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Infodemia

Ciò che risulta evidente nei regimi totalitari del Novecento vale a bassa intensità per qualunque regime contemporaneo, in quanto fondato su due elementi che prima della Rivoluzione industriale non esistevano: le masse e le tecnologie sociali capaci di scandire e trasmettere in tempi veloci gli ordini dell’autorità alle masse stesse. Capacità che nel XXI secolo è diventata fulminea come la luce, fondandosi sulla strumentazione elettronica la quale, appunto, viaggia alla massima velocità concepibile.
Il terrorismo politico/sanitario – scopo e insieme mezzo – non sarebbe stato possibile senza il terrorismo mediatico, senza l’infodemia; senza l’urlo di morte lanciato dalle televisioni; senza numeri arbitrari, falsi e inventati; senza la colpevolizzazione giornalistica dei liberi. Quello che sta accadendo è molto più di un’epidemia, è la manifestazione di un dominio mediatico-sanitario che probabilmente determinerà la vita politica negli anni e decenni futuri.
L’informazione è dunque diventata una malattia. L’effetto di questa tragedia è l’odio collettivo e la contrazione della vita. Un odio rivolto a tutte le figure non allineate e non obbedienti da parte di chi per una ragione o per l’altra si è sottoposto a pratiche i cui rischi sono reali e, in prospettiva futura, inquietanti.
A dominare la vita è il terrore della morte in una società diventata psicologicamente assai fragile, nella quale lo strapotere dell’informazione è del tutto schierato al servizio di governi i cui diktat vengono veicolati alle masse dalla propaganda televisiva. Nelle società contemporanee esercita egemonia, in senso gramsciano, il principe che possiede, seleziona, diffonde, inventa le notizie.
L’egemonia pandemica è il titolo di un articolo nel quale Giovanna Cracco (sul numero 75 di paginauno,  dicembre 2021 – gennaio 2022) riprende e aggiorna alcune analisi formulate qualche mese fa a proposito dell’epidemia.
L’autrice riassume il concetto gramsciano di egemonia e per suo tramite legge il presente. Queste alcune affermazioni  enunciate nelle righe conclusive:

Sul piano dell’egemonia, il potere strepita in modo sempre più forsennato al terrore e all’emergenza (indipendentemente dai numeri reali) accusando i no-vax dell’aumento dei casi positivi – nonostante l’ormai riconosciuta deficienza dei vaccini nel proteggere dalla trasmissione del virus.  Utile capro espiatorio da sbattere in prima pagina, i no-vax sono perfetti per compattare una popolazione che non deve avere dubbi e aizzarla contro un ‘nemico’, e per nascondere il fallimento della classe dirigente nella gestione della pandemia. […] L’emergenza e la pandemia sono gli strumenti che la classe dominante/dirigente sta usando per disegnare una nuova società e su di essi è riuscita a produrre una nuova egemonia: se non li denunciamo come tali, non può esserci opposizione.

Qui il link all’articolo: L’egemonia pandemica (e qui la versione in pdf).
Sugli irrazionali comportamenti indotti dalla infodemia segnalo anche un intervento di Andrea Zhok (professore di Filosofia morale alla Statale di Milano): Infodemia istituzionale e stati ontologici dissociativi, «Sfero», 12.1.2022.
Il mezzo forse in declino ma ancora incomparabilmente potente dell’egemonia rimane la televisione. Essa è infatti ancora lo strumento primario e spesso esclusivo dell’informazione per milioni di persone, per coloro che non nutrono il minimo dubbio sulla verità e bontà delle notizie che la scatola televisiva ammannisce ogni giorno senza requie e che da questo ascolto e visione fanno discendere i propri comportamenti quotidiani e alla luce dei quali interpretano ogni evento, parola, idea della quale vengono a conoscenza.
Il fideismo mediatico-politico genera alcuni gravi fenomeni, tra i quali:
-la tonalità collettiva pervasa di terrore, odio e paura verso chi non è conforme agli standard stabiliti dall’autorità;
-l’esaltazione che alla maggioranza deriva dalla certezza di essere nel giusto e dalla convinzione che i dissidenti siano invece pericolosi per la salute del corpo sociale;
-la gravissima sottrazione a una parte dei cittadini dei diritti costituzionali (e dunque la cancellazione di fatto della Costituzione repubblicana);
uno stato di emergenza/eccezione permanente;
-la diffusione di un atteggiamento mentale antiscientifico, dogmatico, fideistico e superstizioso che si rivela incapace di rispondere a una sola, semplice e fondamentale questione che riguarda l’efficacia dei vaccini: se, in qualunque ambito, una strategia di contrasto si rivela infatti inadeguata, la logica, l’esperienza e il buon senso impongono di cercarne un’altra. E invece di fronte al clamoroso diffondersi del virus tra milioni di soggetti vaccinati con due e tre dosi, la soluzione che si invoca consiste nell’assurdità scientifica di rendere obbligatorio per tutti un vaccino inefficace, rifiutando invece le cure che esistono, tanto è vero che la stragrande maggioranza delle persone colpite dal virus guarisce.
Sulla natura totalitaria della televisione Karl Popper ha avuto ragione: la televisione non è soltanto una cattiva maestra, è la peggiore delle autorità, è «le soleil qui ne se couche jamais sur l’empire de la passivité moderne. Il recouvre toute la surface du monde et baigne indéfinitement dans sa propre gloire; il sole che mai tramonta sull’impero della moderna passività. Esso ricopre per intero la superficie del mondo e si immerge indefinitamente nella propria gloria» (Guy Debord, La Société du Spectacle, Gallimard 1992, § 13, p. 21), anche e soprattutto quando la gloria è il lutto, quando la gloria è la morte.

 

Il piano inclinato

Gli eventi umani, i fatti sociali, le strutture politiche sono guidate, tra le altre, da una dinamica che possiamo chiamare piano inclinato: una volta che la pallina è messa in moto, essa acquista nel tempo e nello spazio velocità, sino a non poter più essere fermata e, alla fine, a schiantarsi.
Sin da quando nel giro di poche ore il Presidente del Consiglio Giuseppe Conte decise nel marzo del 2020 il confino generalizzato dei cittadini italiani, e analoghe e insieme diverse decisioni venivano prese da altri governi europei, sapevo che si sarebbe arrivato a questo: che io e tanti altri cittadini saremmo diventati dei reietti, dei paria, dei «negri, ebrei, comunisti», come recita una canzone.
L’istinto gregario (la servitù volontaria); il terrorismo di giornali e televisione (infodemia); ciò che Friedrich Dürrenmatt definisce «la terribile stupidità del mondo» (L’incarico, Adelphi 2012, p. 104), insieme a particolari contingenze, interessi e viltà producono la discriminazione tra gli esseri umani sino, a volte, alla loro estirpazione. L’Europa, mia madre, ha creduto di essersi affrancata per sempre dalle ondate di fanatismo e di oscurantismo. Naturalmente non è così: nella vita umana, individuale e collettiva, il per sempre non esiste. 

E quindi vediamo in atto una forma di totalitarismo nuova ma dai caratteri ancora fortemente novecenteschi: informazione sottoposta ai governi, discriminazione simbolica e prassica nei confronti di categorie ben identificate di cittadini dei quali si decreta la morte sociale (apartheid), violenza psicologica, minacce e insulti verso chi non è d’accordo con alcune decisioni delle autorità in carica.
Nello specifico, una società decente (come la definirebbero Popper o Barrington Moore) sarebbe quella nella quale chi vuole si vaccina e chi non vuole non lo fa, data anche la grande incertezza scientifica che involve la questione. E invece no: gli impulsi profondamente autoritari dei singoli e delle collettività (si possono in questo senso anche chiamare «fascisti») portano a dire, a volere, a gridare: «obblighiamoli!»
Il Presidente della Repubblica francese Emmanuel Macron è un perfetto esempio di «fascismo del XXI secolo», capace di coniugare conformismo mediatico, violenza delle polizie e biopolitica.
Il significato di tutto questo è ben riassunto in un breve e lucido testo di Giorgio Agamben, uno dei non molti filosofi contemporanei che abbiano compreso sin dall’inizio a cosa avrebbe condotto il piano inclinato.

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Cittadini di seconda classe

Come avviene ogni volta che si istaura un regime dispotico di emergenza e le garanzie costituzionali vengono sospese, il risultato è, come è avvenuto per gli ebrei sotto il fascismo, la discriminazione di una categoria di uomini, che diventano automaticamente cittadini di seconda classe. A questo mira la creazione del cosiddetto green pass. Che si tratti di una discriminazione secondo le convinzioni personali e non di una certezza scientifica oggettiva è provato dal fatto che in ambito scientifico il dibattito è tuttora in corso sulla sicurezza e sull’efficacia dei vaccini, che, secondo il parere di medici e scienziati che non c’è ragione di ignorare, sono stati prodotti in fretta e senza un’adeguata sperimentazione.
Malgrado questo, coloro che si attengono alla propria libera e fondata convinzione e rifiutano di vaccinarsi verranno esclusi dalla vita sociale. Che il vaccino si trasformi così in una sorta di simbolo politico-religioso volto a creare una discriminazione fra i cittadini è evidente nella dichiarazione irresponsabile di un uomo politico, che, riferendosi a coloro che non si vaccinano, ha detto, senza accorgersi di usare un gergo fascista: “li purgheremo con il green pass”. La “tessera verde” costituisce coloro che ne sono privi in portatori di una stella gialla virtuale.
Si tratta di un fatto la cui gravità politica non potrebbe essere sopravvalutata. Che cosa diventa un paese al cui interno viene creata una classe discriminata? Come si può accettare di convivere con dei cittadini di seconda classe? Il bisogno di discriminare è antico quanto la società e certamente forme di discriminazione erano presenti anche nelle nostre società cosiddette democratiche; ma che queste discriminazioni fattuali siano sanzionate dalla legge è una barbarie che non possiamo accettare. 

16 luglio 2021
Giorgio Agamben

Fonte: https://www.quodlibet.it/giorgio-agamben-cittadini-di-seconda-classe
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[Questo articolo è stato pubblicato anche in Girodivite e Corpi e politica]

Cattiva maestra

Karl R. Popper – John Condry
Cattiva maestra televisione
A cura di Francesco Erbani
Reset (Donzelli), 1994
Pagine 64

Le analisi che Popper e Condry dedicarono anni fa allo strapotere della scatola televisiva si sono rivelate rigorose e profetiche.
Già negli anni Novanta del secolo scorso la situazione era infatti talmente tragica da spingere un filosofo liberale come Karl Popper a chiedere una qualche soluzione che eviti la caduta in una dittatura dei media: «Ora, è accaduto che questa televisione sia diventata un potere politico colossale, potenzialmente si potrebbe dire anche il più importante di tutti, come se fosse Dio stesso che parla. E così sarà se continueremo a consentirne l’abuso. Essa è diventata un potere troppo grande per la democrazia» (pp. 24-25).
Parole chiare e indispensabili; tanto più giustificate di fronte ai dati forniti da John Condry, i quali dimostrano come la Tv eserciti un enorme potere sui bambini sottraendo loro tempo, socialità, capacità e gusto di leggere libri, contatto con esperienze vive, immergendoli invece in un mondo dove tutto – relazioni, oggetti, sesso, violenza – è pura finzione. Se si riflette sul fatto che la produzione televisiva mondiale ha un solo grande obiettivo, vendere merci e servire gli interessi delle imprese, capiremo a che cosa l’umanità ha consegnato se stessa: un potere economico posto al di fuori di ogni controllo e volto alla trasformazione di Homo sapiens in un’entità capace solo di acquistare oggetti senza pensar(ci), un Homo videns, come lo ha definito Giovanni Sartori (Homo videns. Televisione e post-pensiero, Laterza 2007).
Il tono di voce altissimo, le liti furibonde, l’invenzione di fatti inesistenti, l’enfasi su ogni insignificanza, il mestare nelle vite private e nei più feroci episodi di cronaca nera, e così via e così via…costituiscono il grande eccitante in grado di tenere legati gli spettatori fino al prossimo spot.
È questa stessa logica ad aver guidato l’indottrinamento collettivo sul virus Covid19, la cui esistenza è stata conosciuta da milioni di persone soltanto attraverso il mezzo televisivo e le sue appendici nella stampa e nella Rete. La miseria dell’informazione è sfavillata qui in tutta la sua (dis)misura. Una radicale frammentazione individualistica del corpo sociale può essere spacciata come salvaguardia della sua salute – meglio ancora della salute degli ultimi, degli anziani, dei deboli –soltanto se a questa leggenda del potere offre sostegno la capacità finanziaria e culturale delle televisioni, della stampa, dei social network ben indirizzati all’obbedienza.
Si sono quindi visti all’opera il terrorismo dei numeri gridati a caratteri cubitali – numero dei positivi, numero dei malati, numero dei morti – in un crescendo da crepuscolo della misura e della ragione. Si sono visti interi programmi televisivi pomeridiani collegati in diretta con elicotteri della Guardia di finanza all’inseguimento di un passeggiatore solitario su una spiaggia. E tutto questo a costi altissimi con i quali si sarebbero potuti acquistare tamponi e altri strumenti sanitari. Un tale spreco della finanza pubblica in un momento di grande difficoltà del corpo sociale costituisce un vero e proprio crimine.
Si sono visti medici, virologi e sanitari di varia natura confliggere in modo furibondo gli uni contro le tesi degli altri ma ossequiati tutti a causa del bianco dei loro vestiti, segno certo del cuore immacolato dell’esperto. E si sono visti anche mesti camion dell’esercito italiano trasportare lungo la penisola bare alcune delle quali vuote.
Si è vista insomma la feccia dello spettacolo che di nulla ha rispetto. Né della solitudine dei familiari ai quali viene impedito di piangere chi muore, né del dolore disperato perché solitario di chi muore, né della complessità dei dati, né della pluralità delle soluzioni.
Come accade per tutte le tossicodipendenze, la televisione ha bisogno ogni giorno di nuovi lutti, proclami e decreti. Ha bisogno della droga del potere che dispiega il proprio cordoglio, la morte di ogni autonomia, il tramonto della razionalità a favore della paura che si fa terrore.
Su questo Karl Popper ha avuto ragione: la televisione non è soltanto una cattiva maestra, è la peggiore delle autorità, è «le soleil qui ne se couche jamais sur l’empire de la passivité moderne. Il recouvre toute la surface du monde et baigne indéfinitement dans sa propre gloire», è ‘il sole che mai tramonta sull’impero della moderna passività. Esso ricopre per intero la superficie del mondo e si immerge indefinitamente nella propria gloria’ (Guy Debord, La Société du Spectacle, Gallimard 1992, af. 13, p. 21).
Anche e soprattutto quando la gloria è il lutto, quando la gloria è la morte.

«Esperimento della perfezione»

Tonio Hölscher si chiede se quell’«esperimento della perfezione» che fu la Grecità sia alla fine riuscito. Risponde ammettendo che se «la “classicità” fu un’epoca di conflitti e di contraddizioni, il suo merito consiste appunto nel fatto di aver reso tali conflitti oggetto di decisioni culturali» (in Aa. Vv. I GRECI Storia Cultura Arte Società. Vol. II/2, Una storia greca. Definizione (VI – IV secolo), a cura di Salvatore Settis, Einaudi 1997, pag. 205). Mauro Corsaro nega che tramite la Lega delio-attica gli ateniesi perseguissero soltanto una politica di «omogeneizzazione forzata degli alleati alla loro costituzione democratica» (41). Secondo Corsaro bisognerebbe anche rivedere molti luoghi comuni sulla schiavitù, dato che «gli schiavi in effetti non erano del tutto privi di diritti e non erano affatto considerati, a differenza di quanto si legge talvolta, come semplici cose, come una parte di proprietà» (403).
In realtà, furono i Greci a cominciare a porre un freno -tramite il culto per il nomos, per le leggi- al potere della tirannide e all’arbitrio del potente. Essi seppero coniugare competizione e parità, conflitto e libertà, individualismo e collettività. Contrariamente a quanto sostiene Popper, l’interrogativo su “come si governa” affondava nel mondo arcaico e aristocratico, mentre nella nuova polis democratica cominciò «una riflessione pubblica sul […] tema del “chi governa”» (582).
I Greci erano certamente pagani, la loro pratica dell’amicizia aveva come norma aurea un comportamento che i vangeli condannano: «Aiutare nel modo migliore gli amici e danneggiare con ogni mezzo i nemici» (454). Questo era per loro giustizia. Del tutto legittimo era anche l’uso del corpo per trarre piacere, per suscitare ammirazione, per muoversi con forza, agilità, letizia nello spazio pubblico e privato. Una delle più tipiche e complesse espressioni dell’Atene classica –il platonismo- può essere compreso solo su questo sfondo, nel quale il singolo e la comunità interagiscono e confliggono ma dipendono sempre l’uno dall’altro; nel quale la componente politica del platonismo non è utopica –tantomeno totalitaria- proprio perché è in realtà una posizione antropologica ed etica. Anche in Platone, come nei Sofisti e in fondo come in ogni altro Greco, la forza della parola e la profondità del pensiero sono inseparabili, tanto che «in un certo senso, tutto il compito della filosofia consiste nell’appropriarsi della retorica, vale a dire nel fare della persuasione una qualità intrinseca della verità» (822).
In questo modo, i Greci ci hanno trasmesso uno dei modi fondamentali della conoscenza razionale: la dimostrazione more geometrico. Essi non furono forse degli scienziati nel senso professionale con cui intendiamo oggi tale attività ma furono degli epistemologi –e durante l’Ellenismo anche dei tecnologi- di altissimo livello, ai quali dobbiamo «le idee stesse di scienza esatta, di sistema assiomatico, di coerenza logica. […] Ancora di più, le idee stesse di verifica sperimentale e di ricerca empirica sono state esplicitamente tematizzate dai più grandi di questi filosofi e studiosi» (1203).
I Greci percepirono senza illusioni la finitudine che ci costituisce; il loro pessimismo arcaico non dimenticò mai la caducità di ogni cosa, ente, vita, desiderio. Da tale sfondo di melanconia e di oscurità, come Nietzsche ben comprese, nacque il loro bisogno di misura, il rifiuto della hybris come il più pericoloso dei mali. Per questo sulle metope del Partenone -non un tempio per il culto ma l’autodefinizione della città nel marmo- scorrono le immagini che mostrano «la lotta della padronanza di sé contro la sfrenatezza, dell’ordine contro il caos, della civiltà contro la barbarie, della cultura contro la natura» (1259). Ed è sempre per la stessa ragione che l’affresco di Raffaello dedicato alla Scuola di Atene mostra degli uomini «sopraffatti dalla gioia di apprendere» (1340).
Una delle ultime battute di questo libro afferma che «oggi ci è difficile, se non impossibile, condividere una fede come quella di Jaeger. Ma appare anche arduo farne a meno» (1351).

Il vulcano della storia

Maxim Kantor. Vulcano
Fondazione Stelline – Milano
A cura di Alexandr Borovsky e Cristina Barbano
Sino al 6 gennaio 2013

Siamo seduti sul vulcano della Natura e su quello della storia. Pronti a inghiottirci entrambi in qualunque istante. Conoscerli è il lavoro della cultura. La razionalità dovrebbe indurci a rispettare sempre la Natura come la madre dalla quale traiamo respiro, vita e senso. Essa non è benevola né matrigna (è questo l’errore antropomorfico del grande Giacomo); per certi versi essa neppure è. Ciò che chiamiamo Natura non è struttura ma è un’immagine del divenire innocente e immenso della materia, nella quale abbiamo il peso di un granello di sabbia su una spiaggia tropicale.
La stessa razionalità dovrebbe indurci a non piegarci mai all’apologia della storia, se essa si presenta come apologia del potere. Neppure la storia in realtà esiste, se con essa si intende un processo teleologico, una provvidenza immanentistica. Schopenhauer, Tolstoj, Popper hanno mostrato in modi diversi come si tratti soltanto di un coacervo feroce di eventi ai quali si attribuisce a posteriori un senso.
Sono gli artisti -almeno qualche volta- a mostrare la miseria del potere e della storia. Maxim Kantor (1957) è tra questi. Le sue grandi tele si muovono tra il riferimento all’iconismo russo e la chiara continuità con l’espressionismo europeo, con la declinazione grottesca degli spazi, delle figure, delle situazioni. I ritratti di  Tolstoj, Marx, Lenin hanno l’ingenuità della tradizione popolare. Sarcastici e implacabili, invece, sono i dipinti dedicati alla Torre di Babele (2005, chiaramente ispirato al grande modello di Bruegel); alla Società aperta (2002), descritta come società della miseria e della fame; alla Folla solitaria (2011-2012), un’ammucchiata di solitudini; e soprattutto allo Stato (1991), un potente vortice di dolore, di erotismo e di prevaricazione.

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Paideia

Platone sta al centro della seconda tappa dell’itinerario di Werner Jaeger (1888-1961) dentro la forma-uomo ellenica. L’analisi delle opere della «più grande personalità di educatore apparsa nella storia del mondo occidentale» (Paideia. La formazione dell’uomo greco. II Alla ricerca del divino, trad. di A. Setti, La Nuova Italia, 1978, p. 40) permette di penetrare a fondo nella complessità dell’antropologia greca. Essa si fonda sull’assunzione della natura come norma e direzione dell’esistere di ogni ente. L’avventura umana consiste nell’aprire lo spazio di massima libertà consentito dalla struttura finita perché biologica della specie. Solo così si comprendono gli importanti legami e debiti di Platone con la medicina greca. Egli trovò la soluzione più originale al problema che muoveva tutta la cultura arcaica e che ha in Eschilo la sua espressione più chiara: l’uomo che erra lo fa perché indotto dagli dèi e tuttavia non per questo la sua colpa è meno grave. Platone contrappone alla forza di Ate la paideia, che ha come «presupposto la libertà della scelta, laddove il potere del demone appartiene al regno della necessità» (643). È qui che nasce l’individuo europeo e cioè la forma umana che oppone alla comunità, allo Stato, a Dio la propria irriducibilità  di singolo. A coloro, come Popper, che guardano con occhi moderni e prevenuti il progetto platonico, va quindi ricordato che «se lo Stato disegnato da Platone è Stato autoritario, ciò non deve però farci dimenticare che la sua fondamentale esigenza –inattuabile nella realtà politica- di fare della verità filosofica l’istanza suprema del potere, scaturisce in realtà da un immenso valore dato alla libera personalità spirituale, non già da un disconoscimento di un tale valore» (471-472).
Il fatto è che si sbaglia completamente prospettiva se si guarda al Platone politico separandolo dall’educatore, come anche viceversa. La centralità dell’impulso educativo da cui muove tutta la filosofia platonica è una cosa sola con l’esigenza di trovare una risposta al problema del potere. Fra individuo e comunità, società e psiche, Platone -come Socrate- instaura una dinamica di reciproca dipendenza per la quale l’uomo equilibrato può crescere solo sul terreno di una società giusta e questa è a sua volta frutto della giustizia nella coscienza del singolo. «Realizza il vero Stato nella tua psyché» (Repubblica 592 A-B) è il finale invito di Platone, con il quale l’unità arcaica fra il singolo, la famiglia, il clan, la polis, si spezza definitivamente.

Nonostante tutta l’importanza che attribuisce all’educazione, Platone «non crede alla uguaglianza meccanica dei suoi risultati, ma fa molto conto delle differenze individuali di temperamento» (404), sa che una precondizione è l’armonia tra intelletto e carattere; inserisce il fatto educativo nella più vasta dimensione sociale, ritenendo responsabili del successo o del fallimento l’intera comunità e non soltanto gli educatori; rifiuta sia la mera costrizione autoritaria come la riduzione del sapere a un gioco; è convinto, infine, con Socrate, che «l’educazione vera è il risvegliare facoltà che nell’anima sono sopite» (512). Proprio per tutto questo, la paideia si rivolge soltanto a coloro che promettono un qualche esito positivo e non a tutti indistintamente. Solo la prontezza nel capire, delle buone doti mnemoniche e specialmente una vera e propria avidità di sapere, richiedono e permettono la paideia. La selezione è quindi un prerequisito della pedagogia platonica, in modo che –al di là delle differenze di nascita, di classe e di sesso- sia la capace intelligenza della persona il criterio di un’educazione giusta.
Qualunque cosa si pensi della terapia platonica, la diagnosi è di grande verosimiglianza. La sua attualità dipende anche dalla perennità della natura umana, alla quale Platone riconosce la possibilità di cogliere il divino ma anche quella di albergare in sé un male profondo che solo la paideia può contenere. Anche per Platone, come per Nietzsche, l’ordine e la razionalità degli Elleni si ergono su uno sfondo di violenza e di furia. Per entrambi al centro sta il sapere, una scienza gaia, poiché «la conoscenza del significato delle cose è anche la forza creatrice che tutte le guida e le ordina […] e trasforma in un valore positivo tutto ciò che è vita, anche quello che sta ai confini oltre i quali il pericolo comincia» (297 e 306).
Il filosofo al potere -un progetto intessuto di convinzione profonda e di rassegnata malinconia- non ha quindi nulla di autoritario e neppure di professorale. Il filosofo è l’uomo formato nella paideia.

[Sul primo volume dell’opera: Educare
Sul terzo volume dell’opera: «Quell’antica luce risplende ancora»]

E già

di Battisti-Velezia
da E già (1982)

 

Una delle canzoni più prospettivistiche ed ermeneutiche della storia della musica.

«E già che la verità
è solo un’immaginazione
che una certezza propria non ha,
ti puoi avvicinar e questo servirà
ma è sempre un’interpretazione
finché il contrario non accadrà»

Un testo certamente nietzscheano e quasi popperiano: «usando il metodo scientifico: osservazione-analisi-esperimento» si perviene a una verità che è tale solo sino a prova contraria.
Tutto questo su una base musicale synthpop che utilizza sintetizzatori elettronici capaci di creare un effetto di gaia scienza.

[audio:Battisti_E_gia.mp3]
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