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Pistole e parole

The Hateful  Eight
di Quentin Tarantino
USA, 2015
Con: Samuel L. Jackson (il maggiore Marquis Warren), Kurt Russell (John ‘il Boia’ Ruth), Walton Goggins (Chris Mannix), Jennifer Jason Leigh (Daisy Domergue)
Trailer del film

hateful_eightWyoming. Pochi anni dopo la fine della Guerra di Secessione. Una diligenza corre cercando di sfuggire a  una tempesta di neve. Trasporta dei cacciatori di taglie e la loro preda, una donna. La diligenza arriva all’Emporio di Minnie. La proprietaria non c’è. Ci sono invece dei soggetti ambigui e reticenti. Nessuno si fida di nessuno. E giustamente. Il disvelamento coincide con il morire.
Il cinema barocco e splatter di Tarantino si misura qui con una struttura teatrale nella quale tutto avviene – per tre ore- in un unico ambiente. Le parole e le pistole dominano la scena.
Parole che giungono al culmine nel racconto che il maggiore Warren -un nero- fa al generale sudista Smithers, al quale riferisce come gli ha ucciso il figlio dopo averlo fatto camminare nudo nella neve e avergli imposto una fellatio.
Pistole che spuntano dappertutto e che compiono, inesorabili, il loro lavoro.
Nonostante la conclusione, spero ironica oltre che sentimentale, segnata dal nome e dalla morale di Abramo Lincoln, The Hateful  Eight è tanto divertente quanto feroce. Divertente e feroce anche nel suo essere politicamente scorretto. Delle donne il minimo che si dice è che sono delle troie, dei neri si afferma che sono proprio negri e bugiardi e subumani, dei messicani si sostiene che sono peggio dei cani. E così via.
Soprattutto si comprende come l’utilizzo, e non soltanto il possesso, delle armi ‘per difesa personale’ stia nel codice genetico delle popolazioni che abitano il Nord America da New York alla California. Selvaggi.

La cultura del piagnisteo

di Robert Hughes
Sottotitolo: La saga del politicamente corretto

(The Culture of Compliant, 1993)
Traduzione di Marina Antonielli
Adelphi, 2003
Pagine 242

Il Sessantotto ha voluto essere antiamericano. Lo è stato veramente? In realtà molte delle parole d’ordine che risuonavano nelle scuole e nelle Università provenivano da correnti pedagogiche statunitensi. Si voleva abbattere la cultura che aveva prodotto il Vietnam utilizzando gli strumenti che essa stessa andava elaborando.
Primo fra questi la riduzione dell’istruzione e più in generale del sapere a terapia. Negli ultimi decenni le scuole e le università hanno progressivamente abbassato «i criteri d’ammissione e i livelli di insegnamento per permettere agli svantaggiati di stare al passo» anche a danno del diritto all’istruzione degli studenti più capaci (pag. 84). Contro gli allievi bravi, contro chiunque mostri di emergere per intelligenza, volontà, interesse si avverte quasi un pregiudizio come se il distinguersi di alcuni suonasse rimprovero alla condizione degli altri. Ogni differenza risulta inaccettabile se la cultura deve servire solo ad attutire le distanze sociali con l’abbassare tutti invece che col permettere a chiunque di emergere.
Il riduzionismo terapeutico -la scuola come guaritrice del “disagio giovanile”- è una delle espressioni più efficaci del principio di deresponsabilità che il Sessantotto ha assimilato dalle correnti pedagogiche nordamericane degli anni Sessanta, anni di sviluppo economico impetuoso, nei quali i figli dei ceti medi ritenevano che tutto fosse raggiungibile con poca fatica e dunque tutto fosse loro dovuto. Quando poi, però, un simile sogno infantile si scontra con le prime difficoltà dell’esistere, dai sentimenti al lavoro, si genera un rancore che ha bisogno di responsabili sui quali scaricare ogni torto. Non è quindi «colpa nostra se siamo scriteriati, venali o francamente scellerati, perché veniamo da “famiglie disfunzionali”» (23).

Eliminare la fatica che ogni impresa umana comporta, rimuovere la dimensione intrinsecamente elitaria del sapere come di ogni opera creativa, significa cedere poi alla «sconfinata, cinica indulgenza verso l’ignoranza degli studenti, razionalizzata come riguardo per l’ “espressione personale” e l’ “autostima”» (87). Ma nell’arte e nel concetto, ancor più che in altri ambiti, le élites sono necessarie. L’importante è che la loro composizione non rimanga statica, che siano aperte a chiunque mostri talento, rigore, immaginazione, qualunque sia, poi, il suo sesso, il rango sociale, il colore della pelle. Umiliare l’ingegno in nome di un egualitarismo grottesco significa produrre una cultura in cui tutte le opere sono grigie e sul nero dell’intelligenza oscurata rimane a splendere solo la luce catodica dell’immagine elettronica. Sulle macerie del Sessantotto -o forse autentico monumento alla sua vittoria- è rimasta la televisione «musa della passività» (60). La realtà, con il suo spessore complesso e difficile, è sostituita dall’immagine-ideologia il cui enorme merito è l’esentare dalla fatica del pensiero.

Il politicamente corretto è anche la messa in scena del senso di colpa che divora l’Europa e non le consente di fare davvero i conti con la storia della propria sconfinata potenza. Sostenere che il nostro Continente sia l’origine di ogni male per gli altri popoli del pianeta è come ritenerlo intrinsecamente superiore a tutte le culture. Operano in entrambi i casi semplificazione e schematismo. Guerre, schiavismo, distruzione dell’ambiente non sono un portato dell’uomo europeo; le civiltà africane, arabe, asiatiche furono e in gran parte sono ancora ferocemente discriminanti, fondate sulle caste e sull’obbedienza assoluta al sacerdote-signore (cfr. anche J. Diamond, Armi, acciaio e malattie. Breve storia del mondo negli ultimi tredicimila anni, Einaudi 1998).

Un multiculturalismo autentico rappresenta l’opposto degli inviti all’isolamento nella purezza della propria identità tribale. Malcom X potè una volta riunire i propri seguaci insieme a quelli di un gruppo neonazista. Erano d’accordo nel chiedere un’America separatista, divisa in due, bianchi da una parte, neri dall’altra. E invece «nel mondo prossimo venturo, chi non saprà navigare il mare della differenza sarà spacciato» (121). O almeno questo è l’auspicio. Che un uomo valga per quanto riesce a dare a se stesso e al mondo e non per il suo sesso, l’ideologia o la religione che professa, le abitudini sessuali che pratica, la percentuale di melanina nella pelle. Le differenze convivono con altre differenze e di esse continuamente si arricchiscono.

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