazia. Il suffragio universale è in realtà «il primo dei mass-media» in cui «propaganda e pubblicità si fonderanno sul medesimo marketing e merchandising di oggetti o di idee-forza» (77), nel quale le differenze tra programmi e progetti si annullano mediante la distribuzione statistica del 50% per ogni coalizione, tanto che «il voto rassomiglia al moto browniano delle particelle o al calcolo delle probabilità, è come se tutti votassero a caso, è come se votassero delle scimmie. A questo punto, poco importa che i partiti in causa esprimano storicamente e socialmente checchessia –bisogna anzi che non rappresentino più nulla: il fascino del gioco, dei sondaggi, la coazione formale e statistica è tanto maggiore» (81). Baudrillard sintetizza tali dinamiche della politica contemporanea nella formula dura ma efficace «della leucemizzazione di tutta la sostanza sociale: sostituzione del sangue con la linfa bianca dei media» (79). Non solo: coinvolti in questa leucemizzazione, i partiti e i sindacati “rappresentanti dei lavoratori” sono in realtà diventati i loro nemici di classe mentre –a livello di economia universale- il segno monetario si disconnette «da qualsiasi produzione sociale: esso entra allora nella speculazione e nell’inflazione illimitata» (35).
Le forme dell’equivalenza si possono trovare in ambiti molto diversi tra di loro, quali: la centralità nella medicina contemporanea del Körper, del corpo-cadavere, rispetto al Leib, il corpo vissuto; la natura razziale dell’Umanesimo, poiché prima di esso culture e razze «si sono ignorate o annientate, ma mai sotto il segno d’una Ragione universale. Non c’è un criterio dell’uomo, non la divisione dell’Inumano, soltanto delle differenze che possono affrontarsi a morte. Ma è il nostro concetto indifferenziato dell’Uomo che fa sorgere la discriminazione» (137); la profonda corrispondenza tra monoteismo e potere politico unificato, così diverso dallo scambio molteplice dei politeismi; il sostanziale matriarcato delle società senza Padre quali sempre più vanno diventando le nostre “avanzate” strutture sociali, un matriarcato dell’equivalenza tra madri e figli che impedisce la crescita autonoma del «soggetto perverso» il cui lavoro «consiste nell’installarsi in questo miraggio di se stesso e di trovarvi l’appagamento del suo desiderio –in realtà appagamento del desiderio della madre. […] Processo identico a quello dell’incesto: non si esce più dalla famiglia» (127).
L’equivalenza tesa a cancellare ogni differenza si esprime soprattutto nell’utopia negativa e mercantile della abolizione della morte, in ciò che Norbert Elias ha definito la «solitudine del morente» e che Baudrillard descrive come «paranoia della ragione, i cui assiomi fanno sorgere ovunque l’inintelligibile assoluto, la Morte come inaccettabile e insolubile» (179) poiché «tutta la nostra cultura non è che un immenso sforzo per dissociare la vita dalla morte, scongiurare l’ambivalenza della morte a solo vantaggio della riproduzione della vita come valore, e del tempo come equivalente generale. Abolire la morte –è il nostro fantasma che si ramifica in tutte le direzioni: quella della sopravvivenza e dell’eternità per le religioni, quella della verità per la scienza, quella della produttività e dell’accumulazione per l’economia» (162).
Contro questi deliri di equivalenza vanno difesi il senso e la realtà dello scambio simbolico che permette ai primitivi di vivere con i loro morti «sotto gli auspici del rituale e della festa» mentre «noi commerciamo con i nostri morti con la moneta della malinconia» (148).
Ecco perché, rispetto alla sterile superficialità di ogni riduzionismo economicistico, psicologistico, sociologico, Baudrillard può giustamente asserire che «la rivoluzione è simbolica, o non è affatto» (219). Lo spazio del simbolico è infatti l’ambito nel quale l’umano esplica le proprie esigenze più fonde, le speranze assolute, le forme delle culture e delle comunità, la potenza dei sentimenti, l’edificazione delle arti e delle filosofie, la sfera del senso.
L’umano è un dispositivo semantico perché non vive di solo pane e per riuscire letteralmente a muoversi, agire, prendere la costante serie di decisioni che intesse la vita, ha bisogno di trovare un significato –un qualsiasi significato- al tempo che è e che le cose da sole non hanno. L’incessante scambio simbolico in cui la vita consiste comprende in sé anche la morte, soprattutto la morte, e solo in questa com-prensione le può dare un significato né soltanto biologico né malinconicamente disperante né economicamente in perdita ma colmo della pienezza del dono che ogni presente è, anche quello della fine.

Democrazia?

Le recenti elezioni politiche portoghesi hanno visto la vittoria di una sinistra critica nei confronti dell’Europa delle banche. È bastato questo perché il presidente della Repubblica -Anibal Cavaco Silva- attuasse una sorta di colpo di stato, affidando la formazione del governo alle forze sconfitte, favorevoli alla Troika (Commissione Europea, Banca Centrale Europea, Fondo Monetario Internazionale).
Come si sa, in Grecia la volontà dei cittadini è stata calpestata in vari modi.
Se in Italia il Movimento 5 Stelle vincesse le elezioni, ipotizzo che la conseguenza sarebbe un colpo di stato anche violento, orchestrato dalle massonerie e dalle mafie che dominano i partiti -in primo luogo Forza Italia e il Partito Democratico-, le quali stanno letteralmente spolpando la nostra società e la nostra economia.
Sono, questi, alcuni degli eventi che provano come di fatto la democrazia in Europa non esista più, sostituita dalla Troika, dai criminali della finanza. Un processo che consegue dalla vittoria del liberalismo totalitario, il quale in tutto il mondo sta distruggendo con inesorabile miopia culture, differenze, libertà, popoli, pensiero, economie. Lo fa non soltanto con le armi che uccidono i corpi ma anche e soprattutto con l’enorme «manipolazione di massa che è in atto nel mondo occidentale con lo scopo di annientare tutti gli anticorpi in grado di ostacolare la diffusione del pensiero unico liberale, molla e, nel contempo, veicolo del più grande progetto di colonizzazione e sradicamento che l’umanità ha conosciuto» (M. Tarchi, in Diorama letterario, n. 324, p. 3).
È questo imperialismo liberista a produrre fenomeni apparentemente antitetici ma di fatto convergenti verso il tramonto del pensiero. Così nasce anche l’ISIS, che ha tra i suoi scopi il cancellare la memoria storica e i documenti antropologici di intere civiltà la cui struttura è stata o è diversa rispetto all’economicismo ultraliberista. E infatti, a proposito di Palmira e di altre grandi città, Tarchi ha ragione a osservare che

non vi è dubbio che chi rispondesse che, per quanto tragica sia la perdita di vite umane, la cancellazione della testimonianza di una civiltà fiorita due millenni orsono sarebbe un crimine ancor più orrendo, perché attenterebbe alla memoria collettiva di interi popoli, che trascende la somma delle individualità che li hanno composti, sarebbe inchiodato al muro della vergogna mediatica e trattato alla stregua di un cinico barbaro, privo di sentimenti e di spirito civico (Ivi, p. 1).

Analoga a tale devastazione è quella che gli organismi finanziari dominanti esercitano sui lacerti di democrazia appesi al gancio dell’estremismo liberista. Assai chiaro è quanto «ha detto senza fronzoli Jean-Claude Juncker, portavoce degli strangolatori liberali e in subordine presidente della Commissione europea, ‘non ci può essere scelta democratica contro i trattati europei’ (sic)» (A. de Benoist, ivi, p. 6).
Una frase che ha il pregio della chiarezza.

Lager

The Lobster
di Yorgos Lanthimos
Grecia, Gran Bretagna, Irlanda, Paesi Bassi, Francia – 2015
Con: Colin Farrel (David), Rachel Weisz (La donna miope), Aggeliki Popoulia (La donna spietata), Ariane Labed (la cameriera), Léa Seydoux (il capo dei solitari), Olivia Colman (la direttrice dell’albergo), Ashley Jensen (la donna biscotto)
Trailer del film

In un albergo di lusso. Serviti da camerieri inappuntabili. Ottimi pasti, saune, piscine. Splendidi panorami. Può un luogo come questo essere un lager? Sì, può. Perché l’essenza di un lager non è il cibo, le baracche, il freddo -che pure contano, certo- ma è il terrore di un potere implacabile e diffuso. Il potere, in questo caso, che si esercita su chi ha la ventura di rimanere da solo. Che il motivo sia la volontà del soggetto, l’abbandono da parte del compagno/moglie/marito o la sua morte, nessuno può e deve rimanere da solo. In questo albergo gli ospiti hanno 45 giorni di tempo per trovare un altro partner. Se non vi riusciranno, saranno trasformati in un animale a loro scelta. Possono incrementare i giorni loro assegnati catturando dei solitari, gruppi di ribelli che vivono nei boschi e il cui  comportamento è speculare rispetto a quello delle istituzioni. Tra di loro, infatti, nessuno può innamorarsi o accoppiarsi ma deve rimanere da solo e provvedere in solitudine a tutte le proprie esigenze affettive. Per chi trasgredisce le pene sono terribili.
David è stato lasciato dalla moglie e viene ospitato in questo albergo. Nonostante la sua profonda indolenza, tenterà varie strategie per sopravvivere, compresa la fuga con i solitari.

Dogtooth (Kynodontas, 2009) rappresentava la famiglia come luogo claustrofobico e perverso. Qui la distopia riguarda i sentimenti, i legami, il naturale, totale, disperato bisogno che gli umani hanno di vivere con gli altri, di scegliere un proprio simile con il quale condividere l’esistenza. Che questo sentimento diventi obbligatorio o venga proibito, in entrambi i casi le conseguenze sono ipocrisia, menzogna, aridità, disperazione, vuoto. Quando infatti si tratta dei sentimenti umani, ogni carezza può diventare uno schiaffo, ogni tocco una violenza. Se le istituzioni entrano in questa sfera -e lo fanno da sempre- un’etica potenzialmente totalitaria invade i comportamenti e li rende fonte di dolore.
Il mondo grottesco, triste, patetico e feroce descritto da questo film è fondato sulla accentuazione di elementi già presenti nella nostra società. Il Grande Altro, infatti, si impone su ciascun individuo con tutta la forza di un condizionamento sociale ed etico al quale è quasi impossibile sfuggire. Le regole della convivenza istituzionale vanno al di là del codice civile e toccano il cuore delle persone e dei loro desideri. Per regolarli, certo, ma anche e soprattutto per controllarli, poiché il desiderio che da sé si costruisce e in sé si appaga è dirompente per l’ordine individuale e collettivo. Vivere in due o vivere da soli, più che  una scelta consapevole e meditata è in gran parte un dovere introiettato dalla famiglia, dall’ambiente sociale, dallo Stato. Il film trasforma l’imposizione collettiva in norma totalitaria inderogabile ma il controllo, la repressione e il terrore abitano nelle morali eteronome prima che nei codici giuridici.
La struttura formale di Lobster è una delle sue migliori qualità. La tragedia viene raccontata con un distacco quasi totale. La forma è cadenzata e geometrica. Umano, animale e disumano si mescolano come un dato di fatto e non come una stravaganza. Lobster è l’aragosta nella quale David chiede di essere trasformato nel caso non riuscisse a trovare una compagna. La troverà là dove è proibito averla e questa donna sarà miope come lui. Forse non vedere troppo lontano nel futuro del dominio è una delle condizioni per sopportare il presente del potere. Il disincanto di Lanthimos è profondo e tuttavia anche un film come questo è uno sguardo gettato sulla struttura sadica dell’autorità, è una sfida all’accettazione di ciò che si presenta come ineluttabile.

Humboldt

Il denso numero 400 di A Rivista anarchica ospita un’articolata riflessione di David Graeber a proposito del futuro, delle attese che lo hanno intessuto nel Novecento, delle delusioni. Graeber affronta anche la questione universitaria osservando che

quella che è cambiata è la cultura burocratica. Il crescente intreccio tra Stato, università e imprese private ha indotto tutti ad adottare il linguaggio, la sensibilità e le forme organizzative che provengono dal mondo imprenditoriale. Se ciò è forse servito a creare prodotti commerciabili, perché è per questo che sono fatte le burocrazie aziendali, per quello che riguarda il sostegno alle ricerche originali, i risultati sono catastrofici. Le mie conoscenze vengono da università degli Stati Uniti e dell’Inghilterra. In entrambi i paesi gli ultimi trent’anni hanno visto una vera e propria esplosione della percentuale delle ore lavorative destinate a compiti amministrativi a spese di tutto il resto. Nella mia università, per esempio, abbiamo più amministratori che membri di facoltà, e da questi ultimi, per giunta, ci si aspetta un impegno di ore dedicate all’amministrazione almeno pari a quelle destinate alla didattica e alla ricerca sommate insieme. Le cose vanno così, più o meno, in tutte le università del mondo.
L’aumento del lavoro amministrativo è un esito diretto dell’introduzione delle tecniche di gestione d’impresa. Invariabilmente queste sono fatte passare come strumenti per migliorare l’efficienza e per introdurre la competizione a qualsiasi livello. Quello che a conti fatti significano in pratica è che tutti finiscono per dedicare gran parte del proprio tempo nel tentativo di vendere qualcosa: proposte di mutui, offerte di libri, valutazione di posti per studenti e richieste di finanziamenti, valutazione dei nostri colleghi, prospetti di specializzazioni interdisciplinari, istituti, workshop e conferenze, le università stesse (che sono ormai diventate marchi da promuovere presso potenziali studenti e finanziatori) e così via. (p. 51)

Questa descrizione vale ormai in modo pressocché integrale anche per l’Università italiana, segno di una colonizzazione che rischia di distruggere l’identità dell’Università europea come era stata pensata e realizzata nell’Ottocento da Wilhelm von Humboldt, vale a dire una Università istituzionalmente libera dai poteri politici ed economici e solo per questo in grado di svolgere la sua funzione al servizio della scienza, nella unità e pluralità del sapere.
La decadenza dell’Europa è invece mostrata anche -e forse specialmente- dal tramonto di tale modello a favore di una struttura al servizio del potere politico (qualunque esso sia) e degli organismi finanziari, volti alla perpetuazione dell’ingiustizia che ferisce, dell’eccesso che distrugge, dell’ignoranza che dissolve.
Difendere strenuamente l’università europea humboldtiana contro la sua degenerazione burocratica significa semplicemente garantire il presente e il futuro della scienza e quindi dell’intera comunità sociale.

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