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Islam

Differenze
Oltre il politicamente corretto
in Dialoghi Mediterranei
Numero 52, novembre-dicembre 2021
Pagine 373-384

Indice
-Premessa
-Le tesi di Ciccozzi
-Razzismi e altro
-La guerra giusta
-Il tramonto di Westfalia e l’emergere del terrore
-Potere, informazione, globalizzazione
Migranti. Un’analisi sociologica
-Identità e Differenza

Per 11 anni ho insegnato Sociologia della cultura nel Dipartimento di Scienze Umanistiche di Unict. Essendomi stato affidato un nuovo insegnamento nel corso magistrale di Scienze filosofiche, ho dovuto rinunciare a insegnare SdC nel corso triennale di Filosofia. Devo dire che mi dispiace perché ho trovato degli studenti sempre assai coinvolti nelle tematiche che ho loro proposto e perché insegnando sociologia ho imparato (a cercare di) osservare i fatti sociali con il maggior rigore possibile e con il necessario distacco scientifico.
Il testo uscito sul numero 52 di Dialoghi Mediterranei nasce dal confronto con un saggio di Antonello Ciccozzi dedicato al tema complesso e delicato del rapporto tra cultura e costumi europei e cultura e costumi islamici. Un saggio secondo me illuminante, a partire dal quale ho tentato di delineare altri aspetti del rapporto tra la civiltà europea e la civiltà musulmana, con riferimenti alle questioni razziali, alla geopolitica, al diritto pubblico europeo nato con le paci di Westfalia (1648). Credo infatti che solo alla luce della vicenda secolare del Mediterraneo si possano comprendere le potenzialità di arricchimento e gli insuperabili limiti del rapporto con le ondate migratorie provenienti dai Paesi islamici. Mi auguro insomma che questo testo, anche se breve, possa testimoniare la fecondità di una prospettiva sociologico-filosofica con la quale leggere i fenomeni più profondi della storia contemporanea.

Lezione in piazza

[Qui sotto si può leggere una comunicazione che avevo preparato per questo sito, relativa a una lezione da svolgere all’aperto su iniziativa degli studenti universitari di Catania contrari alla logica e alla pratica del lasciapassare.
La Questura ha proibito lo svolgimento nel luogo stabilito qualche giorno fa d’accordo con la stessa polizia. Abbiamo proposto di spostare l’evento nel giardino pubblico di via Biblioteca ma ci è stato incredibilmente risposto che non si poteva perché «luogo vicino» a una delle (assai numerose) piazze e strade proibite da questore e prefetto per tutte le manifestazioni. Una risposta la cui sostanza giuridica lascio alla valutazione e al buon senso di ciascuno. Via Biblioteca è uno spazio senza negozi, senza traffico automobilistico e quindi non ricadente in nessuna delle «motivazioni» che governo e questure adducono per proibire le manifestazioni. Mistero. Ci è stato quindi intimato di spostarci in Piazza Federico II, luogo bello, certo, ma l’ordine ha avuto toni così liberticidi, sciocchi e arbitrari da farmi decidere di non aderire più a un evento il quale, ripeto, non prevede cortei o slogan ma una discussione di argomento filosofico, sociologico, giuridico.
Invito a riflettere su tutto questo quanti non sono ancora convinti dell’evidenza dell’attacco alle libertà politiche, ai diritti civili, alla Costituzione della Repubblica. È vero, «il fascismo sta tornando»]

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Se le strutture pubbliche, come le Università, si vanno progressivamente chiudendo, proviamo ad aprire i nostri corpimente in altri luoghi. È quello che sta accadendo in molte città italiane. Anche per questo, lunedì 15 novembre 2021 alle 10,00 terremo delle lezioni in Piazza Dante a Catania, davanti al Monastero sede del Dipartimento di Scienze Umanistiche dell’Università etnea.
La mia lezione avrà come argomento Guy Debord: lo spettacolo del virus.

Disciplina

È una delle tante parole polisemantiche della nostra bella lingua.
Disciplina indica infatti in italiano un ambito del sapere o dello sport; significa poi il rigore con il quale ci si approccia a una esperienza di vita; vuol dire infine ciò che un’autorità richiede ai suoi subordinati.
Il saggio dell’economista Giovanna Cracco che qui segnalo, dal titolo Contro il Green Pass. La posta in gioco: disciplina e sorveglianza, risponde a tutti e tre questi significati. L’autrice infatti, che dirige Paginauno (una delle riviste più indisciplinate dell’attuale panorama editoriale), mostra in questo testo una sicura competenza nella lettura dei dati, un approccio razionale e rigoroso alla questione, un’argomentata analisi della disciplina che i governi stanno cercando in tutti i modi di imporre al corpo collettivo.
Riporto qui alcuni brani dall’articolo, invitando a una sua lettura calma, diretta e integrale; si tratta infatti del testo più rigoroso e completo che conosca sul tema della gestione politica dell’epidemia e sul lasciapassare / green pass.
Queste pagine dimostrano che se si vuole capire si può capire; che se si è degli studiosi dotati degli strumenti analitici che il sapere contemporaneo pone a nostra disposizione si deve capire; che la strategia di una comprensione rigorosa di quanto sta accadendo -rimanendo liberi dalla violenza, dalla ripetitività, dal terrore, dalla menzogna e dalla banalità che giornali, televisione e social ogni giorno ammanniscono-, è l’unica capace di evitare di bollire. Utilizzo questo verbo nel significato della nota favola della rana bollita a temperature ogni giorno quasi impercettibilmente superiori al giorno prima, la quale si accorge che sta morendo soltanto quando il suo corpo è ormai a brandelli.

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Contro il Green Pass. La posta in gioco: disciplina e sorveglianza 
in Paginauno, Numero 74 | Ottobre-Novembre 2021

Vaccinazione e Green Pass sono due atti differenti. La scelta di vaccinarsi contro il virus Sars-Cov-2 tocca aspetti intimi e personali quali le ataviche paure della malattia e della morte, a cui ciascuno risponde con le proprie, insindacabili, scelte. Quanto la martellante propaganda politica e mediatica abbia alimentato ad arte tutte le possibili paure umane in questi quasi due anni, è un discorso che esula dalla riflessione che si vuole qui affrontare: resta l’esistenza del sentimento con cui ognuno deve scendere a patti, e la vaccinazione è uno dei patti possibili.

Il vaccino tutela il vaccinato dal contrarre la malattia in forma grave e quindi, in teoria, dal ricovero ospedaliero e, si spera, dalla morte. L’ultimo studio al momento disponibile (21 luglio 2021) dell’Istituto Superiore di Sanità (2) analizza le caratteristiche dei 127.044 pazienti deceduti e positivi a SARS-CoV-2 (sono lo 0,21% della popolazione italiana, secondo i dati Istat): l’età media è 80 anni e, su un campione rappresentativo di ogni fascia di età, il numero medio di patologie presenti è 3,7. Sono numeri che, a distanza di 16 mesi dall’inizio dell’epidemia, confermano il dato che i decessi colpiscono gli anziani, prevalentemente con patologie, e le persone non anziane già compromesse da patologie.

Tirando le somme, il vaccino protegge se stessi dalla malattia grave ma non protegge in egual misura gli altri; pur diminuendo la diffusione del virus (forse per appena tre mesi), non ne blocca la circolazione – né l’eventuale creazione di varianti –; milioni di persone hanno inconsapevolmente già acquisito una immunità naturale che li pone sullo stesso piano dei vaccinati ed è durevole (a differenza di quella data dai vaccini, a quanto pare); gli asintomatici vaccinati hanno cariche virali simili a quelle dei non vaccinati, e questo incide nella trasmissibilità del virus; la mortalità per Covid-19 colpisce i ‘fragili’, ossia anziani (prevalentemente con patologie) e non anziani già compromessi da patologie.

Le conseguenze della scelta di non immunizzarsi con il siero ricadono unicamente sulla persona che opera tale scelta: l’altro, che ha optato per la vaccinazione, è protetto. Dunque, come è insindacabile la decisione personale di vaccinarsi, lo è quella contraria.

La scelta politica di mettere in atto una campagna vaccinale sull’intera popolazione sopra i 12 anni – mentre si sta studiando anche il siero per i bambini –: sulla base dei dati e dei fattori sopra analizzati, è una decisione che non ha alcun fondamento logico.

Vale la pena ricordare che l’EMA ha rilasciato a tutti i vaccini una “autorizzazione condizionata” (conditional marketing authorization) proprio per l’assenza delle informazioni relative ai rischi a lungo termine.

Ora, detta brutalmente: una persona anziana può a ragion veduta ritenere poco rilevanti gli eventuali effetti a lungo termine del vaccino, a fronte di un rischio molto più concreto di malattia grave Covid-19; un adolescente o un 50enne inverte i fattori dell’equazione.

La realtà che viviamo è nebulosa e illogica: nebulosa per tutto ciò che ancora non è chiaro, illogica per tutto ciò che già lo è.

Il Green Pass è un ricatto: esteso a università (1 settembre) e lavoro (15 ottobre) si configura come un obbligo vaccinale che discrimina chi non accetta un trattamento sanitario. […] Al momento, l’Italia è l’unico Paese al mondo che ha esteso il Green Pass ai luoghi di lavoro, mentre solo quattro Stati hanno imposto l’obbligo vaccinale direttamente per legge: Indonesia, Turkmenistan, Tagikistan e Micronesia.

Il Green Pass non rappresenta solo l’obbligo vaccinale. È insieme una tecnologia e una pratica di potere.

L’eccezionalità del Green Pass è infatti la sua caratteristica tecnica che lo rende uno strumento dinamico, il cui utilizzo potrà estendersi e arricchirsi nelle forme più diverse: potrà abilitare il soggetto in base a condotte di comportamento (oggi la vaccinazione, domani pagamenti…) o a status (residenza, occupazione, dichiarazione dei redditi, fedina penale… qualsiasi cosa).

Non solo. La struttura a blockchain permette una raccolta dei dati (potenzialmente infinita) che non è aggregata: la blockchain individualizza i dati, legandoli all’identità digitale creata, e come tali li conserva. Il Green Pass quindi sta attuando una schedatura di massa.

La privacy non è la nostra dimensione privata ma la relazione di potere tra individuo, Stato e mercato.

Potere che è in  apparenza tanto meno ‘corporale’ quanto più è sapientemente ‘fisico’”. Spazi (luoghi in cui si può accedere solo con il Green Pass), sorveglianza verticale (Gateway e blockchain) e collaterale (il cameriere, il controllore sul treno, il bigliettaio del cinema, l’impiegato adibito al lavoro, a cui bisogna esibire il Pass): una rete di sguardi che quotidianamente controllano. Potere fisico non solo perché si impone sul corpo, ma perché il corpo è il primo ‘oggetto’ che viene investito dalla disciplina del lasciapassare: deve essere sottoposto a un trattamento sanitario (vaccino) o a un esame diagnostico (tampone).

Tirando le somme, il Green Pass ha corretto, normalizzato, diviso, sorvegliato e utilizzato i cittadini, disciplinandoli. È, a oggi, l’ultimo atto di una serie di pratiche politiche che hanno creato una popolazione docile perché impaurita, prima shockata e poi normalizzata in una nuova abitudine, che si affida al ‘sovrano’ per la sua salvezza, convinta che la propria vita dipenda da un trattamento sanitario a cui è disposta a sottoporsi annualmente, e da un lasciapassare politico che lo attesti e che le garantisca l’accesso a luoghi nei quali possa interagire solo con persone altrettanto verificate e controllate.

La situazione è nebulosa e illogica. Ma ciò che lascia sconcertati è che non ci siano – e non ci siano state – domande.

Non si può né sperare né attendere una chiamata strutturata e organizzata, da sinistra, per questo conflitto: salvo poche realtà o singoli individui, la sinistra movimentista che si riempie continuamente la bocca della parola ‘discriminazione’, dichiarando di volerla combattere, si è appiattita sulle posizioni governative spedendo il cervello in vacanza. Sta, dunque, a ciascuno di noi. Scegliere.

Pandemia, un luogo

Un lessico dell’epidemia
Recensione a: Barbara Stiegler, La democrazia in Pandemia. Salute, ricerca, educazione
(De la démocratie en Pandémie. Santé, recherche, éducation, Gallimard 2021)
Trad. di Anna Bonalume
Carbonio Editore, 2021
Pagine 80

in Aldous,  14 ottobre 2021

Al centro dell’accadere non c’è soltanto un virus più o meno pericoloso ma c’è il linguaggio, ci sono le parole che «possono essere come minime dosi di arsenico: ingerite senza saperlo sembrano non avere alcun effetto, ma dopo qualche tempo ecco rivelarsi l’effetto tossico» (p. 49), come afferma il filologo Victor Klemperer riferendosi alla lingua del Terzo Reich. Neologismi, risemantizzazioni, parole d’ordine ossessivamente ripetute sono pericolosi virus che hanno infettato il corpo collettivo: lockdown, coprifuoco, mascherine, fragili, webinar, dad, green pass, distanziamento sociale…Queste parole vanno sostituite con altre, più antiche, più dense, più corrispondenti a quanto sta accadendo.

I linguaggi del potere

[La vicenda di questa recensione conferma ciò che in essa cerco di sostenere. Il testo è stato infatti rifiutato da varie riviste a causa delle sue prime righe, nelle quali si accenna all’«obbedienza sanitaria». Ho pensato che comunque meriti di essere letto anche e soprattutto perché dà conto di un volume che è scaturito da un bellissimo Convegno organizzato dal collega Giuseppe Traina a Ragusa Ibla nell’ottobre del 2019.
Spero che chi leggerà la recensione si farà un’idea della ricchezza di tematiche e di prospettive che in quell’occasione vennero affrontate e praticate. E avrà la conferma che una delle tendenze dei linguaggi del potere è di imporre il silenzio ai linguaggi che lo contrastano. Nel passato come nel presente.
Le frasi in corsivo tra parentesi quadre sono state da me aggiunte in questi giorni]

Aa. Vv.
I linguaggi del potere.
Atti del convegno internazionale di studi
(Ragusa Ibla, 16-18 ottobre 2019)
A cura di Felice Rappazzo e Giuseppe Traina
Mimesis, 2020
Pagine 527

Per le strade di Ragusa Ibla, la splendida, si passeggiava nell’ottobre 2019; ci si confrontava viso a viso, uggia a uggia, sorriso a sorriso, durante le pause per il pranzo e per la cena. Questo ricordano Felice Rappazzo e Giuseppe Traina nella loro Prefazione a un volume che quasi per profetica intuizione ha tra i propri più costanti riferimenti la fisica del potere di Michel Foucault. Quella che troppi accademici, studiosi, intellettuali (dei giornalisti non conviene neppure far parola) sembrano aver di botto dimenticato nei mesi del panico da epidemia.
Inoltrandosi nella ricca miniera di questo volume si possono così trovare echi e assonanze dell’obbedienza sanitaria. Come già Eichmann, anche Jürgen Stroop, responsabile della repressione nel ghetto di Varsavia, risponde a Moczarski in questo modo: «Befehl ist Befehl (un ordine è un ordine)» (Dario Prola, Conversazioni con il boia di Kazimerz Moczarski: riflessioni a margine di un’intervista con il male, p. 352). La stessa risposta che è stata e continua a essere definita ‘necessaria’ durante i mesi del confino imposto all’intero corpo collettivo [e ora nei mesi della trasformazione della società italiana in una massa di kapò che chiedono continuamente un lasciapassare ad altri cittadini]. E questo è accaduto e accade anche quando si è trattato di ordini e di pratiche repressive semplicemente prive di senso oltre che di efficacia sanitaria. Ordini e pratiche impartiti ed eseguiti anche in vista della «soddisfazione filistea del sopravvissuto e dell’integrato in un miserrimo ordine» (F. Rappazzo, L’impersonalità come doppia verità? Osservazioni su Rosso Malpelo, p. 376). Ordini e pratiche che la densa esegesi di Pinocchio proposta da Giuseppe Traina coglie sin dall’inizio del libro di Collodi come sua trama, appunto, foucaultiana: «Appena ‘battezzato’, appena dotato di sguardo, prima mobile e poi ‘fisso fisso’, Pinocchio sta mettendo alla prova il potere paterno con i mezzi più efficaci del potere stesso: lo sguardo controllore, il segreto del silenzio. Sta cominciando la sua efficacissima battaglia di resistenza al potere» (Pinocchio e le figure del potere, p. 483).

Ciò che emerge infatti con chiarezza da quel Convegno e da questo libro è che la parola – che ancora una volta conferma la propria gorgiana e drammatica ambiguità – può costituire e costituisce sia uno strumento principe di asservimento sia una indistruttibile forma di resistenza. Dai numerosi testi che danno vita alla ricchezza qualitativa e quantitativa del volume (che si compone di 44 contributi) ed esprimono un’ermeneutica della resistenza al potere, qui posso trarre soltanto qualche esempio. 

Analizzando la pervasività del fenomeno che sui Social Network viene denominato blasting, vale a dire «la demolizione simbolica -insieme assoluta ed effimera– dell’avversario», Emanuele Fadda argomenta sulla «necessità di una prossemica virtuale» (Il Blasting: potere o contropotere?, pp. 153 e 156) che applichi anche all’ambito digitale e telematico le avvertenze e quindi le consapevolezze che utilizziamo nelle interazioni reali che intramano i corpimente nello spaziotempo quotidiano. Qui la resistenza è quindi al potere della folla, della tribù digitale, dell’anonimato che trasforma – ne abbiamo fatto tutti esperienza – soggetti equilibrati o timidi in violentissimi polemisti da tastiera, sino a cadere in alcuni casi in una vera e propria identità schizofrenica [la violenza che sui social viene esercitata contro chi rifiuta di vaccinarsi o critica il green pass costituisce un’ulteriore testimonianza di tali dinamiche].

Sul potere vero e proprio, il potere dell’autorità costituita, sono sineddoche dell’intero volume, ad esempio, il già ricordato saggio di Traina su Pinocchio; quello di Fernando Gioviale sul disincanto anarchico di Sciascia –il quale a proposito dell’affare Moro «di fatto sostiene che questo Stato non si può difendere» (L’ordine delle parole. Sciascia, Pasolini e L’affaire Moro attraverso Todo Modo, p. 185)–; il testo di Rosalba Galvagno sul linguaggio del potere in Consolo; la feconda ricognizione anche d’archivio di Laura Giurdanella che conferma quanto la matrice anarchica abbia contato nella vita e nella poesia di Ungaretti; l’analisi condotta da Margherita Bonomo sull’informazione costruita dal cinema della Repubblica Sociale Italiana; e naturalmente il contributo da Ilaria Possenti dedicato esplicitamente a Foucault.
Delle tante suggestioni di quest’ultimo saggio, mi sembra interessante ricordarne una che si lega poi ad altri capitoli del libro. Scrive Possenti che «nella ‘dolcezza delle pene’, in altre parole, Foucault non vede semplicemente un processo di ‘umanizzazione’, ma riconosce la nascita di un dispositivo di potere che assume come bersaglio l’anima del condannato» (Il potere nelle storie filosofiche. Michel Foucault e la tradizione, p. 339).
Affermazione che si pone in continuità con l’analisi di una delle apparentemente più soft ma nella sostanza non meno oppressive forme dell’autorità collettiva e sempre più anche di quella istituzionale: il politically correct, la strumentale illusione per la quale si ritiene che sostituendo le parole si possano anche modificare o cancellare le situazioni alle quali le parole si riferiscono.
A un contributo esplicitamente dedicato al tema si affiancano le disincantate osservazioni di Fabrizio Impellizzeri a proposito del venir meno di un’espressione come ‘negro’ nell’indicare gli autori che scrivono anonimamente per altri che poi firmano i libri: «La Francia, in preda a un riscatto civile determinato dalla retorica dell’umanitario, ha oggi deciso di mettere al bando l’espressione per la sua forte connotazione razzista, sostituendo l’antico nègre littéraire con il più politicamente corretto prête-plume o plume-cachée»  (Willy e l’oscuro patto autoriale con gli écrivains nègres nelle officine letterarie fin de siècle, p. 249).

Chi non lascia libere le parole non rispetterà, alla fine, neppure la libertà delle persone. Così come vale anche l’inverso: «là dove si fa violenza all’uomo, la si fa anche al linguaggio» come scrisse (ne I sommersi e i salvati) il Primo Levi ricordato da Prola nel suo testo e dal quale lo studioso attinge anche per rammentare «i meccanismi che – nei regimi dittatoriali – rendono la lingua il laboratorio di una spaventosa operazione ideologica e anche filologica finalizzata a nascondere il male» (p. 355).
Nel XXI secolo le tendenze totalitarie non hanno più bisogno di carri armati, polizie politiche e torture. È sufficiente il controllo della comunicazione e quindi della lingua. Controllo dalle conseguenze enormi poiché i linguaggi sono capaci di creare situazioni che, per quanto fittizie, sembrano del tutto reali. Le menzogne del potere sono sempre le menzogne più grandi.

Come spero si veda anche da questa drastica sintesi di un libro che merita di essere letto e meditato, le spesso maltrattate ‘scienze umane’ confermano per intero la loro necessità. La chiusa del saggio di Giuseppe Toscano su Nomi, etichette e processi di stigmatizzazione. Riflessioni microsociologiche sulle dinamiche di potere, può dunque concludere anche il resoconto che ho tentato del volume: «Questa deriva quantitativa, che coinvolge anche le scienze umanistiche, sembra espressione di un atteggiamento reverenziale nei confronti delle cosiddette scienze dure alle quali ci si sente in dovere di avvicinarsi. Un approccio micro potrebbe quindi aiutare a recuperare la specificità di studi che hanno per oggetto la persona nella sua interezza e nella sua complessità, e che rendono evidente la forte consonanza tra sguardo sociologico e sensibilità umanistica» (p. 472).

Agamben e il mucchio selvaggio

[Ho scritto questo articolo, uscito ieri su Aldous, insieme ad alcuni amici che sono anche colleghi. Un professore non filosofo che lo ha avuto in anteprima mi ha risposto che anche lui aveva «letto con raccapriccio il tanto banale quanto arrogante testo […] (che francamente mi ricorda i 150 del Mucchio Selvaggio contro Jack Beauregard nel mitico film “Il mio nome è Nessuno”)». Questo  il link alla scena ricordata dal collega 🙂 ]

Bullismo filosofico
Aldous, 17 ottobre 2021

Se gli oltre cento estensori del piccolo manifesto dal titolo Non solo Agamben avessero scritto un testo a favore delle politiche governative italiane sul Covid 19, a favore del lasciapassare sanitario, sarebbe stato un documento legittimo, per quanto non condivisibile. E invece hanno voluto attaccare in tanti una sola persona, un filosofo italiano molto noto, con argomenti -rispetto alla complessità delle tesi di Giorgio Agamben– sinceramente imbarazzanti. Ma la cosa grave non è il merito della questione, la cosa grave è il rivolgersi contro una persona priva di potere politico e accademico indicandola alla pubblica riprovazione. Un atto di bullismo, di violenza organizzata. Hanno formulato solo un nome, quello di Agamben appunto, e non – ad esempio – quello di Massimo Cacciari, che insieme ad Agamben ha redatto e pubblicato un documento che stigmatizza la logica, le radici, le implicazioni del green pass sanitario.
Forse perché Cacciari ha un potere mediatico e accademico che Agamben non possiede? Forse perché un documento senza nomi sarebbe stato in gran parte ignorato mentre il nome di Agamben, internazionalmente noto, attira l’attenzione di molti? Si tratta quindi di un atto di bullismo che ha come motivazione un fatto di marketing, di ascolto, di eco mediatica?
Un atto di bullismo condotto poi con ‘argomentazioni’ degne dei luoghi più culturalmente deprivati della Rete. Al centro del documento, ripetuto addirittura per due volte, c’è il paragone del lasciapassare sanitario con la patente di guida. Vale a dire si argomenta con serietà che una competenza tecnica precisa e circoscritta, il guidare un’automobile, sia la stessa cosa di un lasciapassare relativo all’inoculazione nel corpo di un vaccino. Ma non è neppure questo il punto centrale. Si pongono sullo stesso piano il divieto di guidare senza patente e il divieto di utilizzare treni e aerei; di frequentare concerti, cinema, musei, biblioteche, ristoranti, corsi universitari; il divieto soprattutto di lavorare, di esercitare cioè un diritto fondamentale, e quindi di vivere, di sopravvivere, di esistere. Vivere non è qualcosa di più ampio del guidare un’automobile? Qualcosa di più originario, fondante, essenziale? Un riduzionismo ‘automobilistico’ grave se adottato da chiunque, incredibile se sostenuto da professori universitari.
I filosofi firmatari non sono capaci di argomentazioni più profonde, più sottili, più inscritte nella complessità del mondo? Non solo: nel documento si afferma che i filosofi critici verso il green pass «rappresentano soltanto il loro punto di vista su questi temi». E che cos’altro dovrebbero rappresentare? Forse la verità assoluta della quale invece gli estensori del documento si ritengono evidentemente i portatori? Per loro non vale il fatto che ciò che hanno scritto rappresenti «il loro punto di vista su questi temi»?
Logiche e atteggiamenti escludenti come quelli che emergono da quelle righe non descrivono la complessità del mondo. La vita individuale e le esistenze collettive sono composte da sfumature, accenti, molteplicità. Da quel povero testo emerge una grande superficialità, che è un limite imperdonabile per chi si definisce filosofo.

Pierandrea Amato – Alberto Giovanni Biuso – Roberta Lanfredini – Davide Miccione – Valeria Pinto – Nicola Russo

[Versione in pdf dell’articolo]

Il testo è stato pubblicato anche su:
Corpi e politica
Girodivite.it
Il lavoro culturale (sottotitolo: Per un altro stile della critica filosofica: mai 100 contro 1)
Carmilla
 (con il video dell’audizione di Agamben al Senato)
Sinistra in Rete

«Ginnastica d’obbedienza»

Chi non si accorge della quotidiana «ginnastica d’obbedienza» (De André) che con la gestione politica dell’epidemia SARS-CoV-2 è in atto nelle società ‘democratiche’ (le altre sono abituate da secoli), vuol dire che è pronto alla servitù a tempo indeterminato.
La sua libertà sarà sempre una concessione delle autorità, sarà la libertà dei fascismi, e non sarà mai l’essenza stessa del respiro umano, lo splendore dello sguardo, il pensiero che comprende. Sarà la libertà della brava formica, la cui essenza è l’omologazione, il marciare compatti verso la meta, l’identità senza differenze, lo stare sempre dalla parte della maggioranza ‘buona e giusta’. Sarà il conformismo eretto a valore. Sarà la libertà che si genera dalla paura e non dal gesto che rompe le catene. Sarà, in effetti, la libertà che merita.
Raccontando la manifestazione di Roma del 9 ottobre contro il Green Pass, l’informazione asservita attribuisce a Forza Nuova centinaia di migliaia di aderenti, pur di calunniare i cittadini italiani. Come ha scritto ieri anche Vladimiro Giacché (un marxista e comunista doc): «Sento profumo di sineddoche indebita». E Marco Rizzo (segretario del Partito Comunista) ha correttamente affermato che «la lotta contro il Green Pass è giusta. Per questo vengono scomodati i fascisti che provocano e assaltano la sede della Cgil. Fenomeni da battere in quanto sono parte dello stesso problema. Non siamo nati ieri, la “strategia della tensione” la conosciamo bene. Molto bene».
Sono stato in manifestazione: cittadini di tutti i generi, famiglie, anziani, distinti signori, contro il Green Pass, per la libertà.
Credere alle veline delle questure, credere ai ministri dei temporali e della paura, significa essere pronti al fascismo, davvero. Un segnale ai miei occhi gravissimo è la trasformazione dei cittadini italiani in una massa di kapò incaricati di controllare altri cittadini. E si vorrebbe che persino i docenti universitari si piegassero a tale funzione.
La questione è politica sin dall’inizio. Anche per questo sono stato sin dall’inizio contrario alla narrazione dei governi e dei loro organi di informazione. E ogni giorno che passa sono sempre più convinto di tale scelta.
Per quanto riguarda i vaccini, se fossero efficaci e innocui, logica imporrebbe di lasciare liberi i cittadini di accedervi o meno. I vaccinati sarebbero sicuri, i non vaccinati sarebbero a rischio per loro scelta, per la loro incoscienza.
Ma, evidentemente, così non è.
Perché l’obiettivo non è la salute, l’obiettivo è il lasciapassare sanitario, l’obiettivo è il controllo totale del corpo collettivo. Per ora tramite l’epidemia ma, poi, molto oltre l’epidemia.

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