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Metamorfosi

Ovidio
in Vita pensata, n. 25, luglio 2021, pagine 86-89

Un Trionfo del Tempo sono le Metamorfosi di Ovidio. Sono anche tale trionfo. Questo libro fondamentale della cultura europea è un’enciclopedia del mito e della storia, della vicenda umana nel Mediterraneo antico e delle passioni che sempre e ovunque accompagnano e costituiscono gli umani. Passioni narrate ancor prima che cantate. Ovidio ha infatti scritto un romanzo, il primo romanzo dell’Occidente. Un romanzo libero dalla psicologia, un romanzo che narra in modo insieme oggettivo e fantastico gli eventi più vari, il più imprevedibile divenire.
Anche le trasformazioni più bizzarre e impossibili appaiono plausibili sino alla naturalezza e quasi ovvie poiché sono fondate su una decisa posizione antropodecentrica, che non attribuisce alcun primato ed esclusività all’umano, il quale viene posto nella necessaria contiguità con i divini, con gli altri animali, con la natura, le cose, gli eventi che da lui non dipendono e ai quali invece è del tutto sottomesso mentre ogni ente è sottoposto alla potenza primigenia e infinita del divenire e del tempo.
Nessun antropocentrismo, nessun privilegio attribuito all’umano, anche perché tra tutte le specie viventi ed enti mondani Homo sapiens è il più distruttivo, un vero e proprio errore degli dèi e della natura. Questo «inmedicabile vulnus» (I, 190), questa incurabile ferita, va estirpata poiché «qua terra patet, fera regnat Erinys» «dovunque si estende la terra, impera selvaggia la Furia!» (I, 241; 17).
Anche Ἀνάγκη, anche le Parche sono forma, segno e strumento della potenza vera e suprema, che è il Tempo, che è il divenire, che è – nel linguaggio contemporaneo – la termodinamica. La prima delle sue leggi è infatti il vero fondamento filosofico e concettuale delle Metamorfosi, presente ovunque e sempre confermata. Il primo principio è espresso con la densa efficacia della lingua latina: «Omnia mutantur, nihil interit» «Tutto si trasforma, nulla perisce» (XV, 165; 613) perché niente nasce dal niente e nulla muta nel nulla.
Le Metamorfosi sono storie raccontate dentro altre storie, mutazioni dentro altre trasmutazioni, dentro l’incastro incessante di elementi che è il reale.

Hölderlin

Recensione a:
Giorgio Agamben
La follia di Hölderlin
Cronaca di una vita abitante 1806-1843
Einaudi, 2021
Pagine 241

in il Pequod , anno 2, numero 3, giugno 2021, pagine 83-86

La vita di Hölderlin si scandisce in due esatte metà di trentasei anni ciascuna. La prima parte va dal 1770 al 1806, la seconda dal 1807 al 1843. Una vita che abita nella pienezza e quindi nel visionario, nella gioia, nella follia. Una vita tanto singolare quanto pericolosa. Dove il pericolo non è necessariamente l’esplicita critica socratica alle strutture e ai modi della città ma può essere anche la discordanza rispetto all’abituale, al conforme, alla morale e alla legge, ai buoni sentimenti, a ciò che si deve pensare e si deve dire per apparire ed essere persone per bene.
Quella di Hölderlin fu sempre «una sottile, calcolata ironia», un capolavoro linguistico ed esistenziale che esprime e incarna l’estraneità alla quale filosofia e poesia conducono chi le prenda sul serio, poiché  la filosofia è anche e «innanzitutto questo esilio di un uomo fra gli uomini, questo essere straniero nella città in cui il filosofo si trova a vivere e nella quale, tuttavia, continua a dimorare, ostinatamente apostrofando un popolo assente». Abitare questa follia significa anche abitare la distanza.

D’Annunzio

Il cattivo poeta
di Gianluca Jodice
Italia, 2021
Con: Sergio Castellitto (D’Annunzio), Francesco Patanè (Giovanni Comini), Fausto Russo Alesi (Achille Starace), Tommaso Ragno (Giancarlo Maroni)
Trailer del film

«Vocia ai sedenti il despota plebeo
[…]
Su l’acciaio dell’elmo
ti gocciola il pennello d’imbianchino.
Dai di bianco all’umano et al divino».

Così D’Annunzio in una Pasquinata del 1938, l’anno della sua morte; morte che certo non dovette essere sgradita al Duce e al suo regime, visto che il poeta aveva espresso una decisa opposizione all’alleanza con la Germania di Hitler, il quale è descritto con disprezzo nella poesia che ho citato qui sopra e che veniva da D’Annunzio definito usualmente «il ridicolo nibelungo».
È questo il momento che il film descrive, gli anni nei quali la critica di D’Annunzio a un regime «la cui grandezza è soltanto prepotenza» non può più essere dal fascismo tollerata. Il segretario del Partito Fascista, Achille Starace, ordina al federale di Brescia di recarsi al Vittoriale, presentarsi come la persona incaricata di soddisfare le volontà del poeta e spiarlo in tutto. Il federale Giovanni Comini è però troppo giovane, idealista e ingenuo. Intuisce la differenza che D’Annunzio è, cerca di proteggerlo, gli diventa amico. Sarà poi espulso dal Partito.
Nella sua magnifica, colma, erudita e lussuriosa dimora sul lago di Garda, D’Annunzio sa di essere quasi un prigioniero del regime e delle proprie memorie ma non smette lo spirito ardito che lo induce a recarsi a Verona durante un veloce passaggio di Mussolini per dirgli «con il viaggio in Germania ti sei scavato la fossa», un Mussolini che qui appare pallida e meccanica forma del dominio, niente di reale ma solo pubblicità.
Un poeta radicale, musicale, cocainomane, elegantissimo fu tra i pochi a opporsi pubblicamente alla catastrofe verso la quale il mussolinismo conduceva l’Italia. A quest’uomo libero dà corpo, voce, amarezza, malinconia, ironia e potenza Sergio Castellitto, che restituisce le sfumature del corpo e degli occhi di un poeta tra i più capaci di trasformare in musica la lingua:

«Felicità, non ti cercai;
ché soltanto cercai me stesso,
me stesso e la terra lontana»
(Felicità)

«O deserta bellezza di Ferrara,
ti loderò come si loda il volto,
di colei che sul nostro cuor s’inclina»
(Ferrara)

«Io l’onda in misura conduco
perché su la riva si spanda
con l’alga con l’ulva e col fuco
che fànnole amara ghirlanda.

Io règolo il segno lucente
che lascian le spume degli orli:
l’antico il men novo e il recente
io so con bell’arte comporli.

I musici umani hanno modi
lor varii, dal dorico al frigio:
divine infinite melodi
io creo nell’esiguo vestigio.

Le tempre dell’onda trascrivo
su l’umida sabbia correndo;
nel tràmite mio fuggitivo
gli accordi e le piante avvincendo»
(Undulna)

E naturalmente:

«Taci. Su le soglie
del bosco non odo
parole che dici
umane; ma odo
parole più nuove
che parlano gocciole e foglie
lontane.
Ascolta. Piove
dalle nuvole sparse.
Piove su le tamerici
salmastre ed arse,
piove su i pini
scagliosi ed irti,
piove su i mirti
divini,
su le ginestre fulgenti
di fiori accolti,
su i ginepri folti
di coccole aulenti,
piove su i nostri vólti
silvani,
piove su le nostre mani
ignude,
su i nostri vestimenti
leggieri,
su i freschi pensieri
che l’anima schiude
novella,
su la favola bella
che ieri
t’illuse, che oggi m’illude,
o Ermione»
(La pioggia nel pineto).

«Ora sappiamo quel che siamo, sappiamo quel che vogliamo». Un “cattivo poeta”, un uomo disobbediente.

Alighieri

Ho accolto volentieri l’invito di Radio Zammù a parlare della natura e dei limiti della conoscenza secondo Dante Alighieri. Abbiamo brevemente conversato a proposito del Canto III del Purgatorio. È stato il primo incontro di un ciclo dal titolo ’Sta selva selvaggia, curato da Danilo Nuncibello.
Nella prima parte si ascolta una vivace e poco convenzionale discussione tra Dante, Virgilio, la Coscienza e Manfredi di Hohenstaufen (o di Sicilia), il personaggio che Dante incontra appunto nel III Canto. Nella seconda parte abbiamo conversato su questo canto e -in generale- sullo statuto della conoscenza, per Dante e per noi.
Il programma è andato in onda lo scorso 9 giugno e lo si può riascoltare qui:

Silvia

Renzo Zenobi
Silvia
 (mp3)
(1975)

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Una poesia struggente, malinconica, distante, profonda, temporale.
Versi ermetici nati dentro una musica colma di dolcezza.

La canzone di Zenobi mi ha ricordato che una volta, secoli fa, scrissi a una donna questo: «Sei un sorriso che ubriaca persino i campi distesi delle viti».

Tutto su un tramonto viola acceso
Con il tè sopra Firenze
Nuovi giorni prometteva aprile
Cerchi di limone alle colline
Il tuo glicine sognava
Nodi di mare sulle nostre dita

Silvia, ti ricordi la commedia
Recitata ad un sorriso
La mia voce si accordava lenta
E Beato Angelico negli occhi
E mio padre nel cervello
Essenza di ambra
Consolava il mio mantello

Il fuoco di quercia triste
Mi guardava con occhi saggi
Da domani un’altra storia
E un’altra faccia
Fra i suoi legni
Ed ancora un Giorgione
Sopra il letto non ha
Svegliato i sogni

Piove piano sopra terra scura
E un cipresso maschio e canne
Si corteggiano con suoni di foglie
Dolce latte aumenta la coscienza
Soffia via la mente adulta
Da un cappa sale sopra il fumo

Silvia, ti ricordi la paura
Tanta gente dietro i vetri
E nessuno ti gettava un fiore
E la rabbia ormai non ha più voce
Lascia il posto a indifferenza
Suona forte se non torna
La pazienza

Che strano, con il mattino
Le montagne sono di sabbia
E non sapere dove volare
Non vuol dire
Sei senza amore
Ed ancora il mio nome
Puoi usarlo
Per un ventaglio al sole

Stanco di lottare contro il bianco
Il tuo glicine si è arreso
E sulle palme adesso è già l’inverno
La licenza è quasi terminata
La stazione e il mio maglione
La domenica è già consumata

Silvia, benedetta la tua mano
Calda al vento in tramontana
Fresca per le fronti di fatica
La Toscana ha vinto, ha già rubato
I tuoi occhi ai suoi colori e cavalchi
Ad una caccia fra le monete
Nella mia tasca.

Vortice

Jan Dismas Zelenka
dal Miserere in Do minore (1738; ZWV – 57)
Il Fondamento Choir – Direttore Paul Dombrecht

Questa musica può essere accostata al vortice nel quale ciascuno riceve l’Amore dell’Altro come proprio Amore e in tale vortice ama l’Altro e Sé.
I versi sono tratti da Un barlume di fasto (Scrittura Immagine Edizioni 2013, p. 17).

 

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