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Dioniso, la luce

«Tragedia totale»1 è Βάκχαι. Essa  chiude la drammaturgia classica riportandola là dove era iniziata, riportandola a Dioniso, a Tebe. Sovrano della città è Penteo, un uomo schematico, ultramoralista, incapace di vedere e capire la complessità del mondo e dei suoi fenomeni. Un uomo assai violento, che ordina la lapidazione dello Straniero responsabile dei culti orgiastici che sul Citerone hanno coinvolto le principesse tebane, compresa Agave, madre di Penteo.
Lo Straniero viene incatenato ma, non si sa come, ben presto si libera dai ceppi mentre una scossa sismica rovina il palazzo e un incendio lo minaccia. Penteo però ha occhi soltanto per lo Straniero e per l’obbedienza di costui a Dioniso. Per questo vorrebbe vedere di persona che cosa stia accadendo sul monte. Lo Straniero si offre di aiutarlo. Penteo accetta e, quasi insensibilmente ma inevitabilmente, viene irretito nella trama del dio e si perde, diventando il gemello di Dioniso Zagreo, fatto a pezzi anch’egli come era accaduto al dio bambino.
È la madre a dare inizio al sabba delle Menadi che dilania il figlio: «Gli strappi denudavano le costole. Ciascuna, con le mani insanguinate, tirava intorno brandelli di carne di Penteo, come se giocasse a palla. Giace il corpo smembrato, parte sotto le dure rocce, parte fra le macchie profonde della selva; ritrovarlo non è facile» (p. 987).
Adesso Tebe, i suoi abitanti, le sue donne, riconoscono il dio, dopo aver rifiutato la sua festa, la festa della vita, il coraggio d’esserci e abitare nella luce. Adesso Tebe sa che «δὲ τὸν Διὸς / Διόνυσον, ὃς πέφυκεν ἐν τέλει θεός, / δεινότατος, ἀνθρώποισι δ᾽ ἠπιώτατος», «il figliolo di Zeus, Dioniso, è dio nel pieno senso, ed è terribile [δεινότατος], ma più d’ogni altro con gli uomini è mite [ἠπιώτατος]», come egli stesso tiene a dichiarare (vv. 859-861, p. 978).
Nei confronti di chi lo respinge, il dio ha la sapienza che le sue donne per due volte cantano: «τί τὸ σοφόν; ἢ τί τὸ κάλλιον / παρὰ θεῶν γέρας ἐν βροτοῖς / ἢ χεῖρ᾽ ὑπὲρ κορυφᾶς / τῶν ἐχθρῶν κρείσσω κατέχειν;», «Sapienza cos’è? Che splendido / dono divino fra gli uomini / c’è mai, che valga di più / d’un nemico in nostra balia?» (vv. 877-881 e 897-901: p. 979). Mῆνις, il rancore, la furia, la vendetta, è parte costitutiva della vita, delle relazioni, del divenire, è parte dell’intero, è parte del sacro: «Lieve spesa è di credere / che una forza vi sia / qui, nel divino –quale che sia–  / e in norme di natura che / nel tempo vigono sempre» (Ibidem).
Dioniso c’è sempre.
Dioniso è la gioia, «questi sono i pregi suoi: / le corali danze, e poi / musicale ilarità / e la tregua degli affanni» (958-959); «se l’aveste capito quando vi rifiutaste alla saggezza, avreste adesso la felicità» (996).
Dioniso è la misura (sì, è la misura) poiché «in chi è saggio, l’equilibrio tutti i moti domina» (969); «βροτείως τ᾽ ἔχειν ἄλυπος βίος», «stare nei limiti: questo la gioia dà» (v. 1004, p. 984; con una traduzione un poco più letterale: ‘accettare d’essere mortali rende il vivere meno doloroso’).
Dioniso è un dio orfico, Dioniso è lo gnostico che condanna l’ignoranza di Penteo: «οὐκ οἶσθ᾽ ὅ τι ζῇς, οὐδ᾽ ὃ δρᾷς, οὐδ᾽ ὅστις εἶ», «Non sai che cosa vuoi, che fai, chi sei» (v. 506, p. 964).
«Διόνυσος ἥσσων οὐδενὸς θεῶν ἔφυ», «Non è inferiore a nessun dio, Dioniso» (v. 777; p. 974).
La  gioia dionisiaca pervade la teoresi greca e il pensiero di Platone, che nascono dalla luce e dalla furia del divino. Alla domanda da Beltrametti posta con grande suggestione: «Le Baccanti sono anche la tragedia palingenetica di una nuova società che non ha più il genos e neppure la polis a fondamento, ma il tirso: il regno dell’artista, del filosofo-prete, del grande condottiero?» (934), aveva risposto Eric Dodds. I filosofi della Repubblica sono infatti «una specie nuova di sciamani razionalizzati»2.
«εὐάζω ξένα μέλεσι βαρβάροις: / οὐκέτι γὰρ δεσμῶν ὑπὸ φόβῳ πτήσσω», «Grida evoè la mia voce di barbara: / ora i terribili ceppi non temo più» (vv. 1034-1035, p. 985), ora che il dio mi ha liberato.

Note
1. Anna Beltrametti in Euripide, Baccanti (Βάκχαι), «Le tragedie», trad. di Filippo Maria Pontani, Einaudi 2002, p. 937.
2 Eric R. Dodds,  I Greci e l’Irrazionale (The Greek and the Irrational, 1950), La Nuova Italia 1978, p. 248. 

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Con questa nota si conclude la mia analisi dell’opera di Euripide.
Gli altri testi si possono leggere qui:

Alcesti (Ἄλκηστις; 1.6.2016)

Medea (Μήδεια; 3.4.2019)

Ippolito (Ἱππόλυτος στεφανοφόρος; 23.5.2019)

Elena (Ἑλένη; 29.5.2019)

Troiane (Τρώαδες; 10.6.2019)

Elettra (Ἠλέκτρα; 24.6.2019)

Ecuba (Ἑκάβη; 3.7.2019)

Supplici (Ἱκέτιδες; 10.7.2019)

Ione (Ἴων; 7.8.2019)

Reso (Ῥῆσος; 4.9.2019)

Eracle (Ἡρακλῆς μαινόμενος; 14.9.2019)

Fenicie (Φοίνισσαι; 30.9.2019)

Ifigenia in Aulide (Ἰφιγένεια ἡ ἐν Αὐλίδι; 5.11.2019)

Ifigenia in Tauride (Ἰφιγένεια ἐν Ταύροις; 11.12.2019)

Oreste (Ὀρέστης; 19.3.2020)

Joker

Joker
di Todd Philipps
Con: Joaquin Phoenix (Arthur Fleck /Joker), Frances Conroy (Penny Fleck), Robert De Niro (Murray Franklin), Zazie Beetz (Sophie Dumond), Brett Cullen (Thomas Wayne)
USA, 2019
Trailer del film

Joker è un film sulla televisione.
Quasi in ogni scena c’è un televisore acceso. Sullo schermo si alternano programmi umoristici e programmi che informano. Prima danno notizie dei rifiuti che seppelliscono la città, dei topi e super ratti che la invadono, e poi delle violenze collettive che la percorrono. E soprattutto è in diretta televisiva –durante un programma di intrattenimento– che accade uno degli eventi decisivi, quello che vede l’uno accanto all’altro Joker e il professionista della risata Murray Franklin.
Gotham City è immersa in una broda spettacolare e globalizzata al cui centro sta la televisione come trionfo della superficialità, del dire prima di aver pensato, del pensare quindi per luoghi comuni e intrinsecamente banali. La televisione come trionfo della drammatizzazione spettacolare, dei sentimenti più intimi portati in piazza e soprattutto dei sentimenti falsamente ricreati a vantaggio dell’audience. Tutto è infatti finalizzato alla pubblicità. Ma questo vuol dire che tutto è finalizzato al mercato e ai mercati, dei quali la televisione rappresenta lo scintillante paravento. 

Joker è un film sulla follia.
«Le bon sens est la chose du monde la mieux partagée; car chacun pense en être si bien pourvu, que ceux même qui sont les plus difficiles à contenter en toute autre chose n’ont point coutume d’en désirer plus qu’ils en ont.
(Il buon senso è la cosa nel mondo meglio ripartita: ciascuno, infatti, pensa di esserne ben provvisto, e anche coloro che sono i più difficili a contentarsi in ogni altra cosa, per questa non sogliono desiderarne di più)» scrive Descartes nell’incipit del suo Discours de la méthode (1637, trad. di A. Carlini, Laterza 1974, p. 41). Un’ironia persino sarcastica. Ciò che si può constatare, infatti e al contrario, è che la follia è la cosa nel mondo meglio ripartita. La follia che lentamente cancella il confine tra il reale (il mondo collettivo) e il fantastico (il mondo individuale). Ciò che accade in Joker è sogno incubo pensiero desiderante, è il tremante terrore che afferra e abbatte al constatare l’invincibile forza del mondo.

Joker è un film sul corpo, soprattutto sul corpo che corre nello spazio, che fugge. Magro mascherato mobile miserabile mendico espressivo inquietante totale.

Joker è un film demoniaco e insieme cristologico.
«Maltrattato, si lasciò umiliare / e non aprì la sua bocca; / era come agnello condotto al macello, / come pecora muta di fronte ai suoi tosatori, / e non aprì la sua bocca. […] // Perciò io gli darò in premio le moltitudini, / dei potenti egli farà bottino, / perché ha consegnato se stesso alla morte / ed è stato annoverato fra gli empi, / mentre egli portava il peccato di molti» (Isaia, 53, 7 e 12).

Joker è un film rozzo, che dall’inizio alla fine si regge sull’interpretazione totale empatica perturbante e demente di Joaquin Phoenix.

Joker è un film consolatorio, che illude su quanto semplice sia –in fondo– ribellarsi agli arroganti, ai ricchi, ai potenti; su quanto facile sia colpire, distruggere, mandare a fuoco le loro cose e le loro vite. Ma questo accade al cinema; quando accade nella realtà si tratta di jacqueries destinate alla sterilità della sconfitta.

Joker è un film intriso di μῆνις, un film sulla vendetta, sul risentimento, sul rancore, sulla loro piena giustificazione, sulla loro inevitabilità.
«εἰ κεῖνόν γε ἴδοιμι κατελθόντ᾽Ἄϊδος εἴσω / φαίην κε φρέν᾽ ἀτέρπου ὀϊζύος ἐκλελαθέσθαι, ‘se lo vedessi discendere dentro i recessi di Ade, / direi che un brutto malanno avrebbe scordato il mio cuore’» (Iliade, VI, 284-285; trad. di G. Cerri); «οὐκοῦν ἐπὶ μὲν τοῖς τῶν ἐχθρῶν κακοῖς οὔτ᾽ ἄδικον οὔτε φθονερόν ἐστι τὸχαίρειν, ‘gioire dei mali dei nemici non è né ingiusto né invidioso’» (Platone, Filebo, 49d); «καὶ τὸ τοὺς ἐχθροὺς τιμωρεῖσθαι καὶ μὴ καταλλάττεσθαι, ‘e vendicarsi dei nemici è più bello anziché riconciliarsi’» poiché «è giusto il ricambiare, e ciò che è giusto è bello, ed è proprio di un uomo valoroso il non lasciarsi sopraffare. Vittoria e onore sono tra le cose belle: esse sono preferibili, anche se infruttuose, e manifestano una superiorità di virtù» (Aristotele, Retorica A, 9, 1367 a, 24 sgg, trad. di A. Plebe).

Joker è un film disturbante, molto. La spiegazione del suo successo di pubblico sta probabilmente nell’interpretazione di Phoenix, la quale va oltre l’interpretazione.

Joker è un film sull’umano.
«ἔστι δὴτοίνυν τὰ τῶν ἀνθρώπων πράγματα μεγάλης μὲν σπουδῆς οὐκ ἄξια, ἀναγκαῖόν γε μὴνσπουδάζειν: τοῦτο δὲ οὐκ εὐτυχές. […] ἄνθρωπον δέ, ὅπερ εἴπομεν ἔμπροσθεν, θεοῦ τιπαίγνιον εἶναι μεμηχανημένον, ‘È vero che le vicende umane non meritano che ci si interessi molto di loro, bisogna però occuparsene, per quanto la cosa possa risultare ingrata. […] L’umano, come dicevamo prima, è soltanto un giocattolo fabbricato dagli dèi’» (Platone, Leggi 803 b-c).
«L’uomo è un degenerato un mostro tra gli altri, che per fortuna si riproduce sempre più di rado…» (Céline, Rigodon, trad. di G. Guglielmi, Einaudi 2007, p. 186).
Chiusi nelle loro angosce, gli umani arrancano giorno dopo giorno. Il sentiero è interrotto. Se ci si chiede dunque perché mai il suicidio non sia un’attività di massa, la risposta sta probabilmente nel βίος, nell’impulso dei corpimente a durare ancora.
«La grande défait, en tout, c’est d’oublier, et surtout ce qui vous a fait crever, et de crever sans comprendre jamais jusqu’à quel point les hommes sont vaches. Quand on sera au bord du trou faudra pas faire les malins nous autres, mais faudra pas oublier non plus, faudra raconter tout sans changer un mot, de ce qu’on a vu de plus vicieux chez les hommes et puis poser sa chique et puis descendre. Ça suffit comme boulot pour une vie tout entière.
(La grande sconfitta, in tutto, è dimenticare, e soprattutto quel che ti ha fatto crepare, e crepare senza capire mai fino a qual punto gli uomini sono carogne. Quando saremo sull’orlo del precipizio dovremo mica fare i furbi noialtri, ma non ci bisognerà nemmeno dimenticare, bisognerà raccontare tutto senza cambiare una parola, di quel che si è visto di più schifoso negli uomini e poi tirar le cuoia e poi sprofondare. Come lavoro, ce n’è per una vita intera)»
(Céline, Voyage au but del la nuit, Gallimard 2018, p. 25; trad. di E. Ferrero, Corbaccio 1995, p. 33).

A volte mi vergogno di appartenere a questa specie, all’Homo sapiens, e vorrei piuttosto essere altra forma della materia. Una nuvola, ad esempio, che esiste e poi si scioglie restituendo alla terra dalla quale è venuta la dolcezza dell’acqua, la morbidezza della gratitudine.

Coltelli ermeneutici

Knives Out
(Cena con delitto)
di Rian Johnson
Con: Daniel Craig (Benoit Blanc), Ana de Armas (Marta), Christopher Plummer (Harlan Thrombey), Jamie Lee Curtis (Linda Thrombey), Michael Shannon (II) (Walt Thrombey), Don Johnson (Richard Drysdale)
USA, 2019
Trailer del film

Un suicidio che non è un suicidio ma che forse è un suicidio. Un’infermiera che è di buon cuore ma forse è un’omicida senza essere un’assassina. Una famiglia ricca perché il nonno, famoso scrittore di gialli, la rende tale ma che ricca non è pur essendo molto ricca. E un detective che sembra girare a vuoto ma al quale non sfugge ovviamente nessun particolare, interpretato da un Daniel Craig che, dismessi gli abiti di 007, si dondola come un fessacchiotto nel suo tweed grigio tra il proletario e lo snob. E infine una bisnonna della quale nessuno conosce esattamente l’età. Il tutto frullato in una tipica villa di campagna, solitaria e labirintica. Con l’inevitabile testamento.
Un giallo classico, assai divertente e -direi– rilassante. Con decine di coltelli sempre sullo sfondo anche se, come ci insegna la metafisica, in quanto oggetti empirici essi «si generano perennemente senza mai essere» (Platone, Timeo, 27d–28a). Coltelli quindi che non sono coltelli pur essendo coltelli. La filosofia, pertanto, non è solo «la musica più grande» (sempre Platone, Fedone, 61a), è anche il più intrigante giallo che sia mai stato scritto.

Scuola dell’ignoranza

La scuola del liberismo e la crisi delle scienze europee
in La scuola dell’ignoranza
A cura di Sergio Colella, Dario Generali e Fabio Minazzi
Mimesis 2019
Pagine 118-140

Grande è la difficoltà dell’educare. Nonostante  la centralità che attribuisce all’educazione, Platone esclude un’uguaglianza meccanica dei suoi risultati; sa che una precondizione è l’armonia tra intelletto e carattere; inserisce il fatto educativo nella più vasta dimensione sociale ritenendo responsabili del successo o del fallimento l’intera comunità e non soltanto gli educatori; rifiuta sia la mera costrizione autoritaria come la riduzione del peso dell’apprendere; è convinto, infine, che la vera educazione consista nel far emergere qualcosa di totalmente autonomo dall’educante e che è presente invece nell’educato. Persino per i Sofisti e per Isocrate lo studio e l’esercizio non bastano se non sono sostenuti da un adeguato talento naturale. Se uno di questi tre elementi viene a mancare, l’educazione non può che fallire.
La struttura del fatto educativo è socratica. Nessun docente può garantire alcun risultato se in chi lo ascolta non c’è predisposizione all’apprendere e volontà di riuscirci. L’educatore non è onnipotente; l’educando non è una macchina plasmabile in qualsivoglia forma; l’educazione è rapporto fra persone, incontro di libertà.
Scuole e università realmente democratiche dovrebbero basare le proprie valutazioni su criteri non di fortuna familiare, di padrinaggio politico, di appartenenza ideologica o di promozione indiscriminata, ma sul merito personale, sulla competenza e sulla volontà. Regalando a tutti dei diplomi e delle lauree frutto di un insegnamento dequalificato e superficiale –e quindi inutile–, i “riformatori”  all’opera in Occidente negli ultimi decenni stanno confermando in realtà la sostanza vecchia e classista dei loro progetti, che si esprime anche nella Società dello spettacolo diventata la Società dell’ignoranza.
Un’ignoranza che non sa di esserlo o che persino si vanta di esserlo. Molte persone ritengono infatti del tutto normale rinunciare ai fondamenti del pensiero argomentativo, con il quale si cerca di dimostrare le proprie tesi, a favore di una esposizione fondata sul sentito dire delle piattaforme digitali, sul principio di autorità, su impressionismi psicologici, su una comunicazione aggressiva.

Indice del saggio
-Uno sguardo al recente passato delle riforme scolastiche
-Effetti delle riforme scolastiche sulla formazione universitaria
-Sul finanziamento della ricerca
-Università, società, cultura
-Conoscenze e competenze
-Grecità e Globalizzazione
 

[Photo by Brandi Redd on Unsplash]

Siracusa, le acque

È certo significativo che il primo filosofo greco abbia indicato nell’ὑγρότης, nell’acqua, nell’elemento umido, il principio e la forza comune a tutti gli enti. La Grecia ebbe infatti nascita dal mare; Οὐρανός e Ζεύς sono intrisi della potenza di ciò che fluisce e non si ferma mai: le acque, il tempo.
Siracusa fu ed è una città greca, il cui Duomo è tuttora il tempio di Atena adattato al loro culto dai soliti parassiti cristiani (come si vede dall’immagine del suo interno qui a destra). Di questa Pentapolis fa parte Ortigia, Ὀρτυγία, “l’Isola delle quaglie”, che non è  soltanto circondata dalla acque ma contiene in sé fonti lussureggianti e ininterrotte.
Tra di esse, tre meritano di essere visitate: il Mikvé, bagno ebraico destinato alla purificazione, scoperto durante i lavori di ristrutturazione dell’albergo Alla Giudecca; i sotterranei della Giudecca sotto la chiesa di San Filippo Apostolo, che contengono anch’esse un bagno ebraico dalla struttura verticale e a spirale; infine, e naturalmente, la Fonte Aretusa, il suo splendore, la passione di Alfeo per la Ninfa, la fuga di lei trasformata in fonte, la tenacia di Alfeo che ottiene di essere a sua volta trasformato in fiume per attraversare il mare e raggiungere l’amata sulle rive orientali della Sicilia.
Secondo alcune versioni del mito -non tutte- la relazione tra Alfeo e Aretusa rimane asintotica, l’amante si avvicina indefinitamente all’amata ma le acque non si mescolano. Segno questo, della distanza che l’Altro sempre rimane, anche quando sembra che i corpi diventino una cosa sola: «Un corps humain, même aimé comme était celui d’Albertine, nous semble à quelques mètres, à quelques centimètres distant de nous. Et l’âme qui est à lui de même», ‘Un corpo umano, anche amato, com’era quello di Albertine, ci sembra, a pochi metri, a pochi centimetri di distanza, lontano da noi. Ed egualmente l’anima che gli appartiene’ (Proust, Sodome et Gomorrhe, in «À la recherche du temps perdu», Gallimard 1999, p. 561, trad. di Elena Giolitti).
Se i bagni ebraici esprimono una ritualità rigorosa e intransigente -persino il numero degli scalini che conducono ai bagni e la loro misura sono stabiliti e simbolici–, il mito ellenico si insinua invece dentro le passioni umane con la libertà e l’imprevedibilità delle acque; si fa a sua volta fiume andando verso una pluralità di direzioni, anfratti, polle. La fonte, le acque, il mito, il cielo si confondono, diventano specchio tremolante nella luce, anche nell’immagine qui sopra che somiglia a un dipinto impressionista e invece è soltanto una mia foto.
Siracusa è le sue acque, Siracusa è il suo cielo. Lo stesso cielo contemplato dagli occhi di Platone. Anche per questo è un luogo sacro.

Dispositivi teoretici

Recensione a:
Stanley RosenLa questione dell’essere. Un capovolgimento di Heidegger
(The Question of Being. A Reversal of Heidegger, 2002)
Traduzione di Guido Frilli
Edizioni ETS, 2017
Pagine 306
in Discipline Filosofiche, luglio 2019

Il dispositivo teoretico dell’heideggerismo produce di continuo critiche, riprese, abbandoni. L’ambizione di Stanley Rosen di capovolgere tale dispositivo contiene in sé tutti questi elementi. Rosen conduce infatti una severa analisi della tesi heideggeriana che interpreta la filosofia di Nietzsche come platonismo capovolto e dunque in ogni caso come platonismo, nel noto significato per il quale, nello sviluppo da Platone a Nietzsche, la metafisica si orienterebbe in base agli enti, lasciando impensato l’Essere. Per Heidegger il Wille di Nietzsche –la volontà di potenza– capovolge sì l’εἶδος di Platone –la forma– ma ne condivide l’immanenza ontica rispetto alla trascendenza ontologica.
Rosen contesta con molti buoni argomenti questa interpretazione del plesso Nietzsche-Platone, riconoscendo in ogni caso che Heidegger è «talvolta estremamente illuminante». Illuminazione che si esprime, aggiungo, non soltanto nelle «molte cose che si possono imparare» da lui, compreso «come spogliare la filosofia del suo guscio accademico o scolastico e riportarla alla vita», ma anche nell’abilità che il pensiero heideggeriano possiede di capovolgere la stessa intenzione critica di Rosen in una chiara riproposizione, da parte di quest’ultimo, della differenza ontologica.
A Reversal of Heidegger diventa così un capovolgimento delle intenzioni del suo critico. Anche di questo è capace un pensare potente come quello di Martin Heidegger.

Pausania / L’Attica

Vissuto nel II secolo e.v., viaggiatore attento e narratore insieme sobrio e fascinoso, ammiratore del filellenico imperatore Adriano, odiato dai cristiani in quanto «autore particolarmente interessato alla storia dei culti e dei luoghi di culto pagani» (Introduzione a Pausania, Guida della Grecia, Libro I, L’Attica, a cura di Domenico Musti e Luigi Beschi, Fondazione Lorenzo Valla / Arnoldo Mondadori Editore  2013, p. LXVI; citerò il testo di Pausania indicando il numero dei libro, quello dei paragrafi e il numero di pagina della traduzione italiana), Pausania compose la sua descrizione di Atene e dell’Attica tra il 135 e il 150. I luoghi vengono percorsi quasi palmo a palmo, i monumenti descritti nel loro contesto e nella loro genesi, santuari e templi sono posti al centro della vita, ammirati gli eroi, compianta ma accettata la finitudine degli umani e di ogni cosa, individuati ovunque -davvero ovunque- gli dèi.
Per gli umani, infatti, «non c’è verso di evitare quanto il dio gli ha assegnato in sorte» (5, 35-36, p. 33) e anche «quelli che i Greci chiamano ‘valorosi’ non sono nulla senza la Fortuna», senza τύχη, che è anch’essa una divinità (29, 96-97, p. 163).
Dappertutto gli umani sono immersi nelle passioni della guerra e dell’amore. Tra tutte le vittorie degli Ateniesi, nessuna fu da loro rivendicata come quella di Maratona (14, 47, p. 79), con la quale la Grecità si oppose ai barbari. I quali però tornarono nelle vesti dei Macedoni, per quanto anch’essi Greci. Ostile a Filippo e a suo figlio Alessandro, Pausania sostiene che «il disastro di Cheronea fu all’origine delle sventure di tutti i Greci, soprattutto rese schiavi gli indifferenti e quanti si schierarono dalla parte dei Macedoni» (25, 21-22, p. 131). Ma la guerra in Grecia -e ovunque- è anche un fenomeno interno alle comunità politiche, alle città. Omicidi, complotti, aggressioni costellano la narrazione, come il caso di Efialte (495-461 a.e.v.), democratico radicale e per questo vittima designata dei poteri oligarchici (29, 140, p. 165).
L’altro nome della guerra è l’amore. Gli umani, infatti, «sono soliti incorrere in molte sventure a causa delle passioni d’amore» (10, 25-26, p. 55). Lo conferma la natura cosmica di Afrodite Urania, che in realtà «è la primogenita delle cosiddette Moire» (10, 17-18, p. 99), le divinità implacabili, le potenze prime e ultime che sovrastano il capo di Zeus insieme alle Ore, insieme al Tempo (40, 42-43, p. 215). La potenza di Afrodite si mostra in molte forme, situazioni, eventi, espressioni. C’è un’Afrodite che avvicina -Epistrofia- e c’è un’Afrodite che allontana -Apostrofia- (40, 61, p. 217). C’è Ἔρως e c’è ᾿Αντέρως, il dio vendicatore dell’amore non corrisposto (30, 1, p. 167).

Le Moire, Afrodite, Eros, Anteros, Nemesi, sono implacabili come irremovibile è il grande dio potenza della terra: Dioniso. Un dipinto che si trovava nel più antico santuario del dio ad Atene mostrava «Penteo e Licurgo, che pagano il fio delle offese arrecate a Dioniso; Arianna che dorme; Teseo che salpa e Dioniso che viene a rapire Arianna» (20, 30-33, p. 103).
La divinità pervasiva di questo primo libro della Periegesi è naturalmente la dea eponima, Atena, alla quale è consacrata l’intera città e tutto il suo territorio (26, 52-53, p. 139). Tra la miriade di luoghi, edifici, templi e monumenti illustrati da Pausania, fondamentale per l’identità dell’Europa è uno che si trova «non lontano dall’Academia […] la tomba di Platone, a cui la divinità preannunciò che sarebbe stato il più grande fra i filosofi» (30, 24-25, p. 169).

La peculiarità dello sguardo di Pausania consiste anche nel fatto che qualunque sia lo specifico spazio che descrive, è capace di inserirlo in un tessuto geografico, storico, mitologico di universale significato. Un’intenzione e una vastità della quale lo scrittore è del tutto consapevole: «Intendo toccare in ugual misura tutti gli aspetti del mondo greco» (26, 34, p. 139)
Al di là di Atene, Pausania presenta Capo Sunio, le isole a esso vicine, le altre più lontane -Egina e Salamina-, le montagne della Megaride, la città di Megara, Eleusi e i misteri ai quali egli stesso era iniziato e sui quali è dunque massima la discrezione, altri santuari, villaggi, luoghi dove esiste o è accaduto qualcosa di significativo, tanto più se poco conosciuto rispetto a quanto hanno già narrato Erodoto e Tucidide. Ma un luogo che è e rimane centrale è Maratona. Non soltanto, come accennato, questo fu per Atene e per i Greci l’evento chiave ma «a Maratona è dato di sentire ogni notte nitrire cavalli e uomini combattere» (32, 29-31, p. 175).
Si ricordò di queste parole Foscolo quando scrisse -in alcuni versi assai densi dei Sepolcri– che Atene «sacrò tombe a’ suoi prodi» a Maratona, pianura nella quale «il navigante / che veleggiò quel mar sotto l’Eubea, / vedea per l’ampia oscurità scintille / balenar d’elmi e di cozzanti brandi, / fumar le pire igneo vapor, corrusche / d’armi ferree vedea larve guerriere / cercar la pugna; e all’orror de’ notturni / silenzi si spandea lungo ne’ campi / di falangi un tumulto e un suon di tube / e un incalzar di cavalli accorrenti / scalpitanti su gli elmi a’ moribondi, / e pianto, ed inni, e delle Parche il canto» (vv. 202-214) .
E delle Parche il canto. Infinito, silenzioso, inesorabile. Anche di questo trionfo della Necessità e dei suoi dèi è pervaso il viaggio di Pausania. Ecco perché «qui c’è anche una statua di Afrodite, una di Apollo e una di Pan» (44, 96-97, p. 243). Qui. Ovunque.

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