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Sciopero

Nel corpo sociale accadono a volte dei fatti sorprendenti. Uno di questi è lo sciopero indetto da una categoria di lavoratori che non sciopera mai: i docenti universitari, i quali non svolgeranno il primo appello della sessione d’esame che va dal 28 agosto al 31 ottobre 2017. Il secondo appello si terrà invece regolarmente.
Lo sciopero non è stato indetto da sigle e organizzazioni sindacali, più o meno rappresentative, ma da un movimento spontaneo di docenti che si chiama Movimento per la dignità della docenza universitaria .
Lo sciopero ha un obiettivo circoscritto, preciso, legittimo e doveroso. Perché è un obiettivo sia pragmatico sia simbolico e riguarda il blocco degli scatti stipendiali.
Il governo Berlusconi bloccò gli scatti di stipendio di tutti i lavoratori pubblici dal 2011 al 2014. Per le  altre categorie di pubblici dipendenti -dai magistrati alle forze dell’ordine, dai diplomatici ai colleghi delle scuole- tale blocco è cessato il primo gennaio del 2015, data dalla quale questi lavoratori hanno potuto ricevere aumenti di stipendio e godere degli effetti giuridici  dello sblocco (sulla pensione e altro).
Soltanto per i docenti universitari questo non è accaduto. E anzi il blocco è stato per noi prorogato di un altro anno. Solo per noi. Questo significa che il lavoro profuso negli anni dal 2011 al 2015 è come se non si fosse mai svolto, è come se non avessimo lavorato. E questo comporterà perdite complessive molto consistenti, soprattutto per i docenti assunti negli anni più recenti.
Perché? Quali sono le ragioni di questa discriminazione, quali le motivazioni di tale disprezzo? Che cosa hanno i docenti universitari in meno di magistrati, membri delle forze dell’ordine, docenti delle scuole?
Si tratta di una delle tante modalità con le quali i governi che si sono susseguiti negli ultimi anni -di destra o di sinistra che siano- intendono umiliare l’Università, la quale ha naturalmente i suoi difetti anche assai gravi -come tutte le strutture umane- ma è ancora un luogo di elaborazione di pensiero critico, è ancora libera dai ricatti e dalle imposizioni dei governi, come invece accade a militari, giornalisti RAI, funzionari di varia natura.

Come si legge nel sito del Movimento:
«È indubbio che l’attacco all’università pubblica nel nostro paese è passato anche per il blocco/cancellazione delle classi e degli scatti dei docenti universitari; peraltro unico caso tra il personale pubblico non contrattualizzato che non ha goduto di una qualche forma di recupero.  Ed è pure indubbio che tali scelte politiche, che peraltro pesano maggiormente sulle retribuzioni più basse e sui docenti più giovani, costituiscono un attacco al valore sociale del lavoro di ricerca e di didattica svolto dai docenti italiani».
L’astensione dagli esami è dunque «finalizzata a ottenere l’adozione di un provvedimento di legge, in base al quale:
1) le classi e gli scatti stipendiali dei Professori e dei Ricercatori Universitari e dei Ricercatori degli Enti di Ricerca Italiani aventi pari stato giuridico, bloccati nel quinquennio 2011-2015, vengano sbloccati a partire dal 1° gennaio del 2015, anziché, come è attualmente, dal 1° gennaio 2016;
2) il quadriennio 2011-2014 sia riconosciuto ai fini giuridici, con conseguenti effetti economici solo a partire dallo sblocco delle classi e degli scatti dal 1° gennaio 2015.
Tale manifestazione conflittuale è conseguenza di una vertenza che si trascina senza esito apprezzabile fin dal 2014, come testimoniano numerose lettere firmate da 10.000 o più Professori e Ricercatori Universitari e Ricercatori di Enti di Ricerca Italiani: lettera al Presidente del Consiglio del 2014, lettera al Presidente della Repubblica del 2015 (che la trasmise, cogliendone la rilevanza, al Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca), altre due lettere al Presidente del Consiglio nel 2016 (in seguito alle quali una nostra delegazione è stata ricevuta da delegati della Presidenza del Consiglio il 30 novembre 2016).
[…]
Un incontro avvenuto il 27 marzo 2017 tra una nostra rappresentanza e tre delegati della Ministra dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca lasciava presagire qualche sviluppo positivo, ma poi, dopo un successivo incontro del 7 giugno scorso (ottenuto solo dopo tre richieste al MIUR, in data 20 aprile, 11 maggio e 21 maggio scorsi, al fine di avere risposte), non si è avuto alcun riscontro» .
Da qui la decisione di scioperare. Decisione nata dal disprezzo e dall’indifferenza di governi, ministri dell’Università e partiti verso le più che legittime richieste dei docenti. Decisione del tutto legittimata dalla Commissione di garanzia dell’attuazione della legge sullo sciopero nei servizi pubblici essenziali, come si legge in questo documento della Commissione. Ogni tentativo -da qualunque parte provenga- di modificare le modalità dello sciopero o di intervenire sulle commissioni d’esame è pertanto da considerarsi fantasioso e illegale.

L’Università in Italia e in Europa vede certamente molti altri ostacoli nell’espletamento della propria funzione e tuttavia è importante evitare il cosiddetto benaltrismo, una fallacia per la quale rispetto a un ben preciso, praticabile e circoscritto obiettivo, c’è sempre qualcosa di più importante da tenere in considerazione, c’è ben altro. È vero: nel mondo e nella vita c’è sempre ‘altro’ -è quasi tautologico- ma l’azione umana, che sia individuale o collettiva, deve sempre concentrarsi su qualcosa di de-finito rispetto al tutto.

Una studentessa di sociologia dell’Università di Trento -Gilda Fusco- ha colto il significato e le implicazioni dello sciopero dei docenti in modo davvero profondo. Ed è confortante che tra gli studenti ci siano delle intelligenze critiche capaci di scrivere questo:
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«È luogo comune che i docenti in generale, e quelli universitari in particolare, siano dei “privilegiati”: riceverebbero uno stipendio spropositato a fronte di un carico di lavoro irrisorio. Ma sul lavoro dei docenti, di ricerca e formazione, si fonda l’intera società: la trasmissione dei saperi, necessaria in ogni ambito della vita umana, è quella che ci ha consentito di raggiungere gli sviluppi (culturali e tecnologici) che spesso, nella vita quotidiana, diamo per scontati. La stessa democrazia, con le sue costituzioni e i suoi diritti sociali, civili e politici, si deve anche all’opera (oltre che dei rivoluzionari) di pensatori e studiosi che, secondo molti, perderebbero tempo dietro i libri senza produrre nulla di “concreto” per la collettività. Altri, si potrebbe replicare, sono i “privilegiati a torto”, e tanti gli esempi che si potrebbero portare.
[…]
Ciò che preoccupa di più, tuttavia, è l’immagine (sempre più diffusa) che si ha di scioperi e proteste sociali in genere. ‘Se viene fatto a discapito di un’altra categoria uno sciopero non ha nulla di positivo’, ha dichiarato uno dei rappresentanti [degli studenti]. Eppure, come mostra la storia, uno sciopero per essere efficace ha bisogno proprio di ‘danneggiare’ qualcuno. È esattamente quello che facevano i braccianti del primo ‘900: rifiutavano di coltivare la terra – anche per settimane, e non per qualche giorno – a discapito dei padroni e della produzione. Certo non si può paragonare gli studenti (i danneggiati di oggi) ai vecchi proprietari terrieri, ma è anche vero che oggi uno sciopero, per danneggiare il datore di lavoro o la controparte (il governo, nel caso dei docenti), è spesso costretto a creare disagio ad altre categorie sociali. Così gli scioperi dei trasporti colpiscono i pendolari, e quelli dei docenti nuocciono agli studenti. Dovrebbe saperlo bene la rappresentanza studentesca, che sostiene sempre la causa degli operatori delle mense universitarie, nonostante i loro scioperi creino anch’essi disagio a chi mangia a mensa per risparmiare. È brutto che lo sciopero crei danni, ma è così che funziona.
[…]
D’altra parte se la ‘comunità universitaria’ non è riuscita a smuovere il blocco degli stipendi, perché mai i docenti non dovrebbero usare altri mezzi di lotta? Siamo sicuri che siano stati i professori a dividere la comunità? O, piuttosto, sono state le altre componenti universitarie a ‘tradire’ i docenti, lasciando che i loro diritti continuassero ad essere lesi, lamentandosi poi per lo sciopero di alcuni di loro, giunto dopo tre anni di petizioni presentate inutilmente al governo?»
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(Testo integrale dell’intervento di Gilda Fusco)

Uno degli effetti dello sciopero in corso è che il corpo sociale si sta finalmente accorgendo della nostra esistenza.
Negli ultimi due anni, infatti, siamo stati in agitazione contro le pratiche antiscientifiche dell’Agenzia nazionale di valutazione del sistema universitario e della ricerca (ANVUR) e contro la cosiddetta Valutazione della Qualità della Ricerca, i cui effetti sono gravemente distorsivi della ricerca stessa. Su questo abbiamo scritto, ci siamo riuniti in assemblee, molti di noi hanno alla fine sabotato il processo non rendendo disponibili le proprie pubblicazioni per la VQR, subendo conseguenze anche personali. Ma nessuno in Italia sembra averlo saputo. E invece ora finalmente la situazione dei docenti italiani, e quindi anche dell’Università, arriva alle orecchie delle famiglie e del corpo sociale, uscendo dai confini dell’accademia. Anche questa ragione mi induce ad aderire allo sciopero
Lo faccio con la profonda convinzione di stare agendo in difesa di tutta l’Università, compresi i nostri studenti.
E pertanto in base alle modalità previste dal Movimento per la dignità della docenza universitaria (e a meno di revoche dello sciopero -sempre possibili- nei prossimi giorni) è mia intenzione non svolgere gli esami delle mie materie fissati per il 12 settembre 2017, che saranno rinviati al successivo appello del 3 ottobre.
Questa mia intenzione politica non costituisce comunicazione formale all’Amministrazione universitaria, che mi riservo di informare nei modi e nei tempi previsti dalla normativa in vigore, modi e tempi ricordati, tra l’altro, in questo documento.
Svolgerò invece gli esami di altre materie, programmati nei giorni 13 e 14 settembre 2017, oltre a tutti quelli del mese di ottobre. [Qui il calendario completo dei miei appelli giugno-novembre 2017]

Lo scorso 10 luglio sono stato intervistato da Radiozammu sulle motivazioni e sulle modalità dello sciopero dei docenti. Questo è l’articolo che sintetizza quanto ho detto e nel quale è possibile ascoltare la registrazione  dell’intervista (la durata è di 11 minuti):
Sciopero docenti – Prof. Biuso: «Lavoreremo il doppio ad ottobre, ma lo sciopero va fatto»

Infine: la considerazione per me più importante è che tutto questo sta avvenendo non per iniziativa di organizzazioni sindacali o di movimenti politicamente organizzati ma per la spontanea mobilitazione di base dei docenti universitari in Italia. Questo significa che il corpo sociale non è totalmente anestetizzato e rassegnato, nonostante lo strapotere dello Spettacolo, dell’informazione controllata dai governi, della stanchezza collettiva. Questo significa che si può avere ancora fiducia.

[Questo testo è stato ripreso e pubblicato sulla rivista di politica universitaria Roars il 7.9 2017, con il titolo Lo sciopero di chi non sciopera mai]

Islam

Traduco quasi integralmente l’intelligente analisi critica che il filosofo marxista Denis Collin ha dedicato alle relazioni tra l’islam e la cultura libertaria del razionalismo europeo. È stata pubblicata ieri su La Social e la condivido per intero. Un filosofo è anche, come afferma Orwell, qualcuno che dice alle persone quello che altri tacciono o nascondono.
Questo il link al testo originale: Appeler les choses par leur nom

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Chiamare le cose con il loro nome

In tutta una una parte dei media, dei partiti politici e degli opinionisti di varie tendenze, ci si sforza di non chiamare le cose con il loro nome. A ogni nuovo attentato compiuto da uno o più militanti armati della causa islamista, si evita accuratamente di pronunciare la parola «islamista» poiché si teme l’equazione «islamismo=islam», paura che sembra ancor più forte del timore di attentati! Piuttosto che nominare [désigner] la causa che questi militanti islamisti intendono promuovere, si parla di «criminali», di «vigliacchi», qualifiche morali alle quali si fanno seguire caratterizzazioni psichiatriche (folli, psicopatici…). Si tenta di farci credere che non ci sia alcuna relazione tra questi folli che guidano auto impazzite e la causa politico-teologica che sostengono. «Nessuna equazione» e «tutto questo non ha niente a vedere con l’islam», ecco quanto bisogna dire all’esplodere di una bomba, all’apparire di coltelli, di fronte a camion che si schiantano su una folla. Tutt’al più si arriva a condannare questo «terrorismo vile».

La prima cosa da fare è dunque chiarire l’utilizzo delle parole. Anzitutto, le condanne morali sono perfettamente inutili e quasi un poco grottesche quando provengono da responsabili politici. Non c’è alcun dubbio che nessun esponente politico approvi l’utilizzo di kalashnikov in un teatro e che si tratti di una cosa orribile, ingiustificabile, ripugnante, ecc. Ma poi? Non sono stati dei pazzi isolati, degli psicopatici fuggiti da un manicomio ad aver massacrato centinaia di persone negli ultimi due anni. Sono soggetti che stanno conducendo una guerra, e che fanno quindi politica -dato che la guerra è la continuazione della politica con altri mezzi. Bisogna dunque rimanere sobri sull’utilizzo di un lessico morale e cogliere l’essenziale dimensione politica di ciò che accade [en venir à l’essentiel qui est la politique].
Il termine «terrorista» è molto vago. Se si cerca una definizione del terrorismo, se ne troveranno miriadi. In generale, ci si può accordare sull’idea che il terrorismo consista nell’uso della violenza contro le popolazioni civili per scopi politici e militari. Esiste dunque un terrorismo di Stato (i nazionalsocialisti e gli stalinisti hanno governato tramite il terrore), degli atti di terrorismo compiuti durante una guerra, atti che a volte finiscono per essere condannati come crimini di guerra. Alcuni episodi della Seconda guerra mondiale come i bombardamenti di Dresda e di Amburgo o le bombe atomiche sganciate su Hiroshima e Nagasaki hanno una chiara dimensione terroristica: non si trattava di raggiungere degli obiettivi militari ma di diffondere il terrore nella popolazione allo scopo di dissuaderla dal continuare a sostenere i governi in carica.
[…]
In breve, gli attentati jihadisti sono incontestabilmente terroristici. Ma bisogna evitare di confonderli, ad esempio, con il terrorismo dell’ETA o dell’IRA o di annacquare [dissoudre] questi atti nel vocabolario confuso e generale della «radicalizzazione». Limitarsi dunque a «terrorista» significa ancora una volta evitare il problema. Si parla di jihadisti, ma bisogna porre maggiore attenzione al significato delle parole poiché la jihad è la «guerra santa».
Bisogna dunque parlare della causa politica sostenuta dagli assassini di Charlie Hebdo, del Bataclan, di Nizza o di Barcellona (senza dimenticare Londra, Berlino ecc.). Ciò che vogliono queste persone, che siano affiliate o no al Daesh/Isis, è far trionfare l’islam e imporre a tutte le società i principi dell’islam. I loro metodi sono evidentemente abietti ma è il progetto in se stesso, indipendentemente dai metodi che usa, a dover essere risolutamente combattuto, poiché si tratta di un progetto totalitario, fondato sul completo dominio dei corpi e delle menti e sulla reclusione delle donne.
Ma è qui che le cose si complicano. Il progetto dei jihadisti del Daesh e dei gruppi loro vicini non si distingue infatti che per sottigliezze retoriche dal Wahhabismo che governa i Paesi del Golfo o dai discorsi dei Fratelli Musulmani, esperti della dissimulazione che mostrano il loro vero aspetto oggi in Turchia. I quali d’alta parte differiscono assai poco da ciò che sostengono i «moderati» ufficiali in Francia o altrove. Costoro sono tutti favorevoli al velo delle donne, anche di cinque o sei anni. Essi sostengono la Shariʿah, la quale stabilisce che in materia di eredità una donna vale la metà di un uomo. Costoro ritengono ogni neonato un musulmano se il padre è musulmano, che l’apostasia costituisca un crimine (teoricamente punibile con la morte) e che una ragazza musulmana non possa sposarsi con un «kufr» cristiano o ateo, se non disonorando la sua famiglia.

Certo questi bravi moderati detestano i jihadisti che, con le loro azioni omicide, possono suscitare nella popolazione sentimenti di ostilità verso l’islam. […] Vi è inoltre un problema di fondo. In una prospettiva teologica, l’islam non aggiunge nulla all’ebraismo o al cristianesimo (dal punto di vista dei dibattiti cristologici dei primi secoli sarebbe una specie di cristianesimo ariano). Ciò che fa la specificità dell’islam è proprio la sua strategia di conquista e il suo progetto politico. Un islam riformato dovrebbe diventare «tollerante» e sarebbe assai simile al protestantesimo liberale.
Dietro i jihadisti ci sono dunque tutta la strategia teologico-politica caratteristica dell’islam e le forze del capitalismo islamico. Questa è la realtà che bisogna guardare in faccia e che, sfortunatamente, la maggior parte dei nostri politici non vuole vedere. È noto che gli USA hanno sostenuto il progetto strategico dell’islam conquistatore. Lo hanno sostenuto contro il «comunismo», contro tutti i movimenti di liberazione nazionale, vagamente laici e vagamente socialisteggianti. I capitalisti pensano che il santo Mercato e il santo Corano siano una sola e identica divinità. E certi imprenditori non sono insensibili allo spirito di sottomissione che l’islam potrebbe diffondere nelle aziende.
[…]
A tutte queste anime belle della sinistra, intenerite [attendries] dal primo imam che incontrano nel quale vedono un rappresentante degli oppressi, poniamo alcune domande. Immaginiamo che un partito francese affermi che i Neri valgono la metà di un Bianco e che essi debbano andare in giro coperti e ben incappucciati in modo che il colore della loro pelle non offenda il senso del pudore. Immaginiamo che un partito nazionale francese si opponga ai matrimoni misti per non permettere di diluire la purezza della razza francese. Immaginiamo che lo stesso partito esiga che gli insegnamenti dell’orribile Darwin siano abbandonati e che la scienza sia interamente contenuta, diciamo, nei vangeli. Un tale partito, più o meno, esiste in Francia, tra gli indentitari e gli integralisti cattolici della peggiore specie. Ma qui non c’è alcun problema, la vigilanza antifascista entra in azione! Se però si sostituisce Nero con donna, cristiano con musulmano e vangelo con Corano, si ottiene semplicemente la vasta galassia delle associazioni islamiche, e qui i nostri solerti antifascisti trovano mille e una virtù! Quanti disegnano dei baffi hitleriani sui manifesti di Marine Le Pen (cosa che non ha veramente alcun senso) sono pronti a fare delle pubbliche riunioni in compagnia di M. Ramadan il quale solleva la questione della necessità di una moratoria sulla lapidazione delle donne «adultere». Le assurde femministe che tentano di imporre l’orrore della cosiddetta scrittura «inclusiva» allo scopo di ottenere l’assoluta parità grammaticale del femminile e del maschile, si trovano a difendere il velo, il matrimonio forzato e la circoncisione femminile (excision) come onorevoli modalità di resistenza culturale dei  «racisés» contro il razzismo «post-coloniale»!
Bisogna dire con chiarezza che la strategia teologico-politica dell’islam è il terreno fertile del jihadismo e che essa rappresenta un grande pericolo per quanti credono ancora al valore delle idee di libertà, d’eguaglianza e di fratellanza. E se l’islam vuole trovare un posto nelle società liberali e pluraliste come le nostre, non potrà farlo se non attraverso una profonda riforma che gli faccia riconoscere il valore della libertà degli individui, il primato delle leggi repubblicane e il potere della ragione.

Denis Collin – 21 agosto 2017

Αδελφοι

Apollineo e Dionisiaco
di Giorgio Colli
A cura di Enrico Colli
Adelphi, 2010
Pagine 269

Il filologo è un grande amante (p. 34)

La «filologia non più morta» (p. 181) del giovane Colli è, semplicemente, filosofia. Per lui i filosofi sono gli oltreumani di cui parlano Nietzsche e Schopenhauer. Sono uomini capaci di percorrere i sentieri del dolore e della vita scegliendo sempre il meglio, il dominio su se stessi e quindi sull’intero, l’abbraccio verso il tutto, l’attingimento delle essenze. È questa parola platonica a costituire il nucleo teoretico del pensiero di Colli, per il quale l’obiettivo di ogni attività filologica e quindi filosofica è il mondo delle forme. Un mondo fatto di vita vissuta prima che di concetti, di immersione nelle passioni e nell’enigma dell’esistere.
Schopenhauer e Nietzsche vengono da Colli unificati e trasfigurati in uno schema che vede l’apollineo come rappresentazione ed espressione, il dionisiaco come volontà e interiorità. Uno schema in ogni caso irriducibile alla semplice contrapposizione dualistica poiché la complessità, la ricchezza, l’universalità di apollineo e dionisiaco li rende l’uno sostanza dell’altro.
Il libro che scoprì e inventò questa Grecità -la Geburt der Tragödie– è il risultato di un «lavorio filologico eccezionale» (56), che soltanto una metodologia asservita alle note e all’apparato critico poté svalutare e non capire, proprio perché note e apparati lasciano in esso il posto alla comprensione più radicale ed empatica che i Greci abbiano mai ricevuto. La Nascita della tragedia «rimane senza dubbio il tentativo più notevole di penetrare profondamente la grecità» (123).
Colli rileva naturalmente anche i limiti della Geburt così come dell’intero pensiero di Nietzsche e di quello di Schopenhauer, limiti dovuti in gran parte alle concrete esistenze e passioni dei due filosofi. Ma al di là dell’umana miseria che tutti ci accomuna, Schopenhauer «è l’uomo che ha impostato il problema filosofico, nel suo senso più generale, in modo definitivo ed insuperabile» (75) e in Nietzsche «la teoria del dionisiaco, dal punto di vista sia estetico che morale, è un germe fecondo, una ricchezza inesauribile di pensiero e di sentimento, è in fondo come la formula della sua vita -si può dire che egli non ha che da svilupparla per giungere all’indipendenza assoluta. Questo è il segreto di Nietzsche, che tanto lo accomuna ai Greci, di rifulgere cioè di grandezza più nel suo modo di affrontare la vita che nelle sue opere» (69).
Critico severo anche di se stesso -come si vede nei materiali qui raccolti in Appendice-, le venerazioni di Colli sono inseparabili dalla lucida consapevolezza delle manchevolezze dei filosofi e delle opere che analizza. Si potrebbe fare la stessa cosa con lui e con queste pagine, che rivelano spesso una giovanile e a volte eccessiva immaturità. È però più sensato rilevare le tante intuizioni e argomentazioni che fanno di questo volume una libera introduzione al mondo greco.
Un mondo fatto di uomini che non potevano concepire alcuna separazione tra vita, filosofia e politica poiché la filosofia è per «il popolo ellenico […] la massima attività umana -significativa è la preponderante posizione politica che ottengono nelle loro città molti dei Presocratici, o la lotta inesausta di Platone per realizzare il suo ideale politico» (49). Una posizione alla quale Colli è così vicino da pronunciare parole che nel suo tempo erano già radicali ma che oggi sarebbero proprio indicibili, «comprendendo ad esempio l’immenso valore positivo dell’istituzione della schiavitù, e non accontentandosi di condannarla senz’altro per sentito dire, secondo il punto di vista moderno e cristiano» (50) e attribuendo l’anima «come unitario principio noumenico» soltanto agli «uomini superiori, in quelli mediocri invece si tratta di un centro di relativa stabilità nella connessione causale della rappresentazione» (175).
Meno estreme ma sempre inattuali sono le tesi sul conflitto come istinto dei Greci; sulla «furia schiettamente ellenica di ripagare il male con il male» (93); sul dionisiaco quale «impulso a superare tutto ciò che è umano, come interiorità del grande individuo» (127); sulla scultura greca come perfettamente conclusa in ciò che di essa appare, dietro la quale non si dà alcuna anima né simbolo né ineffabilità; sull’ascetismo ellenico che «non ha nulla a che fare con la patologia dell’ascetismo cristiano [ma] deriva da un sentimento insostenibile del male del mondo, ritrovato nella propria anima, insito nelle fibre più nascoste, che avvelena ogni purezza e risorge immediatamente appena annientato, che deve essere in ogni istante combattuto con tutte le forze perché si possa pronunciare una parola od una verità senza vergogna. Asceti a questo modo furono dopo i Greci soltanto i più grandi e i più diritti tra i mistici ed i conoscitori: Pico della Mirandola, Spinoza, Boehme, Nietzsche» (108); sull’amore come «mezzo ad un odio più grande» (84) e come «movimento -di unione o di creazione- se lo guardiamo nel fenomeno, ma la sua radice è nella cosa in sé, poiché esso è interiorità, come raggiungimento o desiderio di traboccare» (151); sull’Ἀνάγκη quale «principio del mondo come espressione -principio apollineo. La libertà è il principio dionisiaco che non esiste in questo mondo di modi -esiste solo nel cuore della verità e non si può esprimere razionalmente, perché la razionalità vuole la necessità» (211).
Μοῖρα e Ἀνάγκη costituiscono una delle più esplicite manifestazioni del principio dionisiaco, compagne del sonno e della morte, le quali intrecciano «con gesti di diamante le infinite / trame degli eventi a cui non si sfugge / Άτροπος, Κλωθώ e Λάχεσις, / figlie della Notte» (Simonide, Alle dee del destino, vv. 2-3).
Uno dei significati più profondi di questa raccolta di scritti giovanili di Colli si può riassumere nell’affermazione di uno studioso appartenente a tutt’altra tradizione e stile di pensiero: «Una volta afferrata la verità, la dobbiamo dimenticare: la lucidità apollinea deve lasciare il passo all’ebbrezza dionisiaca»1 . Chi non fa questo, chi nella propria vita dà spazio soltanto all’intelligenza cognitiva e non anche a quella emotiva, in realtà non comprende il mondo, nel duplice senso che non lo capisce e non lo porta dentro di sé. Filosofia è anche il non aver paura delle passioni, della loro potenza sulle nostre vite.

Nota

1. Stanley Rosen, La questione dell’essere. Un capovolgimento di Heidegger (The Question of Being. A Reversal of Heidegger, 2002), trad. di G. Frilli, Edizioni ETS, Pisa 2017, p. 212

Platone

Platone, la filosofia
in Vita pensata n. 16/2017
pagine 7-10  (pdf)

«Platone è la tenacia della mente che mai si ferma nel domandare fino a che non pervenga alla chiarezza del concetto, all’apprensione più completa possibile degli enti, degli eventi e dei processi. Anche per questo Emerson riteneva che Platone fosse la filosofia e Whitehead aggiungeva che la storia del pensiero può essere considerata un lungo commento al filosofo greco.
Qual è il senso di queste iperboli? Platone è un dispositivo di conoscenza, un’autentica macchina concettuale che a ogni parola genera visioni, domande, prospettive. Platone è l’indagine che racchiude il gaudio e l’inquietudine, la vita stessa nelle sue potenzialità liete e mortali. La sobrietà e l’ebbrezza con cui questo filosofo costruisce i suoi dialoghi in un costante contrappunto teoretico sono l’espressione di una profonda unità fra vita e sapere. Anche Platone, come ogni pensatore greco, ha dominato l’impulso conoscitivo a favore della vita. Le sue opere coniugano ricerca razionale e indagine misterica: “Chi non sente il continuo tripudio che pervade ogni battuta e ogni replica in un dialogo platonico, il tripudio sulla nuova invenzione del pensiero razionale, che cosa comprende di Platone, che cosa dell’antica filosofia?”».

Pedagogia

L’editrice Petite Plaisance sta ripubblicando in versione digitale (pdf) Punti Critici, importante rivista uscita tra la fine degli anni Novanta e gli anni Zero del nostro secolo. Nel numero 2 (settembre-dicembre 1999) vi apparve un mio saggio di argomento pedagogico. Lo metto a disposizione anche qui per chi volesse leggerlo:
Educazione e antropologia   (pp. 27-46).
Il tempo trascorso da allora ha dato ragione a molte tesi di questo saggio, come quelle che seguono. Avrei certamente preferito avere avuto torto.

«Livellando le menti verso il basso, il facile, il ludico, la scuola di Berlinguer si illude forse di rinviare l’eccellenza ai dottorati e ai corsi post-universitari, creando in questo modo una casta di scribi, di nuovi mandarini capaci di decidere, progettare, sapere mentre sotto di loro una massa di incolti – ma tutti rigorosamente forniti di diploma o perfino di laurea – si diverte con i videogiochi, qualunque sia il loro travestimento. Si tratta di un’illusione poiché l’eccellenza non nasce mai dal nulla ma da una media tenuta quanto più alta possibile. Il modello scolastico statunitense, classista ed elitario, mostra da tempo il suo fallimento ma i pedagogisti “democratici” e i loro ministri sembrano ignorarlo» (pp. 34.35)
«Il privare le nuove generazioni degli strumenti critici propri della razionalità greca e trasmessi a noi dalle più diverse culture che si sono incontrate nel Mediterraneo e in Europa -la problematicità del dialogo socratico-platonico, la logica di Aristotele, il metodo euclideo, la fIlologia alessandrina – è una scelta funzionale all’imbonimento commerciale e ideologico che è il vero obiettivo dei mezzi di comunicazione di massa. Da tempo negli USA, e sempre più in Italia, se gli studenti non riescono a soddisfare i requisiti di una buona preparazione, si preferisce la facile scorciatoia dell’abbassare il livello delle richieste e degli obiettivi piuttosto che incrementare davvero il rendimento con una serie di strategie inevitabilmente selettive e quindi politicamente poco corrette» (p. 45).

Kapitalism

Santiago Sierra
Mea Culpa
Milano – Padiglione d’Arte Contemporanea
A cura di Diego Sileo e Lutz Henke
Sino  al 4 giugno 2017

Il gesto semplice e ironico di Duchamp ha liberato l’arte dalla collocazione museale e l’ha trasformata in un fare artistico che travalica i luoghi, la stasi, il semplice guardare. Da allora l’arte opera ovunque e sempre nel tempo e nello spazio, diventando azione, documento, immersione. Santiago Sierra è uno dei più significativi testimoni di questo situazionismo inseparabilmente estetico e politico. La mostra al PAC di Milano -uno degli spazi più creativi d’Europa- ne documenta la fecondità in modo intelligente e profondo.
Entriamo dunque nella materia sonora degli spari in città messicane controllate dai narcos; nella materia liquida di 200 litri d’acqua del Mar Morto (che sta scomparendo); nella materia solida di un metro cubo di pietre provenienti da Gerusalemme.
Entriamo nei segni di enormi graffiti incisi nel deserto marocchino sottratto dal governo al popolo Sahrawi; nei segni della parola Sumision (sottomissione) scavata al confine tra Messico e Stati Uniti; nei segni di 3000 buchi tutti uguali creati a Cadice; nei segni di enormi No che viaggiano per l’Europa, uno dei quali venne proiettato dietro la persona di Benedetto XVI tramite un sistema tecnico con il quale è impedito agli umani di vedere il segno, che rimane invece ben impresso nelle foto.
Entriamo negli spazi immensi del Polo Nord e del Polo Sud dove Sierra pianta la bandiera nera dell’anarchia.
Entriamo nei corpi umani che si fanno tatuare una riga sulla schiena, che mostrano i denti degli ultimi gitani di Ponticelli, che scavano fosse sulla spiaggia di Livorno e vi spariscono, che reduci dalle guerre statunitensi stanno ritti in un angolo a guardare il niente, che sostengono parallelepipedi alle pareti, che si accoppiano (veramente) e si masturbano.
E tutto questo le persone lo accettano e lo fanno in cambio di denaro, anche di poco denaro. «L’acqua di un mare destinato alla scomparsa», le pietre sacre di Gerusalemme, i corpi feriti dai tatuaggi o posseduti senza intimità, sono prodotti comprati in alcuni casi «dall’artista con una telefonata da Zurigo, modalità che sottolinea il potere d’acquisto senza limiti del denaro» (le citazioni sono tratte dal testo di presentazione della mostra). L’opera più emblematica di Sierra è il video che documenta da luoghi diversi del pianeta la distruzione della nove lettere che compongono la parola KAPITALISM. Lettere che cancellano in modo plurale la pluralità delle forme nelle quali il Capitale si manifesta, vive, uccide. Si ha la netta sensazione di una vittoria politica ottenuta con mezzi estetici ma non per questo meno significativi. Il pane dell’economia si mescola con le rose dell’arte, nichilismo e situazionismo si fondono e trasmettono una sensazione di potenza politica, di prosecuzione della resistenza con i mezzi libertari della critica.
La foto che vedete qui sopra l’ho scattata nello spazio più ampio del PAC. Quelli che sembrano degli strani parallelepipedi di colore nero sono in realtà 21 moduli antropometrici di materia fecale umana -raccolta dai manual scavengers che in India puliscono le latrine- lasciata essiccare per tre anni. Escrementi umani, alla lettera. Ché questo siamo, tutti. Ed è per tale ragione che intoniamo -ogni giorno- il mea culpa dell’esserci.

Ἄναξίμανδρος….ἀρχήν….εἴρηκε τῶν ὄντων τὸ πειρον….ἐξ ὧν δὲ γένεσίς ἐστι τοῖς οὖσι, καὶ τὴν φθορὰν εἰς ταῦτα γίνεσθαι κατὰ τὸ χρεὼν διδόναι γὰρ αὐτὰ δίκην καὶ τίσιν ἀλλήλοις τῆς ἀδικίας κατὰ τὴν τοῦ χρόνου τάξιν.

Principio degli esseri è l’apeiron, la polvere della terra e del tempo, il suo flusso infinito…Da dove gli enti hanno origine, là hanno anche la distruzione in modo necessario: le cose che sono tutte transeunti, infatti, subiscono l’una dall’altra punizione e vendetta per la loro ingiustizia secondo il decreto del Tempo.

(Anassimandro, in Simplicio: Commentario alla Fisica di Aristotele, 24, 13 [DK, B 1])

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