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«Il proprio tempo appreso nel pensiero»

È vero: «die Philosophie ihre Zeit in Gedanken erfaßt» (Hegel, Lineamenti di filosofia del diritto, prefazione), la filosofia (è) il proprio tempo appreso e colto nel pensiero, o almeno è anche questo. E dunque il breve e denso disegno che Davide Miccione traccia del nostro tempo è del tutto filosofico. Intelligenza del presente e chiarezza analitica descrivono infatti esattamente ciò che accade e la direzione che si sta cercando di imprimere alla vita collettiva, ovunque.
Il testo è uscito su Aldous il 10.9.2022, con il titolo Il nominabile attuale.

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Qualora fosse umanamente possibile, la campagna elettorale aumenta la confusione. Questioni gravi e questioni irrilevanti, problemi reali e capziosità, paure vere e chiamate alle armi di sessant’anni fa ritirate fuori oggi alla bisogna, si accavallano senza sosta. “L’innominabile attuale”, il presente incomprensibile entro cui seguiamo o persino pretendiamo di guidare gli altri (come nella bruegeliana parabola dei ciechi) si fa ancora più confuso, aumentano gli slogan e i distinguo, le false bandiere e i distrattori. Diventa allora necessario, accettando preventivamente il giudizio di superficialità e di indebita semplificazione che sempre ci si attira, provare a definire gli elementi essenziali del nostro (lungo e perdurante) presente politico. Posto in bell’ordine il catalogo è questo:

  1. I ricchi diventano e devono diventare sempre più ricchi.
  2. I ricchi devono “potere” sempre più, dunque sempre meno devono essere gli aspetti della vita sulla terra non riducibili nella sua interezza al valore e al potere del denaro (per farsi un’idea degli aspetti descrittivi si vedano i lavori di Michael Sandel).
  3. Lo Stato si può impoverire o indebolire se ciò è utile al punto 1 o può acquisire importanza se ciò è utile al punto 1. Si veda a tal proposito la demolizione del welfare in questi decenni e viceversa il potentissimo Stato ambulatoriale di questi tre anni.
  4. Le procedure democratiche devono diventare irrilevanti in modo da non disturbare lo sviluppo dei punti 1, 2 e 3.
  5. Le procedure democratiche possono essere momentaneamente enfatizzate se servono allo sviluppo dei punti 1, 2 e 3.
  6. Quasi tutti i prodotti ideologici o culturali passati (dai sumeri al Novecento), fatto salvo qualche sparuto aspetto della ragione liberale, si pongono, anche senza volerlo o saperlo, come forme di resistenza allo sviluppo dei punti 1 e 2 perlopiù per un loro implicito non mettersi pienamente a disposizione. Dunque vanno sottoposti a character assasination (Islam, comunismo ad esempio), o a indebolimento, svuotamento eccetera, con moto uniformemente accelerato.
  7. Il processo dei punti 1 e 2 viene chiamato capitalismo, mercatismo, finanzcapitalismo, turboliberismo eccetera sebbene a volte si incarni in grandi organismi internazionali (ovviamente non eletti) o Stati.
  8. Quando alcuni attori che perseguono il punto 1 e il punto 2 hanno necessità di agire attraverso i governi o vi si identificano momentaneamente ciò viene chiamato geopolitica.
  9. Il processo dei punti 1 e 2 è necessario venga visto come irreversibile da tutti e come l’unico pensabile e non sostituibile da altro (vedi il compianto Mark Fisher).
  10. Per mantenere inimmaginabile qualsiasi altro tipo di mondo non basato su 1 e 2 va eliminata la storicità come categoria di giudizio del reale e la conoscenza del passato. L’operazione (già a buon punto) viene portata avanti per omissione (indebolimento dell’insegnamento della storia e degli aspetti storici di ogni disciplina) e attivamente con la promozione di quell’aborto concettuale che è la cancel culture, concezione che dell’alterità fa un medesimo difettoso da emendare e da condannare in quanto non uguale a noi.
  11. Per mantenere inimmaginabile un altro tipo di mondo non basato su 1 e 2 va eliminata la filosofia o va sostituita con una filosofia settoriale e procedurale (ben si attaglia dunque la filosofica analitica) che non pensi di poter descrivere e valutare l’interezza del reale.
  12. Per mantenere inimmaginabile un altro tipo di mondo non basato su 1 e 2 va eliminata la Grande Letteratura e la sua capacità di violare la “moralina” che ogni presente pensa di incarnare pienamente.
  13. Il politicamente corretto, la cultura woke, creando una perenne preoccupazione per le offese arrecabili a individui, è un ottimo “spengipensiero” e devia l’attenzione di chi dovrebbe essere di sinistra (dunque contrario ai punti 1 e 2) verso questioni meramente linguistiche e di dettaglio. Essendo fondata sulla libera decisione dei soggetti di sentirsi offesa, la cultura woke può riprodursi ed espandersi all’infinito.
  14. Le forme attuali dell’arricchimento del punto 1 abbisognano di un uomo sempre più sbilanciato verso una pseudovita telematica e sempre meno in grado di vivere esperienze libere, corporee, amicali. Per questo la digitalizzazione è diventata sempre un bene, anche contro ogni evidenza sociologica.

Addendum: una grandissima parte delle parole e degli slogan che sentirete in questa campagna elettorale è solo una forma di subspeciazione artificialmente creata per simulare una differenza e una dialettica tra forze egualmente devote all’obbedienza dei primi due punti dell’elenco. A meno che il lettore non faccia parte dei ricchissimi o di coloro che ragionevolmente pensano di poterli parassitare per un tempo sufficientemente lungo (giornalisti, operatori finanziari, apparatčik di organismi internazionali, deputati) votare per partiti che non avversano lo sviluppo dei punti 1 e 2 (e degli altri 12 di supporto) potrebbe non essere la cosa più razionale da fare, né per sé né per il mondo.

[L’articolo è stato ripubblicato anche da Sinistrainrete]

Platone e la morale

«Di morale si muore» afferma giustamente Alain de Benoist (Diorama Letterario, n. 365, gennaio-febbraio 2022, p. 4). La sfrenata moralizzazione di ogni situazione ed evento -rapporti sociali, passioni amorose, guerre, commerci, religioni, cultura- sta conducendo la vita individuale e collettiva a sprofondare nella censura, nella superficialità, nella violenza.
Sì, la violenza dei moralisti, che è sempre stata tra le peggiori sue forme. Un’aggressività che trova nel politicamente corretto il proprio luogo di elezione. Sino a instillare e instaurare l’obbligo di credere alle più fantasiose, astratte, superstiziose e grottesche «verità morali».
Tra queste, singolare e insieme emblematico è il rifiuto pressoché assoluto della corporeità, della sua forza, del suo fondamento per ogni ulteriore elaborazione dell’umano. Si nega, in poche parole, che il maschio abbia un pene e la femmina una vulva. ‘Costruzioni culturali’ vengono definiti questi truismi, queste evidenze che nessuna percezione sensata dell’umano può mai negare. I corpi vanno sostituiti con un fantasma; anche i corpi come tutto il resto, in modo da «prendere congedo dalla realtà, giocare col proprio corpo e vivere in un mondo di simulacri, di apparenze» (Giuseppe Giaccio, ivi, p. 16).
Per chi coltiva tali prospettive, il radicamento dell’Europa nell’ontologia greca deve essere dissolto. In modo che una cultura del tutto iconica come quella nordamericana possa sostituirsi allo spessore materiale e tangibile della cultura europea. Poiché ancora oggi è vero che «chi controlla l’Europa controlla il mondo intero», ancora oggi è questo uno dei principi di fondo della geopolitica (Marco Iacona, ivi, p. 39). Un continente le cui radici stanno nella grande sintesi platonica dell’esperire e del pensare. Sintesi talmente pervasiva e fondante da aver generato i saperi e le esperienze estetiche, politiche, religiose, scientifiche. Ha ragione Aleksandr Dugin (per altri versi filosofo un poco bizzarro) a ritenere che «chi non conosce o non capisce Platone non può sapere o capire nulla. Platone è il creatore del terreno fondamentale della filosofia. La filosofia, a sua volta, è lo sfondo della teologia, della scienza e della politica. Platone, quindi, è alla base della teologia, della scienza e della politica» (Platonismo politico, trad. di D. Mancuso, Edizioni AGA, 2020, p. 81) e ha ragione Carlo Galli a pensare che sia necessario «fare irrompere nuovamente Platone nel moderno, proprio perché critico della demagogia imperante nella città» (Eduardo Zarelli, DL 365, p. 36).
Perché con Platone la morale sta al posto che le spetta, senza allagare l’intero territorio della vita che è molto più vasto, profondo, ricco e labirintico rispetto a ogni norma, regola, imposizione, censura, valore.

Astrattezza e dissoluzione

Il presente come dissoluzione. Questo si osserva ogni giorno e sempre di più. Forme di dissipatio del legame sociale sono il liberismo e il capitalismo. In contrasto con le società tradizionali, infatti, «dove le relazioni economiche sono incastonate in un tessuto di relazioni comunitarie (politiche, religiose, simboliche), il capitalismo si caratterizza per una quasi completa autonomia dell’economia: le interazioni sociali motivate dall’interesse individuale dominano qualunque altra forma di interazione non utilitaria o di interesse comunitario. Questa tesi, che è diventata classica a seguito della pubblicazione del lavori di Karl Polanyi e di Louis Dumont, deve costituire il punto di partenza di ogni seria analisi del capitalismo» (Guillaume Travers, Trasgressioni. Rivista quadrimestrale di  cultura politica, n, 67, settembre-dicembre 2021,  p. 3).
Una prova della costitutiva irresponsabilità collettiva che inerisce al capitalismo è l’invenzione, fondamentale ai suoi scopi, delle «società anonime», delle aziende a responsabilità limitata, strumento che nella sua apparente tecnicità costituisce in realtà «una causa cruciale della devastazione moderna del mondo» (ibidem). La ragione è abbastanza evidente: «se una strategia arrischiata porta i suoi frutti, tutti i profitti sono per gli azionisti; se, viceversa, fallisce, le perdite degli azionisti sono limitate all’ammontare del loro apporto iniziale. In questo caso, le perdite residue sono sostenute da terzi, dai creditori dell’impresa o dalla società nel suo insieme» (19).
Le «società a responsabilità limitata» hanno prodotto monopoli, truffe, iniquità sempre più estese, sino ad arrivare, come previsto dall’analisi marxiana, a poche aziende che decidono i destini degli stessi Stati, il cosiddetto GAFAM: Google, Apple, Facebook, Amazon, Microsoft. Si tratta non a caso di aziende il cui cuore è costituito dal digitale. È lo spirito del tempo, certo; è lo sviluppo di tecnologie assai comode, certo. Ma è anche segno e sostanza di un altro carattere del liberismo/capitalismo: l’astrattezza.
Le società anonime sono per definizione indifferenti alla concretezza, alla realtà delle persone e dei corpimente con un nome e cognome, alle motivazioni degli investitori, alle loro storie, indifferenti alle vite e al reale. Il capitale, infatti, «vale ormai soltanto come entità astratta. Ogni centesimo ormai equivale ad un altro. Per questo l’emergere della società anonima può essere visto come l’atto di nascita, in materia di diritto economico, del capitalismo. Il capitalista è colui che si lega agli altri esclusivamente attraverso il capitale, con apporti di fondi anonimi, senza impegnarsi in alcuna relazione interpersonale» (16).

Dissipatio e astrazione sono due caratteristiche che il liberismo condivide con uno dei suoi frutti ideologici più pericolosi, il wokismo. Cosi l’analisi sociologica definisce il fenomeno di vittimizzazione sistematica, Victimhood Culture, da parte di individui e gruppi che si sentono oppressi da altri individui e gruppi senza che i gruppi e gli individui definiti oppressori se ne debbano necessariamente rendere conto, anzi tanto più vengono ritenuti ‘colpevoli’ quanto meno ne sono consapevoli. «Secondo Campbell e Manning, la cultura della vittimizzazione si differenzia tanto dalla cultura dell’onore quanto dalla cultura della dignità. Queste ultime due dominavano rispettivamente le società tradizionali e la modernità» (Pierre Valentin, p. 45). L’origine teoretica del wokismo è invece il postmoderno, esattamente una sua particolare interpretazione per la quale il fatto che ogni forma del sapere sia anche un’espressione di potere conduce all’irrazionale conseguenza che vada demolito ogni edificio di conoscenza, vada negata ogni neutralità/oggettività e il moralismo debba sostituire ogni altra forma di atteggiamento verso il mondo.
Si tratta di un fenomeno sorto naturalmente nella patria del liberismo e del capitalismo contemporanei, gli Stati Uniti d’America. Sue espressioni ormai note sono il Politically correct e la Cancel Culture, che si esprimono in forme sempre più virulente, violente, intolleranti, in particolare nell’ambito delle idee e della ricerca: «Il discorso woke che relativizza (o giustifica) il ricorso alla violenza nei confronti di tali oppositori svolge un ruolo particolarmente pernicioso nell’autocensura universitaria» (67).
Le ricerche sul fenomeno hanno evidenziato che negli USA studenti e militanti woke provengono per lo più da classi agiate: «la correlazione fra alti redditi dei genitori e comportamenti woke è innegabile» (50); provengono da famiglie iperprotettive, per le quali ogni più piccolo conflitto e osservazione critica verso i propri figli costituisce un intollerabile rischio di «trauma psicologico»; provengono dunque da ambienti nei quali c’è sempre un terzo, un adulto a risolvere il conflitto. E infatti la cultura woke produce un ramificato proliferare di comitati etici, commissioni di controllo, uffici per la protezione delle vittime, il cui scopo è la censura delle opinioni che possano apparire offensive a chiunque si proclami minoranza: «la cultura della vittimizzazione incoraggia la capacità di offendersi e di regolare i conflitti tramite gli interventi di terzi: lo status di vittima diviene oggetto di sacralizzazione» (46).
Ulteriori espressioni del wokismo sono la non scientificità delle sue asserzioni, in quanto esse sono tendenzialmente fideistiche e infalsificabili; la possibilità di costruire su di esso intere carriere accademiche e mediatiche, producendo una vera e propria corsa alla concorrenza vittimaria (competitive victimehood): «una volta che si sono tuffati in questo paradigma, poiché la loro sopravvivenza accademica dipende dalla capacità di scovare ingiustizie razziali invisibili ai comuni mortali, questi teorici sono costretti a ‘scoprirne’ molte altre. È l’ultima tappa del postmodernismo» (41); la forte componente di fanatismo, per la quale ‘o si è con me o contro di me’: «coloro che coltivano la cultura della vittimizzazione cercano generalmente di imporre un contesto binario al quale è impossibile sfuggire, il che ha l’effetto di impedire ai semplici passanti una posizione di neutralità o di indifferenza» (48).

L’atteggiamento moralistico che vede agire in ogni relazione il dispositivo vittima/oppressore costituisce dunque l’ennesima manifestazione delle tendenze più violente e oscure che sono sempre presenti nelle società umane e che diventano particolarmente aggressive quando in nome del Bene moltiplicano in realtà la violenza, l’uniformità, il controllo, la censura. In tali casi, ed è ciò che sta accadendo in molte università anglosassoni, la ricerca scientifica, sia nell’ambito delle scienze quantitative sia in quello delle scienze ermeneutiche, viene assoggettata in modo sistematico a imperativi di tipo morale, sino a pervenire a esiti come questi: «da diversi anni gli appelli a ‘decolonizzare’ le matematiche (o addirittura la luce) si moltiplicano, e nell’estate 2020 si è verificata una disputa attorno al tema ‘2+2=5’» (68).
Il piano inclinato del politicamente corretto/moralismo conduce dunque e inevitabilmente all’irrazionalismo.

Anarchia vs. umanitarismo

Morale e società: un punto di vista anarchico
in «Il pensiero e l’orizzonte. Studi in onore di Pio Colonnello»
Mimesis, Milano-Udine 2021 [ma pubblicato nel 2022]
pagine 87-96

  • Indice del saggio
    1 La guerra giusta
    2 Umanitarismo vs. emancipazione
    3 Oltre l’umanitarismo: la prospettiva anarchica
    Conclusione, Orwell-Schmitt

In questo saggio, scritto per un volume in onore dell’amico Prof. Pio Colonnello, ho cercato di indicare alcune delle ragioni per le quali il venir meno del sistema stabilito nel 1648 con le paci di Westfalia, vale a dire l’esclusione dei civili dai conflitti e la non ingerenza negli affari interni degli altri Paesi, sia stato e continui a essere una delle ragioni della ferocia contemporanea, con le sue guerre scatenate in nome dei diritti e della democrazia così come in passato l’Europa subì le guerre condotte in nome delle religioni e della verità, guerre alla quali appunto Westfalia aveva posto fine.
La «guerra giusta» è una delle espressioni più esiziali e pericolose del paradigma umanitario, paradigma al quale contrappongo una prospettiva anarchica matura, vale a dire disincantata ma proprio per questo capace di difendere la democrazia, che significa non l’andare al voto ogni certo numero di anni -voto il cui esito viene regolarmente disatteso se diverso rispetto a quello voluto dai mercati- ma significa «effettiva divisione dei poteri, che oggi sono invece subordinati a quello finanziario; significa la libertà di scrivere e manifestare il proprio pensiero, sempre più limitata da censure ideologico-governative e dal flagello del politicamente corretto che sottomette al diritto penale persino le opinioni storiche e filosofiche».

Il Nilo

Assassinio sul Nilo
(Death on the Nile)
di Kenneth Branagh
USA, 2022
Con: Kenneth Branagh (Hercule Poirot), Tom Bateman (Bouc), Gal Gadot (Linnet Ridgeway Doyle), Armie Hammer (Simon Doyle), Jodie Comer (Jacqueline de Bellefort), Annette Bening (Euphemia), Russell Brand (Windlesham), Ali Fazal (Katchadourian)
Trailer del film

Elegante e fastoso come il precedente Assassinio sull’Orient Express (2017), anche Assassinio sul Nilo costituisce un omaggio al cinema e alle passioni.
Il cinema che compare in tutta la magnificenza dei paesaggi reali e virtuali, dell’esotismo che a questa forma dell’immaginazione è connaturato, poiché vedere un film (vederlo davvero, in una sala cinematografica) significa entrare non soltanto nel mondo onirico del grembo materno ma anche nel desiderio di novità, di improbabilità, di inaudito e di felicità che abita gli umani.
Le passioni poiché a fare da fondamento e accompagnamento a questa storia sono due dei maggiori tormenti della vita: l’amore e il denaro. L’amore verso l’Altro e l’amore per il denaro che rende più semplice accedere all’Altro, o anche il puro desiderare l’Altro e per questo essere disposti a qualunque cosa per soddisfare il desiderio che Lui ha di denaro.
E tutto questo attraversando il Nilo dal Cairo ad Assuan, con le acque, i tramonti, i templi immensi delle divinità egizie; con gli animali, il Sole, il deserto; con le nevrosi e l’infelicità di ciascuno (davvero, «anche i ricchi piangono»); con gli impeccabili gilet, cravatte, cappelli, con l’intima e palese eleganza di Hercule Poirot. Il quale però nella scena iniziale appare giovane soldato belga nelle orrende trincee della Prima guerra mondiale, nel fango, nel sangue, nei veleni, nei resti umani di quella guerra senza luce.
Il bisogno che Poirot sente di comprendere l’incomprensibile, di disvelare i modi, le intenzioni, le strategie della violenza affonda in quell’inizio della sua vita, in quella fine della sua vita. E questa dolente verità espressa e narrata dal film compensa un poco l’ormai insostenibile politically correct che lo intride, rendendo obbligatorio che di alcuni personaggi si mettano in evidenza il colore della pelle –«la razza»– e i gusti sessuali –«il genere». Una maledizione degna di quelle dell’antico Egitto e della quale non è facile liberarsi. Per ragioni, ovviamente, di denaro.

Elogio dell’odio

L’odio è una forza primordiale del vivente. Come tutte le forze profonde può diventare incontrollato in chi lo nutre, ma se rimane in una tonalità fredda e distante può costituire una fonte costante di energia. È questa forma di odio a essere intrinseca all’animale carnivoro e a permettergli di non tenere in alcun conto la vita della vittima. Non si tratta infatti di un odio emotivo e diretto verso un preciso individuo, che potrebbe essere dissolto da argomentazioni di una qualche natura, ma di un odio oggettivo e rivolto alla situazione che ostacola il predatore nella sua necessità di sopravvivere.
Uno degli esempi più chiari, evidenti e meglio documentati della forza che l’odio infonde in chi lo nutre è il cristianesimo. Questo insieme di dottrine e di comportamenti ha avuto un grande successo anche perché predica l’amore ma ha sempre praticato l’odio verso i peccatori, verso altri cristiani (definiti eretici), verso altre fedi, verso gli atei, verso i cristiani progressisti o verso i cristiani tradizionalisti, verso i pagani.
L’odio è sano anche perché alla lunga la melassa dei buoni sentimenti disgusta. Specialmente quando si è imparato – dai libri e dall’esistenza – quanta menzogna si agiti in tali sentimenti, quante tonalità negative, fatte di presunzione, viltà, interesse, arroganza, narcisismo, disprezzo verso la vita, la gaiezza, il sorriso. Disgusta questa bontà fatta di plastica dentro la quale sta l’acciaio di un autoritarismo che proclama a ogni passo, momento, sguardo, miseria: “Noi siamo i giusti, noi siamo i bravi, noi siamo gli accoglienti, noi siamo i corretti, noi siamo gli inoffensivi, noi siamo gli equi, noi siamo gli altruisti, noi siamo il bene. E voi che invece siete ingiusti, pessimi, escludenti, scorretti, aggressivi, iniqui, egoisti, voi non avete diritto nemmeno di parola ed è giusto che i nuovi poteri dei media e dei social network vi impediscano di proferire le vostre violenze, le vostre idee, le vostre parole, i vostri pensieri. Così il mondo sarà purificato e passeremo il resto dei nostri giorni a sorriderci a vicenda, ad accogliere, a raccontarci quanto stupenda sia la morale, a praticare le nostre belle solidarietà. E a dirci quanto la vostra libertà ci desse fastidio”.

Guerre e censure

Non è necessario aggiungere molto alle analisi critiche sul presente e sulla storia che intessono il numero  362 (Anno XLII – 7/8 – Luglio/Agosto  2021) della rivista Diorama Letterario. Mi limito a riportare una serie di riflessioni suddividendole per argomento.

Afghanistan
Nei rapporti forza del conflitto asimmetrico, l’ossessione per le operazioni a ‘perdite zero’ induce gli Stati maggiori ‘democratici’ e ‘umanitari’ a programmare interventi dal costo economico esorbitante, che finiscono così per rendere insostenibile nel lungo periodo l’intera campagna; inoltre induce i comandi sul campo a richiedere sistematicamente l’appoggio aereo o il fuoco indiretto dell’artiglieria e, quindi, a seminare la morte tra i civili, cosa che -indipendentemente dalla sua enormità a livello etico- rende controproducente l’utilizzo stesso della forza nella conquista dei «cuori» della popolazione.
(Eduardo Zarelli, p. 23; aggiungo solo che caratteristica della Società dello Spettacolo è la sua capacità di dissolvere ogni evento in una fiammata mediatica senza radici né continuità. Il destino delle donne afghane è sparito dai media e dalle menti, sostituito da nuove questioni che saranno a loro volta bruciate nell’arco di pochi giorni o persino poche ore. Invece la continuità implacabile -sui media di ogni genere e soprattutto in Italia- di tutto ciò che è legato al Covid19 costituisce un’ulteriore testimonianza di quanto autorità e aziende farmaceutiche abbiano investito -in ogni senso- su tale questione).

Censura
Una volta, la censura era fondamentalmente opera dei poteri pubblici. Oggi, proviene dalle lobbies, dalle leghe della virtù e dalle reti sociali. Il potere, parallelamente, ha delegato il potere di censura a società private come Twitter, Facebook, o Google, una cosa che non si era ancora mai vista. Con la paura, l’autocensura prevale sulla censura. È una delle ragioni per le quali non ci può più essere un dibattito argomentato. Su qualunque argomento, si arriva immediatamente agli estremi. I dibattiti televisivi cominciano ad assumere aspetti da scontri di piazza e il grande ospizio occidentale assomiglia ogni giorno un po’ di più a un manicomio. Si trascura d’altronde troppo il fattore psichiatrico: vediamo tutti i giorni in televisione degli isterici che pontificano e dei monomaniaci che sono visibilmente altrettanto caratteriali e squilibrati
(Alain de Benoist, pp. 4-5)

[A proposito dell’organizzazione Sleeping Giants, sostenitrice del politicamente corretto, della Cancel Culture, del linciaggio mediatico]
Di questi «giganti dormienti», attivisti dell’oltranzismo progressista, in Italia si parla ancora poco. Troppo poco, in relazione alla loro pericolosità e all’elevata probabilità di vederli presto entrare in campo in misura molto più incisiva, con il loro gioco a gamba tesa, per intensificare la già cospicua demonizzazione degli avversari. […]
Minacciati nella loro stessa esistenza, i media sotto attacco hanno finalmente reagito, concordando una azione legale. Ma c’è da scommettere che l’apparato informativo ufficiale ribalterà i ruoli nella vicenda e farà passare gli aggrediti per aggressori e questi ultimi per coraggiosi martiri della lotta per la tutela dei diritti dell’uomo. […]
Primo: l’efficacia del rullo compressore della omologazione al pensiero globalista oggi dominante si fonda innanzitutto sul ricatto, materiale o psicologico che sia. […] Secondo: questi ricatti – la patente di razzista o di omofobo assegnata a chi non si piega al coro ‘inclusivista’ – puntando a creare un complesso di inferiorità nei dissidenti e ad indurli a tenere le loro ragioni ed obiezioni ben chiusa nella sola cerchia delle frequentazioni più intime, se non addirittura in interiore homine (ove peraltro non a caso habitat veritas). Terzo: l’obiettivo finale del processo è la cancellazione dell’identità nelle coscienze individuali e in quella collettiva. È questo l’estremo baluardo a difesa della specificità dei popoli, delle culture -e persino dei sessi-, su cui per millenni si sono articolate la bellezza del mondo, la sua vitalità, la sua creatività, nelle più svariate forme a cui ogni aggregato umano ha saputo dare espressione.
(Marco Tarchi, pp. 1-3).

Jean-Claude Michéa dice assai giustamente che la cancel culture è il «complemento indispensabile del rullo compressore dell’economia liberale di mercato». La cancel culture non va intesa come «cultura della soppressione» quanto come soppressione della cultura. Leggendo le Tesi sul concetto di storia di Walter Benjamin, si cade su questa terribile frase: «Neanche i morti saranno al riparo dal nemico, se esso vince». [il grassetto è mio] Con la cancel culture, ci siamo. La caccia all’«inappropriato», colpevole di non rispondere alle norme dell’ideologia dominante, consente tutto, giustifica tutto. Screditare prima e far sparire poi tutto ciò che, da due o tre millenni, è stato prodotto, pensato, scritto, teorizzato, dipinto, scolpito, rappresentato, filmato , diventa possibile, dato che, frugando bene, si finirà per trovare ovunque tracce di «razzismo sistemico», «omofobia», «sessismo» e altre scempiaggini di moda.  […]
Chi svolge questo compito non ha mai accettato che la storia sia tragica, che la realtà possa essere compresa solamente nella complessità dei chiaroscuri. Sogna un mondo trasformato in safe place, in asilo per orsetti del cuore dai muri imbottiti. È il partito del neopuritanesimo punitivo, il nuovo partito iconoclasta (distruzione di statue) e persecutore, il partito della contrizione e dell’afflizione, del pentimento e della techouva.
(Alain de Benoist, p. 6).

Al Figaro Magazine si è verificato un episodio abbastanza simile quando mi è stato fatto notare che il mio anticapitalismo infastidiva gli inserzionisti. Si vede in tal modo che la normalizzazione ha soltanto cambiato forma: non si deportano più i dissidenti, li si condanna alla morte sociale; non li si fucila più, ma li si mette in disparte per ridurli al silenzio. Come nell’epoca sovietica, l’intellettuale può scegliere solo tra l’aderire alla doxa dominante o il restare fuori dal gioco: per sopravvivere, deve recitare ciò che ci si attende da lui. Personalmente provo soltanto disprezzo per quelli che antepongono i loro interessi alle loro convinzioni. Costoro non differiscono molto dai ‘pentiti’, contestatori da quattro soldi che hanno finito col coricarsi con delizia nel sistema della spettacolo, con i relativi privilegi e rendite vitalizie. E non sono nemmeno uno di quei prudenti professori universitari che dicono ciò che pensano solo una volta andati in pensione.
(Alain de Benoist, p. 5).

Il caso Matzneff
Matzneff ha 85 anni e il cancro: le anime belle, le anime indignate, diranno che se l’è meritato e che per i carnefici non è prevista la pietà. Sono le stesse che in Francia fino al giorno prima si sdilinquivano davanti alle intemperanze erotiche del marchese de Sade, che pure era un criminale patentato…[…]
È difficile dare torto a Matzneff quando osserva: «Se è normale bruciare quei miei libri in cui è descritto un passato d’amore poco ortodosso, esigo allora che vadano al rogo anche i libri di Anacreonte, Teocrito, Tibullo, Petronio, Luciano di Samosata, Djami, Kayyam, Aretino, Ronsard, La Fontaine, Baffo, Casanova, Pony, Sade, Laclos, Mirabeau, Byron, Baudelaire, Apollinaire, Gide, Colette, Sandro Penna, Nabokov, senza dimentica Hécate et ses chiens di Paul Morand. […]
Sulla ‘età del consenso’, per tornare al libro della Springora, l’età legale dell’amore, Matzneff non ha mai avuto dubbi e lo ha sempre sostenuto pubblicamente: andava abbassata, «quei quindici che speravamo il legislatore tramutasse in tredici». Ne scriveva allora in lettere aperte, sulle colonne di «Libération» e di «Le Monde» e a fianco della sua firma c’erano quelle di Sartre, Aragon, Roland Barthes, Simone de Beauvoir. Era il 1977, erano tutti pedofili? […]
Parliamo di letteratura. Matzneff è uno scrittore che rimarrà, per l’eleganza dello stile, per la cultura, per la varietà di interessi, di trame, di personaggi e insieme per il narcisismo e la sofferta verità che la continua esposizione di sé comporta, nel bene come nel male. […] Per i libri però non esistono sbarre, e non c’è prigione da cui prima o poi non riescano a evadere.
(Stenio Solinas, pp. 36-38)

Ordine
Non ho mai accettato l’idea destrorsa secondo la quale un’ingiustizia è meglio di un disordine. Un’ingiustizia è, per me, il più grande dei disordini.
(Alain de Benoist, p. 4).

Stati Uniti d’America
Il significato vero della propaganda di sinistra, con il suo universalismo umanitario o di quella di destra con il «prima gli italiani» è comunque e sempre «come vogliono gli americani».
Dovrebbe essere inutile, insomma, dire che questa non è un’alleanza ma una sudditanza in cui solo una delle due parti è libera e sovrana, perché chi non lo vede evidentemente non lo vuole vedere (pensare qui a tutto il sistema dei media occidentali è del tutto appropriato).
La prima cosa da fare sarà sbarazzarsi di quel simulacro di istituzione, burocratica, irresponsabile e asservita, che vive tra Straburgo e Bruxelles.
(Archimede Callaioli, p. 18)

In Afghanistan le truppe occidentali si ritirano dopo venti anni dalla guerra più lunga mai combattuta dagli Stati Uniti (e dai suoi alleati). […] In Iraq la guerra del 2004 contro Saddam Hussein fece precipitare il Paese e il Medio Oriente nel caos da cui vennero partoriti l’Isis e il fanatismo del terrorismo islamista. La guerra alla Libia del 2011 contro Mu’ammar Gheddafi ha devastato e ora spartito il Paese tra la Turchia neo-ottomana di Recep Tayyip Erdoğan e l’Egitto del generale Abdel Fattah al-Sisi. In Siria la guerra jihadista figlia anche dell’ingerenza occidentale ha distrutto un intero Paese, causando cinquecentomila morti e contribuendo all’instabilità generale del Mediterraneo.
Cosa l’Italia e l’Europa, direttamente o indirettamente coinvolte, abbiano avuto da guadagnare in questi interventi militari, è sotto gli occhi di tutti e sottolinea una volta ancora la necessità che il continente europeo miri al fine di emanciparsi dalla subalternità atlantica in un contesto geopolitico multipolare, favorendo reazioni internazionali multilaterali. Affermare la sovranità neutrale dell’Europa significa ritornare nella storia, assumersi la responsabilità della propria difesa, in alleanza continentale con chi punta alla costruzione di un mondo plurale, sostenibile, capace di ricomporre il divario tra cultura e natura, dato il suicida progetto della forma capitale di una crescita illimitata di una Terra finita.
(Eduardo Zarelli, p. 21).

Transumanismo
Nella prospettiva della «grande reinizializzazione» (il great reset) si mette all’opera una mutazione antropologica che mira a fare dell’uomo un individuo digitalizzato, connesso, retto da dispositivi tecnologici privi di pertinenza esistenziale, isolato per quanto possibile dai suoi simili, vivente in permanenza nel «distanziale» e nel virtuale. La vera Grande Sostituzione, quella dell’uomo da parte della macchina. Un transumanesimo tecnologico che, nelle attuali circostanze, va di pari passo con l’igienismo di Stato. Lo Stato terapeutico. Big Mother. La tabula rasa è la fine dell’uomo e il caos.
(Alain de Benoist, p. 6).

Vaccini
Il primo fatto inconcepibile è che l’Unione europea abbia stipulato con le aziende produttrici dei vari vaccini contratti che sono stati secretati. […]. Nel caso di stipulazione di contratti in cui la Commissione agisce come soggetto di diritto privato, in una materia di primario interesse pubblico, ma nella quale in nessun modo può configurarsi la necessità del segreto, con controparti a loro volta private, la decretazione è inconcepibile, in termini di diritto ma vorremmo dire anche dal punto di vista della pura decenza politica. Ma quando poi si sono (in parte) desecretati quei contratti, la cosa è apparsa anche peggiore.
Nei contratti non c’era, a carico dei fornitori, alcuna effettiva penale in caso di inadempimento, né una definizione stringente dei tempi delle prestazioni. […]
Di fronte ad un tale incredibile esempio di insipienza, noi ci rifiutiamo di pensare che di insipienza si tratti. Siamo troppo oltre. Per un comportamento di questo tipo, l’unica spiegazione è che chi ha contrattato non fosse in realtà libero di farlo, ma abbia dovuto accettare tutto quanto gli è stato proposto a scatola chiusa. Certo, «Big Pharma» non è una controparte arrendevole né priva di potere nel senso più forte della parola, ma Regno Unito e Stati Uniti hanno negoziato con le stesse aziende con risultati del tutto diversi. E allora, quale è la differenza tra Gran Bretagna, Stati Uniti d’America ed Unione europea? La differenza, semplicemente, sta nel godere o nel non godere di sovranità, nell’essere o meno padroni di se stessi.
(Archimede Callaioli, p. 17)

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