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I morti

Napoli velata
di Ferzan Ozpetek
Italia, 2017
Con: Giovanna Mezzogiorno (Adriana), Alessandro Borghi (Andrea), Anna Bonaiuto (Adele), Peppe Barra (Pasquale), Lina Sastri (Ludovica), Isabella Ferrari (Valeria), Biagio Forestieri (Antonio), Luisa Ranieri (Catena)
Trailer del film

Adriana bambina ha visto morire i genitori in modo tragico e violento. E non è impazzita. Da adulta è medico legale. Indaga e disseziona cadaveri. Durante una festa incontra Andrea, che la guarda spogliandola e le comunica (esattamente: le comunica) che passeranno la notte insieme. È una notte di piacere, di orgasmi, di vita. Andrea le dà appuntamento per il pomeriggio del giorno successivo al Museo Archeologico di Napoli. Ma non arriva. Sarà Adriana a vederlo qualche ora dopo. E da lì parte una vicenda intricata, inquietante, trascendente, criminale, onirica. Che si dipana dentro una città luminosa e oscura, bellissima e mortale.
Tutte le culture, i grandi archetipi, pongono molta attenzione a separare il mondo dei vivi da quello dei morti. Ai quali vanno tributati gli onori, le preghiere, il malinconico affetto del crepuscolo. Ma poi bisogna lasciarli andare. Che siano madri, padri, amanti, coniugi, compagni, figli o fratelli, bisogna permettere loro di incamminarsi negli itinerari del nulla. Sui quali, peraltro, si limitano a precederci di poco.
Non bisogna permettere ai morti di guardarci, non bisogna lasciare che il loro occhio oggettivo e gelido si posi sul nostro divenire, che il loro buio tocchi i nostri colori, che il loro eterno franga il nostro tempo.
È questa l’intuizione -non importa quanto consapevole- del film, quella che lo pone al di là del thriller e della storia d’amore, oltre il compiacimento barocco e la bellezza figurativa, per attingere la metafisica del niente.
Forse soltanto la filosofia e la poesia possono dire i morti senza morire.

«L’ingiustizia consistente proprio nel fatto di ex-sistere, di nascere, di staccarsi dal grande e indefinito Tutto. La propria individuale sussistenza sarebbe il peccato originale che scontiamo morendo»
Augusto Cavadi, Andarsene, Diogene Multimedia 2016, p. 36.

«Ma oggi
su questo tratto di spiaggia mai prima visitato
quelle toppe solari…Segnali
di loro che partiti non erano affatto?
E zitti quelli al tuo voltarti, come niente fosse.

I morti non è quel che di giorno
in giorno va sprecato, ma quelle
toppe d’inesistenza, calce o cenere
pronte a farsi movimento e luce.
Non
dubitare, – m’investe della sua forza il mare –
parleranno»

Vittorio Sereni, «La spiaggia» in Gli strumenti umani (1965), Einaudi 1980, p. 86.

Tempo e poesia

Questo triste e dolce valzer di Fabrizio De André possiede due elementi di grande interesse.
Il primo è una riflessione sul tempo, accennata anche da Archimede Callaioli nella sua recensione a Temporalità e Differenza:  «Ma più  ancora del tempo che non ha età / Siamo noi che ce ne andiamo».
È vero. Gli umani sono -come ben sanno i miei lettori- tempo incarnato, tempo che cammina, tempo che desidera, tempo che pensa il tempo.
Il secondo elemento è costituito dal rischio che si corre quando si rifiuta l’amore di un poeta. I poeti, infatti, sono espressioni e testimoni della predilezione di Apollo per i mortali. E questo dio -come suo fratello Dioniso– non perdona chi lo respinge.

Valzer per un amore (1964)

[audio:https://www.biuso.eu/wp-content/uploads/2017/12/De_André_Valzer.mp3]

Quando carica d’anni e di castità
Tra i ricordi e le illusioni
Del bel tempo che non ritornerà
Troverai le mie canzoni
Nel sentirle ti meraviglierai
Che qualcuno abbia lodato

Le bellezze che allor più non avrai
E che avesti nel tempo passato

Ma non ti servirà il ricordo
Non ti servirà
Che per piangere il tuo rifiuto
Del mio amor che non tornerà

Ma non ti servirà più a niente
Non ti servirà
Che per piangere sui tuoi occhi
Che nessuno più canterà

Vola il tempo, lo sai che vola e va
Forse non ce ne accorgiamo
Ma più ancora del tempo che non ha età
Siamo noi che ce ne andiamo

E per questo ti dico amore, amor
Io t’attenderò ogni sera
Ma tu vieni non aspettare ancor
Vieni adesso finché è primavera.

Il testo di De André si ispira a questo bellissimo sonetto di Pierre de Ronsard:

« Quand vous serez bien vieille, au soir, à la chandelle,
Assise auprès du feu, dévidant et filant,
Direz, chantant mes vers, en vous émerveillant:
“Ronsard me célebrait du temps que j’étais belle”Lors, vous n’aurez servante oyant telle nouvelle,
Déjà sous le labeur à demi sommeillant,
Qui au bruit de Ronsard ne s’aille réveillant,
Bénissant votre nom de louange immortelle.Je serai sous la terre, et, fantôme sans os,
Par les ombres myrteux je prendrai mon repos:
Vous serez au foyer une vieille accroupie,Regrettant mon amour et votre fier dédain.
Vivez, si m’en croyez, n’attendez à demain:
Cueillez dès aujourd’hui les roses de la vie. »
« Quando Vecchia sarete, la sera, alla candela,
seduta presso il fuoco, dipanando e filando,
ricanterete le mie poesie, meravigliando:
Ronsard mi celebrava al tempo ch’ero bella.Serva allor non avrete ch’ascolti tal novella,
vinta dalla fatica già mezzo sonnecchiando,
ch’al suono del mio nome non apra gli occhi alquanto,
e lodi il vostro nome ch’ebbe sì buona stella.Io sarò sotto terra, spirto tra ignudi spirti,
prenderò il mio riposo sotto l’ombre dei mirti.
Voi presso il focolare una vecchia incurvita,l’amor mio e ‘l fiero sprezzo vostro rimpiangerete,
Vivete, date ascolto, diman non attendete:
cogliete fin da oggi le rose della vita. »
(Sonnets pour Helène – traduzione di Mario Praz)

«Sul cuore limitato delle cose»

AGNETTI
A cent’anni da adesso, a hundred years from now

Milano – Palazzo Reale
Sino al 24 settembre 2017

Un artista eclettico, Agnetti, sempre rivolto al di là dei confini disciplinari tra arte figurativa e arte della parola. E infatti le sue opere e installazioni sono piene di parole. E anche di troppi concetti, che rendono spesso freddo il risultato del suo fare. Nel quale si incontrano e si intramano tempo, spazio, identità, paradossi. Citazioni e rielaborazioni si moltiplicano. Diventano a volte poesie, come l’ultima che scrisse poco prima di morire all’improvviso nel 1981: «Di notte la Luna illumina / un Sole oscuro. / E volano Aureole / ad accendere il giorno / Prima della breve sera / torneremo alle armi / Saremo in Terra in Sole in Aria / Poi col suonatore di fiori. Forse». E diventano anche analisi degne di Debord: «Se uno vende del ferro al prezzo dell’oro oppure fa un discorso colonialista facendolo passare per pacifista, è un buon venditore. Non a caso, infatti, le parole e gli oggetti venduti dal sistema ci offrono sempre due significati: uno vero, che per vanità non vogliamo leggere, e uno falso, indolore, che accettiamo con voluta complicità per sentirci storicamente validi e buoni venditori».
Il nucleo sempre vivo dell’opera di Agnetti è la sua costante, ripetuta, molteplice riflessione sul tempo. Che si incarna in opere come due meridiane, non segnate da numeri ma da parole, e in L’età media di A., un ritratto composto dalla mescolanza di quattro immagini della medesima donna in età diverse di sua vita, affiancato da queste stesse immagini scomposte nella loro struttura aritmetica. Un modo plastico di far vedere il tempo (che visibilissimo è, contrariamente a ciò che pensa Ricoeur) in «un volto mai esistito nella contemporaneità delle sue parti. Esistito però, frammentariamente, in età e tempi diversi».
Volti, forme e divenire metamorfizzano l’opera in un linguaggio nel quale l’ordine matematico si installa dentro il disordine dei significanti. Tra questi il desiderio che «colpisce prima del proiettile e si abbatte come fulmine sul cuore limitato delle cose» -frase che fa da didascalia a una serie di immagini diverse nel soggetto ma tutte sospese nella notte del mondo.
Una sottile ingenuità estetica e filosofica -almeno al nostro disincantato sguardo- percorre tuttavia l’opera di Agnetti, come si vede nell’eleganza sterile e geometrica di Progetto per un Amleto politico.
Nell’ultima stanza di questa mostra è installato Il trono, un mausoleo, un cenotafio ribelle e ironico ma sempre funebre, circondato da vetrate liberty e gotiche.
Il segno si è infine dissolto, non indicando altro che il significante.

Il Sacro

La poesia di Hölderlin
di Martin Heidegger
(Erläuterungen zu Hölderlins Dichtung)
A cura di Friedrich-Wilhelm von Herrmann
Edizione italiana a cura di Leonardo Amoroso
Adelphi, 1988
Pagine XV-250

Né storiografia, né critica letteraria, né estetica. La modalità con la quale Heidegger legge la poesia è teoretica in un senso peculiare. Questo senso è il linguaggio. Che non è uno strumento, per quanto raffinato e fondante, ma è «quell’evento (Ereignis) che dispone della suprema possibilità dell’essere-uomo» (p. 46). L’umano è infatti un dispositivo semantico che produce significati come le stelle generano luce. Non si tratta di un bisogno ma di una struttura. La poesia esprime senso perché è ciò che Paul Valery definisce con esattezza come l’«indugiare tenuto fra suono e senso» (citato da Heidegger a p. 184).
In questo indugiare Friedrich Hölderlin ha abitato. Ha vissuto nel silenzio degli dèi e nella loro fuga, come anche nel loro rimanere tra Erde e Licht, tra Terra e Luce, e nel loro tornare in quanto Ewige Götter, eterni. In questo gioco ontologico e temporale essi sono gioia, luce e gnosi.
Una gioia così immensa che persino nel lutto il dio, «il gioioso, ridà gioia, sebbene ‘con lenta mano’. Egli non porta via il lutto, ma lo trasforma facendo presentire a coloro che sono in lutto che il lutto stesso non scaturisce se non da ‘antiche gioie’. Egli, il gioioso, è il ‘padre’ di tutto ciò che dà gioia. […] Egli, l’alto, è detto ‘l’etere’, αἰθήρ. L’ ‘aria’ che dà aria e la ‘luce’ che dà luce e la ‘terra’ che sboccia con quelle sono le ‘tre in uno’ (einige drei) in cui la dimensione serena si rasserena e fa sorgere il gioioso e nel gioioso saluta gli uomini (23).
Una luce così fonda da costituire l’essere stesso dal quale ogni divenire scaturisce e nel quale lo spaziotempo si sostanzia e si conclude. La parola greca che dice tutto questo è φύσις, quella tedesca è Lichtung, l’intricato Lucus della lingua latina, il bosco del limite e quindi della tenebra, che però nel proprio stesso limitare è confine della luce, è luce, è radura.
Gnosi perché questa tenebra è sempre intrisa di aperto e il suo destino ultimo è risplendere. È rilucere intanto nel linguaggio. Intanto tra il tempo della calma assoluta del prima della nascita e la calma inquieta del dopo la morte. Quello che resta in questo intervallo, sì, «Was bleibet aber, stiften die Dichter» (Andenken, qui p. 41), lo istituiscono i poeti.
Tutto questo è bellezza, perché «la bellezza è la presenza dell’Essere. L’Essere è il vero dell’ente» (161). L’Europa -seguendo un’altra suggestione di Valery- è la terra dove tanta bellezza tramonta e sorge di continuo, senza posa, senza certezze, senza dubbi. «L’Europa, questo promontorio e cervello, deve ancora diventare la terra di un Occaso (Land eines Abends) da cui un nuovo mattino (Morgen) del destino del mondo prepari il suo sorgere? La domanda suona pretenziosa e arbitraria. Ma ha il suo sostegno: da un lato in un fatto essenziale, dall’altro in una congettura essenziale. Il fatto è questo: la situazione presente planetario-interstellare del mondo è nel suo inizio essenziale -un inizio che non può andare perduto- da cima a fondo europeo-occidentale-greca. La congettura, d’altro lato, pensa in questa direzione: ciò che muta può farlo solo a partire dalla grandezza in serbo del suo inizio» (211).
In questo dire di Heidegger traluce la stessa inquietudine di Hölderlin, la stessa sua follia. La follia dell’antico dio sempre giovane, Dioniso: «Und wozu Dichter in dürftiger Zeit? Aber sie sind, sagst du, wie des Weingotts heilige Priester, / Welche von Lande zu Land zogen in heiliger Nacht» [Brod und Wein; e perché i poeti in tempo di privazione? / Ma essi sono, tu dici, come i sacerdoti del dio del vino / che andavano di terra in terra  nella notte sacra; p. 58].
Dioniso è fremito, metamorfosi, sorriso spietato del tempo, è divenire. Dioniso è l’ordine invisibile enunciato da uno dei filosofi più ebbri, Eraclito. Il cui frammento 54 -ἁρμονίη ἀφανὴς φανερῆς κρείσσων- viene così tradotto da Heidegger «Fuge, die ihr Erscheinen versagt, ist höheren Waltens als eine die zum Vorschein kommt [L’ordine che si ricusa all’apparire è più vigente di uno che giunge nell’apparenza]» (213).
Successivamente Heidegger così commentò questo frammento, aprendo in tal modo il pensare a una metafisica che non è l’oblio della differenza ontologica ma è la rigorosa indagine sull’invisibile che fonda il visibile: «Questo detto del pensatore preplatonico Eraclito contiene il cenno decisivo su come noi dobbiamo esperire ogni essenza greca, la natura, l’uomo, l’opera umana e la divinità: ogni visibile a partire dall’invisibile, ogni dicibile a partire dall’indicibile, ogni apparire a partire dal nascondersi. Ciò che si nasconde è più vicino all’essenza greca dello svelato: questo vive di quello» (213-214).
Né storiografia, né critica letteraria, né estetica. La modalità con la quale Heidegger legge la poesia di Hölderlin è teoretica poiché «la poesia di Hölderlin è per noi un destino. Esso attende che i mortali gli corrispondano. Che cosa dice la poesia di Hölderlin? La sua parola è: il sacro» (237). Jetzt, l’istante-ora, il καιρός, è il sacro. Oggi è il sacro.

Sicilia

Numerosi sono i motivi che ho di esser grato alla vita e al tempo. Uno dei più profondi è l’esser siciliano, è la fortuna di essere nato in questa terra davvero «impareggiabile», in questa luce calda e lontana, in quest’Isola della distanza  e della gloria. Il sorriso siciliano è stato dipinto da Antonello in uno dei capolavori assoluti dell’arte, quel Ritratto d’uomo capace di parlare con lo sguardo e dire: «Lo so, la vita senso alcuno non ha, ma io la godo come la più sensuale delle amanti».
La Sicilia è davvero «la chiave di tutto», come scrisse Goethe a Palermo il 13 aprile del 1787. L’Isola plurale appare uguale a se stessa nel tempo e nello spazio ma nel tempo e nello spazio sempre diversa. All’immobilità antica, al silenzio ancestrale, all’arsura del latifondo intorno a Caltanissetta ed Enna, si affiancano le montagne innevate dei Nebrodi e delle Madonie; al nero lavico dell’Etna si uniscono i colori smaglianti dei mari che la circondano; ai templi occidentali si coniuga la dolcezza degli Iblei.
Dal culto greco verso gli dèi e Dioniso Pantocratore, i siciliani sono passati a quello verso il Cristo redentore, transitando per la civiltà islamica. Nel silenzio degli spazi e delle persone, nella bellezza sfrontata dei luoghi naturali e storici, sembra davvero che la contraddizione sia il segno della storia e del carattere siciliani. Perché la Sicilia è un enigma magnifico e doloroso, che rimane più forte di ogni bruttura che la deturpa, di ogni volontà malvagia che la uccide. Ne è prova anche lo sguardo stupito e felice di chi la coglie arrivando da altre terre o di chi in essa è nato e nonostante tutto continua ad amarla, a tornarvi se lontano, a nutrirla come pensiero profondo della mente.
Da dove questa terra trae tanta forza? Forse dalla luce ambigua della quale parla Bufalino, intessuta dello «splendore folgorante del sole» ma pure della «sua funebre ombra». Anche con questa sua inquieta luminosità l’Isola rimane fedele alla sua radice greca, fedele al fasto apollineo dei templi, dei teatri, delle πόλεις, fedele al culto dionisiaco della morte trasfigurante e trasfigurata in mito, pianto, odio. Ancora nella processione del Venerdì Santo del 1930 a Caltanissetta, Antonio Baldini ascoltava attonito «un lamento che rompe acuto da un fondo immemoriale di dolore e di spasimo», nel quale percepiva «il mitico compianto per la morte di Adone, l’approssimarsi dei terrori notturni, l’informe sgomento del poi, l’immotivato sconforto degli adolescenti, il sussulto incontenibile delle isteriche, il vuoto dei monti sopraffatto dalla notte, la solitudine dei mari, la tristezza delle campagne, la somma di vita che se ne va senza più ritorno».
Il paesaggio siciliano e gli umani che lo abitano sono quasi sempre estremi, pericolosi, belli e desolati. Sono soprattutto pervasi di solitudine. L’esser soli è la vera natura di questa terra, la sua autentica diversità da ogni altra. A un siciliano è perciò facile capire che «ognuno sta solo sul cuor della terra / trafitto da un raggio di sole» (Quasimodo), poiché un siciliano «è e si fa isola da sé, e da sé si gode -ma, appena, se l’ha- la sua poca gioia; da sé, taciturno, senza cercare conforti, si soffre il suo dolore, spesso disperato» (Pirandello).
Dentro la fortuna di essere siciliano ne abita un’altra, più intima: essere nato sull’Etna. Il profilo della Muntagna ha accompagnato i miei giochi, i primi amori, il crescere, il camminare. Guardare il paesaggio ha significato da sùbito guardare un’entità non antropomorfica la cui potenza è invincibile. Il vulcano mi ha insegnato che cosa siamo: materia effimera dentro il grande Fuoco. Ha ragione Domenico Andronico: «Ogni siciliano ama la sua terra e l’ama con una passione tutta meridionale; e quando egli dalla sorte è costretto ad emigrare, porta indelebile nel suo cuore una sagoma caratteristica, il profilo d’una montagna sormontata da un superbo pennacchio di fumo, che non s’incontrerà giammai altrove. Somiglia un poco all’immagine della madre. S’incontrano altre donne, buone, affettuose, dotate di pregevoli qualità, ma sì, quelle non saranno mai la madre».
L’Etna è colore, movimento, pericolo, festa. E se la festa in Sicilia è vissuta con un’intensità totale è anche perché «è soltanto nella festa che il siciliano esce dalla sua condizione di uomo solo» (Sciascia). A un siciliano non sarà troppo difficile trasformare in festa l’intera esistenza, sia che la trascorra in «questa terra grande e infelice» (Bufalino), sia che porti altrove il proprio disincanto e la saggezza. Fare della vita un tripudio di colori, di suoni, di gaiezza e di forza diventa, infatti, la condizione per sopportare l’esistenza, per farsene carico e vincerla. La morte arriverà come un sorriso solo un poco amaro.

«Poesia è il mondo l’umanità la propria vita…»

Paterson
di Jim Jarmusch
USA, 2016
Con: Adam Driver (Paterson), Golshifteh Farahani (Laura), Masatoshi Nagase (il giapponese)
Trailer del film

Paterson fa l’autista di bus in una cittadina del New Jersey che si chiama Paterson. Vive con la moglie Laura, che colora la casa, i vestiti e se stessa di bianco e di nero. Con loro il cane Marvin, piuttosto geloso. L’esistenza di questa coppia procede regolare, serena e malinconica. La struttura circolare del film ne descrive ritmi, sguardi, sentimenti, da un lunedì al lunedì successivo.
Paterson ascolta i dialoghi di alcuni passeggeri del suo bus. In uno di essi due ragazzi parlano dell’anarchico Bresci che da Paterson partì per giustiziare l’infame re Umberto I di Savoia. La sera Paterson si ferma a prendere una birra nel locale di Doc, il quale gioca a scacchi con se stesso e coltiva la memoria dei personaggi celebri che a Paterson sono nati. Tra di loro alcuni poeti. Anche Paterson scrive poesie. Lo fa al mattino sul bus, prima di cominciare il giro. Lo fa durante l’intervallo, nel quale consuma il pranzo preparato da Laura. Lo fa la sera, nella cantina-studio della sua casa. Due volte incontra dei messaggeri, degli anghelos, dei poeti. La prima è una ragazzina che gli recita dei versi dedicati alla pioggia, il secondo -ed è l’incontro conclusivo- è un giapponese in visita a Paterson, il quale gli regala un quaderno sul quale scrivere nuove poesie.
Come sempre in Jarmusch, tutto è sobrio, raffinato, profondo, attraversato da una malinconia che risplende di bellezza. Ma qui c’è qualcosa in più. Paterson riesce infatti a far vedere la poesia. Non soltanto e non tanto nelle righe composte dal protagonista, che appaiono sullo schermo mentre vengono scritte, quanto nelle ragioni profonde che rendono la poesia necessaria alla vita.
L’universale necessità che traspare anche dall’immagine di Dante Alighieri, portata con sé da Paterson insieme a quella della moglie, e dal riferimento felice che Laura fa a se stessa quando scopre che il Canzoniere è dedicato a una donna che si chiama come lei. La stessa necessità che illumina questi versi di Ungaretti: «Poesia / è il mondo l’umanità / la propria vita / fioriti dalla parola / la limpida meraviglia / di un delirante fermento» (Commiato
, da «L’Allegria», in Vita d’un uomo. Tutte le poesie, Meridiani Mondadori, p. 58).

Le Muse, il Tempo

Al guinzaglio del Tempo
di Vincenzo Crapio
Carthago, 2016
Pagine 85

Con che cosa gli umani lottano istante dopo istante? Con se stessi. Con il tempo che sono. Credono infatti di avere tempo e di consumarne una qualche quantità prestabilita. E invece tempo essi sono ‘ganz und gar, und Nichts ausserdem’ (Nietzsche), in tutto e per tutto, e nulla d’altro. Le Muse sono figlie di Μνημοσύνη e dunque parenti strette del Tempo. Esse hanno ispirato Vincenzo Crapio, è evidente. Gli hanno dettato un luccicare di «effimere faville» (Stella, p. 22), un esistere in «grumi di frammenti» (Il Tempo III, 31), uno stare «al guinzaglio del Tempo», che è densa metafora dal sapore proustiano: «Il Tempo, nostra creatura ma pure nostro tiranno, ci porta al suo guinzaglio, che è (o forse sembra) lento e lungo fin quando siamo giovani,  che poi diventa sempre più corto, teso e soffocante; sicché col passare degli anni, lui ci è sempre di più vicino e lo avvertiamo sempre più distintamente» (Nota dell’autore, 15).
crapio_al_guinzaglioUn antropocentrismo forse inevitabile sembra fare del Tempo un nemico irriducibile, inscalfibile e vincente e che però per esistere avrebbe bisogno di « esseri che hanno coscienza della durata» (Ibidem), fino ad attribuirgli un’ignoranza talmente ingenua da non sapere «che anche per lui verrà la morte / quando non ci sarà chi lo scongiuri» (Il Tempo II, 28). Così non è, naturalmente. E il poeta lo ammette quando dal Tempo si sente accudito (Deriva) e soprattutto quando riconosce che il Tempo è tutto, che esso porta «al laccio l’anima del mondo» (25), che nulla può fermare la sua essenza -«Dopo l’ultima morte, una mattina, / il Tempo avrà finito il lungo eccidio / e dentro il nulla bruto e ammutolito / un dio potrà soffiare nuovo idrogeno» (Big-Bang, 67)-, che esso scova tutti fin nei «più cupi rifugi» per riattaccare ogni cosa che esiste «alla catena / di attimi incolonnati e senza indugi» (La caccia, 57).
Ispirato dalle Muse, Crapio elabora un autentico canto, versi che sono musica non solo nella forma del sonetto ma anche in strutture più informali, nell’intimo riscontro delle sillabe. Un canto che finalmente lo concilia con quanto è accaduto e che accadrà. Nel Saluto finale gli sembra infatti non essere più un imbroglio «anche il niente che dura la rosa / o il sommesso parlarne in un foglio» (76).
Intima e interna musicalità che splende in Astanti dove vince ancora Ἀνάγκη, dove il Tempo è l’altro nome della Necessità: «Del tutto indifferente alle sue pene, / ai suoi contorcimenti d’agonia, / la rosa sovrastava la lucertola / il giardiniere la rosa che sfioriva / il cielo sempiterno il giardiniere. / Di tutti gli altri astanti, / ognuno a quel livello imprecisabile / che il Tempo concedeva al suo destino, / giustamente nessuno interveniva» (55). Giustamente. Δίκη.

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