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I professori resistenti

I professori resistenti e il Congresso negato per «ordine pubblico» 
il manifesto
28 settembre 2017
pag. 11

Trascrivo qui l’incipit e la conclusione dell’articolo.
« “Si sa che la gente dà buoni consigli / se non può più dare cattivo esempio” canta De André in Bocca di Rosa. Capita così che dalla sicurezza della propria cattedra non pochi professori parlino e scrivano contro colleghi del passato che si sarebbero sottomessi a poteri autoritari e totalitari di diverso segno. Ma che cosa avrebbero fatto loro trovandosi in quei frangenti?
[…]
Il tentativo di trasformare i docenti da ricercatori scientifici a funzionari dello Stato impauriti e prudenti può essere attuato in forme molto diverse, non soltanto con la violenza esplicita dei regimi fascisti ma anche con l’asservimento liberista del sapere a scopi puramente economicisti».

Tra i professori universitari che si rifiutarono di prestare giuramento al fascismo ci fu il filosofo Piero Martinetti, al quale dedico questo articolo.

«Tout médiatique a toujours un maître»

Lo scorso 30 giugno il Dipartimento di Scienze della Formazione di Unict ha invitato il Prof. Luciano Canfora a presentare il suo La schiavitù del capitale (il Mulino, 2017). È stato un incontro molto interessante, nel quale sono state pronunciate parole che nel discorso pubblico è ormai assai difficile ascoltare. Canfora ha smontato la propaganda occidentalista che pervade i media mostrando la miseria delle politiche dell’Unione Europea, degli Stati Uniti e dei loro servi, «vale a dire noi». Si è soffermato con particolare e pungente ironia sul neoeletto presidente francese Emmanuel Jean-Michel Frédéric Macron, come simbolo del vuoto assoluto della politica quando essa si identifica con il finanziarismo che opprime le economie e i corpi collettivi.
Ho riflettuto sulla ricchezza di questo incontro, a partire dalla consapevolezza che il potere è potentia ed è potestas. Il primo consiste nella capacità che gli esistenti possiedono di influire sull’ambiente, anche con la semplice resistenza e con l’attrito che gli enti minerali oppongono all’attività di tutti gli altri. Nel mondo vegetale e animale, la potentia è la vita stessa, che si sviluppa, cresce, confligge, decade, muore.
Potestas è invece e propriamente il potere politico, la capacità di indurre altri umani a compiere le azioni che auspichiamo o ad astenersi da quelle che vogliamo evitare. I mezzi con i quali ottenere questo scopo sono sostanzialmente tre: «Con la coercizione (il bastone); con i pagamenti (la carota); con l’attrazione o la persuasione. Bastone e carota sono forme di hard power, attrazione e persuasione sono forme di soft power» (Joseph. S. Nye jr, citato da Massimo Virgilio in Diorama letterario n. 336, p. 22).
Se nell’ambito dello scambio economico il denaro è costitutivamente al centro del rapporto di potere, nella società contemporanea -e più precisamente dentro il sistema ultraliberista in cui siamo immersi e che Canfora ha descritto con lucidità- esso pervade ogni forma di relazione. Un momento di svolta in questo processo fu la decisione del presidente statunitense Richard Nixon che nel 1971 «su consiglio di due o tre Gorgoni universitarie, ha deciso di infrangere il legame fra il dollaro e l’oro. Il dollaro ha potuto espandersi nel mondo a profusione e ha permesso ai parassiti di acquistare tutto ciò che loro pareva. Da allora in poi l’Europa ha perso tutto: industria, posti di lavoro, élite, educazione di qualità e via dicendo. La quantità di dollari sparsa ha eliminato chi non si adeguava e promosso i servi più ripugnanti, sia nella commissione di Bruxelles, sia fra i dirigenti dei vari paesi europei» (Auren Derien, ivi, p. 20).
L’effetto di questo dominio finanziario e contabile su scuola, università, cultura è stato assai grave. Il culto verso il denaro, che da indispensabile mezzo di scambio diventa il fine totale delle umane esistenze, ostacola infatti «ogni alta cultura perché i ricchi sanno solo contare. Così si spiega l’incorreggibile volgarità che ormai li contraddistingue. Inoltre, se l’unico criterio di valutazione è la quantità di denaro, allora si ritrovano sullo stesso piano il buzzurro che calcia un pallone, la prostituta che finge di essere un’artista, il trafficante di droga analfabeta, il bankster di Wall Street e il politico cleptomane» (Id., 21).
A tali categorie si possono e devono aggiungere gli impiegati della comunicazione, soprattutto i più famosi e i più pronti al servizio di chi meglio li paga. «Il ne faut pas oublier que tout médiatique, et par salaire et par autre récompenses ou soultes, a toujours un maître, parfois plusieurs; et que tout médiatique se sait remplaçable» (‘Non bisogna dimenticare che ogni impiegato dei media, tramite lo stipendio e altre ricompense, ha sempre un padrone, e spesso più di uno; e che tali impiegati sanno bene di essere sostituibili’. Guy Debord, Commentaires sur la société du spectacle, Gallimard, Paris 1992, § VII, p. 31). Questi giornalisti e presentatori lavorano alacremente in funzione degli interessi dei loro padroni -interessi che cercano di travestire da idee e valori- e sono subito pronti a imporre il politically correct, «una censura delle ‘cattive idee’ in ambito culturale», la quale sta compiendo «passi da gigante: nell’editoria, nell’ambito scientifico, nel cinema, nel teatro, nel mondo delle lettere e delle arti» (Marco Tarchi, Diorama letterario n. 336, p. 3).
Bisogna opporsi a questa sottile e implacabile censura che traveste di libertà l’oppressione finanziaria, le sue guerre, la sua miseria culturale e politica.

Senza vita

«Il potente è in primo luogo il sopravvissuto, l’unico superstite di fronte alla distruzione dei suoi simili; il suo trono poggia su mucchi sterminati di cadaveri». Questo ho scritto in Contro il Sessantotto. Saggio di antropologia (p. 78). L’ho scritto in relazione alla analisi più compiuta che io conosca del potere, quella di Elias Canetti. In Massa e potere si mostra in modo persuasivo come «l’istante del sopravvivere è l’istante della potenza. […] È importante però che il sopravvissuto da solo stia di fronte a un morto o a più morti» (p. 273).
Il Monastero dei Benedettini di Catania, sede del mio Dipartimento, è oggi una plastica raffigurazione di tale dinamica. Le consorti dei capi di stato e di governo riuniti in questi giorni a Taormina -mirabile e fragile luogo violentato da tale presenza, la quale ha imposto una vera e propria reclusione/esclusione ai suoi abitanti- hanno deciso di visitare Catania, e segnatamente il Monastero. Nessun altro vi ha potuto accedere, all’infuori di queste signore e dell’imponente apparato di sicurezza. Docenti e personale tecnico-amministrativo hanno potuto farlo soltanto chiedendo un’apposita autorizzazione. La cosiddetta Zona rossa, che a Taormina impedisce a chiunque di avvicinarsi ai potenti, si è trasferita anche nel magnifico luogo dove ho la fortuna di insegnare. Anche le strade intorno, compresa quella dove abito, sono state svuotate di ogni vitalità, ricondotte al puro vuoto presidiato da esercito, vigili urbani, polizia.
Il potere democratico sta quindi molto attento a tenere lontano da sé il δῆμος, il popolo. Anche per questo sono ben contento se qualcuno mi rivolge la ormai consueta e banale accusa di essere populista. Il termine russo народничество, populismo, fu infatti all’inizio assai vicino a quello di Анархизм, anarchismo. Per il potere -democratico o altro che sia- siamo infatti tutti potenzialmente degli assassini, dei delinquenti, della gente pericolosa. In Sicilia si dice che «u lupu ri mara cuscenza chillu chi fa penza». Le città, i borghi, le strade, gli spazi dove i potenti transitano subiscono una vera e propria violenza istituzionale. Oltre che delle guerre e della fame costoro sono dunque colpevoli anche di stupro. I potenti credono che siamo tutti come loro sono: assassini, delinquenti, pericolosi.
L’aspetto del Monastero dei Benedettini di Catania, un luogo tanto splendente quanto vivace, allegro, sonoro, giovane, vissuto, è oggi semplicemente angosciante. Diventato un cimitero compunto e paludato, riempito soltanto dalle divise degli esercitiforzedellordine, vi domina il silenzio greve dell’insensatezza, la palpabile inquietudine dell’artificio, tollerabile soltanto come pausa nella vita quotidiana, che è fatta invece della fremente naturalezza delle relazioni. Legàmi e storie, di tutti e di ciascuno, vengono cancellate e sostituite dalla sicurezza astratta dell’assenza. Soltanto per un giorno, per fortuna. Ma anche un solo giorno è insopportabile.
Il Monastero, da dove sto scrivendo, è in questo momento un luogo senza vita, nel quale l’arroganza di alcuni soggetti -che il caso ha posto accanto a chi oggi comanda- ha prodotto il silenzio, il nulla, una metafora della morte. Ma così costoro si sentono importanti, assai prima che sentirsi sicuri.
«La sensazione di forza che scaturisce dal sopravvivere è fondamentalmente più forte di ogni afflizione: è la sensazione d’essere eletti fra molti che hanno un comune destino. Proprio perché si è ancora vivi, ci si sente in qualche modo i migliori» (Massa e potere, pp. 274-275). E tuttavia «Ivi eran quei che fur detti felici, / pontefici, regnanti, imperadori; / or sono ignudi, miseri e mendici. / U’ sono or le ricchezze? u’ son gli onori / e le gemme e gli scettri e le corone / e le mitre e i purpurei colori? / Miser chi speme in cosa mortal pone / (ma chi non ve la pone?), e se si trova / a la fine ingannato è ben ragione. / O ciechi, el tanto affaticar che giova? / Tutti tornate a la gran madre antica, / e ‘l vostro nome a pena si ritrova» (Petrarca, Trionfo della Morte, vv. 79-90).
Morire è la suprema giustizia del vivere. Nessuno sfugge. Nessuno. Almeno in questo il mondo è perfetto.

Machiavelli

Lunedì 15 maggio 2017 nel Coro di Notte del mio Dipartimento si svolgerà una Giornata di studi dal titolo Machiavelli. Il potere della libertà / La libertà del potere.
Vi terrò una relazione su Libertà e animalità, della quale pubblico qui l’Abstract.

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Una delle condizioni per comprendere l’umano è il riconoscimento del suo specifico βίος come parte della più vasta ζωή. Il fondamento biologico del potere e della ribellione contribuisce a fare della vita collettiva una dinamica costante nelle sue strutture e sempre mobile nelle sue espressioni.
La distinzione spinoziana tra potentia e potestas deriva sia dalla consapevolezza di tale animalità sia dalla lezione dell’acutissimus -per Spinoza- Machiavelli. Termini come volpe, lione, lupi, fortuna, virtù; l’antropologia de L’asino -per la quale «dal pianto il viver suo comincia quello, con tuon di voce dolorosa e roca; tal ch’egli è miserabile a vedello»- condensano l’antiumanismo di Machiavelli e ne rendono fecondo il pensare per chi sappia e voglia operare politicamente nel disincanto, nell’attenzione più alla «verità effettuale della cosa, che alla immaginazione di essa» (Il Principe, cap. XV).
Le relazioni fra antropologia ed etologia diventano così un’ulteriore testimonianza della presenza di Machiavelli tra i cardini del lavoro culturale e politico.
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Machiavelli_locandina_15.5.2017_corretto

Smartphone

Paternò_2017Lunedì 10 aprile 2017 alle 15,30 sarò ospite del Liceo Scientifico Fermi di Paternò (CT) per un incontro con gli studenti dedicato a Il potere degli smartphone

Non parlerò di Debord ma lo smartphone sarà analizzato anche a partire da questa affermazione: «La conversazione è quasi morta, e presto lo saranno molti di quelli che sapevano parlare»
(Commentari alla società dello spettacolo, Baldini & Castoldi, 2002, § X, p. 207).

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