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Pro Familia

I pugni in tasca
di Marco Bellocchio
Italia, 1965
Con: Lou Castel (Ale), Paola Pitagora (Giulia), Marino Masé (Augusto), Liliana Gerace (La madre)
Trailer del film

«Io Pro Familia la terrei, è una collezione che potrebbe valere qualcosa». Questo suggerisce Augusto – a proposito della rivista preferita dalla madre – ai due fratelli minori Alessandro (detto Ale) e Paola, che raccolgono, buttano via e bruciano tutto quello che stava nella stanza della madre morta. Raccolgono e bruciano con gioia, nel cortile della villa di campagna dove abitano isolati, che adesso Augusto vorrebbe lasciare per sposarsi e vivere in città. Dopo qualche tempo muore in un incidente anche Luca, il quarto fratello cognitivamente handicappato. La madre, cieca, era stata anch’essa vittima di un incidente, finita in un burrone mentre Ale la accompagnava in visita al cimitero.
La metodica follia di Alessandro, la sensuale complicità di Paola, la stupidità di Luca, l’insofferente maturità di Augusto sono davvero opachi alla madre che li ha generati. Cieca, non si accorge delle dinamiche vitali e insieme patologiche che muovono i figli. Non vede sfaldarsi e annichilirsi il suo legittimo desiderio di una normalità familiare nella quale non si accenna mai al padre e dove la madre è soltanto un peso.
Bellocchio aveva 26 anni quando scrisse e girò questo suo film d’esordio, nel quale come in un gomitolo sta la radicalità che si sarebbe dipanata nelle tante opere che seguiranno: dall’educazione cattolica al fascismo, dall’eutanasia ancora alla famiglia, dalla Chiesa romana alla mafia. E di nuovo la madre.
Un percorso dentro il dolore dei singoli e delle collettività raccontato in modi di volta in volta interiori, evenemenziali, teneri, grotteschi, onirici, espressionisti.
Molti secoli prima di Bellocchio e di altri, un filosofo si era espresso contro la famiglia, almeno per chi ha responsabilità pubbliche:
«ἆρ᾽ οὖν τούτων αἰτία πρὸς τῇ ἄλλῃ καταστάσει ἡ τῶν γυναικῶν τεκαὶ παίδων κοινωνία τοῖς φύλαξιν; […] τοῦ μεγίστου ἄρα ἀγαθοῦ τῇ πόλει αἰτία ἡμῖν πέφανται ἡ κοινωνίατοῖς ἐπικούροις τῶν τε παίδων καὶ τῶν γυναικῶν.
E la causa di tutto ciò, oltre al resto, non dipende forse dall’istituto della comunione delle donne e dei figli tipica dei Custodi? […] In conclusione, è risultato che il massimo bene per la nostra Città dipende dalla comunanza dei figli e delle mogli per chi è al servizio dello Stato»
[Platone, Πολιτεία, 464a-b, trad. di Roberto Radice]

Mondrian / Platone

PIET MONDRIAN
Dalla figurazione all’astrazione

Museo delle Culture – Milano
A cura di Daniel Koep e Doede Hardeman
Sino al 27 marzo 2022

Se Mondrian (1872-1944) avesse semplicemente continuato la tradizione della pittura olandese di paesaggio -cosa che fece per decenni- sarebbe stato un buon artista ma non sarebbe stato Mondrian.
Sarebbe stato solo un artista con qualcosa di più ampio e più profondo rispetto ai suoi colleghi dediti alla stessa modalità espressiva. Lo si vede anche dal coinvolgente Mulino Oostzijdse con cielo blu, giallo e viola (1907) nel quale le linee orizzontali interrotte dalla struttura del mulino indicano con forza la potenza dello spazio e della luce.

Linee che si immergono nel reale poiché di esso cominciano a delineare non l’empiria ma la forma, un’essenza platonica. Empiria e figura già divenute essenziali in Composizione con alberi (1912) nella quale gli alberi si vedono perché è il titolo del quadro che li indica.


Infine e a poco a poco si arriva a Platone, Mondrian perviene alla metamorfosi completa degli enti, degli oggetti, dei paesaggi, delle cose nella loro pura e immutabile geometria. «Le forme ideali sono il modo in cui l’essere si mostra negli enti. Un libro, ad esempio, è composto di carta, inchiostro, spessore, altezza, forma, ma non coincide con nessuno di tali specifici elementi. L’idea del libro è la struttura che rende quella carta, quell’inchiostro, quello spessore, quell’altezza, quella forma, il libro che vediamo al di là di ogni specifico e singolo libro. Il libro che in questo momento leggi e hai in mano è uno dei modi nei quali si dà la struttura materica e formale generale che chiamiamo ‘libro’. Mai diresti che quello che hai in mano sia il libro ma è certamente uno dei possibili libri. Il fatto che possiamo pensare il libro al di là di ogni singolo oggetto libro è l’ontologia, la quale è quindi sempre universale, sempre metafisica» (Tempo e materia. Una metafisica, p. 105). Sostituiamo libro con fiume, mulino, tavolo, nuvola e avremo la radice metafisica dell’arte di Mondrian e in generale di ciò che viene definito astrattismo. Significativamente, l’artista si definì sempre «un realista astratto».
Composizione con linee e colore III (1937) è forse meno nota di altre opere ed è paradigmatica della semplicità e ritmicità del fare artistico/filosofico di Mondrian. Una sequenza di linee orizzontali e verticali di varia misura e distanza che si raggruma in basso a destra in un piccolo rettangolo di intenso blu.


Tra i numerosi quadri che hanno come titolo Composizione con rosso giallo e blu, quello del 1929 conservato a Belgrado (immagine di apertura) è forse il più paradigmatico per la musica che sembra sprigionarsi dalla regolarità e dalle differenze tra le linee, i quadrati, i tre magnifici colori. Sembra davvero di trovarsi al cospetto di una semplice perfezione.
Le essenze platoniche di Mondrian sono diventate anche oggetti progettati e realizzati dalla scuola denominata De Stijl o Neoplasticismo. La mostra milanese permette di ammirarne alcuni esempi, come la Credenza Helling (1919) e la Berlijnse stoel (1923), progettate da Gerrit Rietveld.

Infine, deliziose e platoniche anch’esse, tre terrecotte smaltate di Bart van der Leck, intitolate Mela astratta su un albero, Alveare, Testa di capra (1936-1942).


Siamo questo, il mondo è questo: materia densa e colorata che esiste perché in essa si incarnano, si esprimono e condensano delle forme astratte e pure; materia temporale nella quale si invera per un intervallo di tempo l’eternità.
«εἰκὼ δ᾽ ἐπενόει κινητόν τινα αἰῶνος ποιῆσαι, καὶ διακοσμῶν ἅμα οὐρανὸν ποιεῖ μένοντος αἰῶνος ἐν ἑνὶ κατ᾽ ἀριθμὸν ἰοῦσαν αἰώνιον εἰκόνα, τοῦτον ὃν δὴ χρόνον ὠνομάκαμεν. ‘Ecco dunque che egli pensa di produrre un’immagine mobile dell’eternità e, nell’atto di ordinare il cielo, pur rimanendo l’eternità nell’unità, ne produce un’immagine eterna che procede secondo il numero, che è precisamente ciò che noi abbiamo chiamato ‘tempo’» (Timeo, 37d, 211; trad. di Francesco Fronterotta).
Il tempo come susseguirsi di istanti, χρόνος, è un riflesso necessario e dinamico del tempo come stabilità, αἰών. Guardando l’astrazione  di Mondrian è questo che si vede.

Filosofia del linguaggio

Scritture filosofiche del Novecento
in Dialoghi Mediterranei
Numero 49, maggio-giugno 2021
Pagine 38-45

Indice
-Un’«invenzione ammiranda»
-Il Novecento
-Ferdinand de Saussure
-Ludwig Wittgenstein
-Martin Heidegger
-Hans-Georg Gadamer
-Altro Novecento
-La scrittura come dimora
-La scrittura filosofica di Friedrich Nietzsche

Il modo in cui i filosofi intendono il linguaggio contribuisce a determinare le forme in cui essi scrivono. In questo saggio ho cercato di (sinteticamente) ricordare alcuni dei filosofi e dei libri che testimoniano la centralità del linguaggio/scrittura nel Novecento.
Si pratica una lingua e si abita in essa esattamente come si vive un corpo. La lingua non è uno strumento poiché essa è un mondo di significati, di riferimenti, di memorie, di attese. Ritenere che esprimersi in una lingua piuttosto che in un’altra, in uno stile piuttosto che in un altro sia un gesto neutrale è dunque un’ingenuità epistemologica ed esistenziale. È infatti certamente possibile passare da un codice linguistico a un altro ma è chiaro che questo significa cambiare ogni volta l’orizzonte sia concettuale sia esistenziale nel quale siamo immersi.
Linguaggi diversi generano differenti concezioni della realtà e diversi modi di vivere in essa. Pensiero e linguaggio sono espressioni profondamente correlate del corpomente immerso in uno specifico ambiente. Tale ambiente influenza il pensiero che lo conosce, le parole che lo dicono, l’azione che in esso accade. Se è vero che il linguaggio è una funzione innata degli umani, essa ha sempre bisogno di un ambiente sociale che la renda possibile. Bambini che si sono trovati a crescere e a sopravvivere fuori dal consorzio umano, non sanno parlare. E questo conferma la struttura comunitaria del Dasein.
Sarebbe dunque utile e opportuno cogliere la varietà linguistica non come ostacolo – relazionale, scientifico, didattico – ma come occasione per mostrare con l’evidenza e la potenza del testo scritto la ricchezza delle differenze che costituiscono il mondo e in esso la filosofia.
Le scritture filosofiche del Novecento esprimono la millenaria saggezza di Thot: «ὦ βασιλεῦ, τὸ μάθημα,’ ἔφη ὁ Θεύθ,‘σοφωτέρους Αἰγυπτίους καὶμνημονικωτέρους παρέξει: μνήμης τε γὰρ καὶ σοφίας φάρμακον ηὑρέθη», «O sovrano, tale conoscenza renderà gli Egiziani più sapienti e in grado di ricordare meglio, poiché con essa si è trovato il farmaco della memoria e della sapienza» (Platone, Phaedrus 274e).

Imprendibile

«Sotto il segno di Platone», un filosofo imprendibile
il manifesto
13 aprile 2021
pagina 15

Leggere, comprendere, interpretare Platone è uno dei supremi gesti filosofici ed è un atto che non si limita alla filosofia, coinvolgendo la storia e il suo significato. Ma Platone rimane imprendibile. Questo è il dato primo e ultimo al quale ogni lettore del filosofo perviene. Ed è anche per questo che lo studio delle sue opere e della sua figura è interminabile. Perché Platone è molteplice, chiarissimo e labirintico, sirenico e mortale, politico e ontologico.

Oggetti / Struttura

Enzo Mari. Una vita per il design
Palazzo della Triennale – Milano
A cura di Hans Ulrich Obrist e Francesca Giacomelli
Sino al 12 settembre 2021

Mορφή, forma, è la parola chiave della filosofia platonica. Forma sono gli enti assoluti, i modelli paradigmatici, le strutture indistruttibili. Il filosofo teso più di ogni altro all’ordine della bellezza intuisce che la struttura dell’essere è μορφή / είδος. Formale è il fondamento della geometria, formale è la disposizione dei luoghi nello spazio, formale è l’ordine del divenire.
Dalle strutture universali dell’essere a ciascuno degli enti naturali e artificiali, la forma è ciò che consente al mondo di essere colmo di una sensata molteplicità nella quale la potenza senza requie della materia esiste e diventa comprensibile.
Scienze e pratiche come l’urbanistica, l’architettura, il design sono profondamente legate alla filosofia in quanto espressione della μορφή in ambiti vari e complessi: la struttura della πόλις, l’abitare, il costruire, il toccare. Basta allora guardare gli oggetti che i progettisti più consapevoli e di maggior talento creano per vedere la bellezza della forma farsi esperienza quotidiana, quasi sempre persino inavvertita.
L’opera di Enzo Mari (1932-2020) esprime in modo pacato, costante e innovativo tale potenza.
In essa convergono la ineluttabilità della geometria, le prospettive rinascimentali, le forme cubiche, i colori vari e accesi, una grande varietà di strutture e materiali. Molte opere portano come titolo, appunto, struttura, e in esse si scandisce una serialità che sa fermarsi al momento giusto, un insieme labirintico di incastri, una grande varietà di composizioni. Il cuore dell’opera sono i volumi esemplati sul modello, ancora una volta, dei solidi platonici.
Le opere, le realizzazioni, i progetti coprono un raggio amplissimo.
Tra gli oggetti: lampade, sedie, tavoli, tazze, piatti, librerie, appendiabiti, fermacarte, pentole, posate, calendari, arazzi, letti, vasi rotti di proposito per dare loro una forma originale, unica e dinamica. E le copertine di alcune collane Boringhieri e Adelphi, ormai tra i classici dell’editoria italiana.
Tra i progetti visionari: il Parco della Gorgone a Gela, in Sicilia; l’Operazione Vesuvio a Napoli (1972).
Tra i progetti non realizzati e che se lo fossero stati avrebbero segnato al meglio gli spazi della città: il progetto per tre piazze del Duomo, a Milano (1982).
Una sezione della mostra è dedicata alla visione e all’ascolto di varie interviste e interventi di Mari. Il quale, tra le altre cose, afferma questo:

L’orrore consiste nella quantità di immagini fasulle che ci invadono. Io le chiamo ‘architettura, urbanistica e design karaoke’. Da sempre la qualità è un bene raro; la quantità uccide la qualità. Il potere interessa ai figli di puttana e agli imbecilli, che ripetono tutti le stesse formule. Un progetto che vorrei realizzare è contribuire a salvare la scuola, l’eguaglianza nella scuola. Tra i progetti di altri che mi hanno affascinato c’è la culla della morte, nella quale il moribondo viene cullato mentre muore. Gli artisti sono sempre stati dei sacerdoti.

È infatti chiara la natura sacra degli oggetti inventati da questo artista, nella cui opera il design si fa  antropologia, ontologia, filosofia.
Evidente esempio di questa tensione alla totalità è una delle opere/installazioni: Allegoria della morte (1987): tre sepolture e tre lapidi; a destra i monoteismi, rappresentati dalla croce cristiana; a sinistra la falce e martello; al centro la svastica nazionalsocialista, sulla cui tomba sono posti modellini di automobili e altri oggetti. A proposito della svastica e degli oggetti, Mari scrisse che «la tecnologia è sempre lo strumento primo della merce. La gente sa […] che il nuovo genocidio, quello della merce, è incombente. Tuttavia continua a sognare il Dio della merce» (L’arte del design, Federico Motta Editore, 2008). Mari si mostra così più radicale di Heidegger, più estremo delle Conferenze di Brema e Friburgo.
Il sacro vs la merce. Oltre che filosofia, il design diventa politica. Come in Platone. Mορφή.

[La fruizione della mostra, come di quasi tutte quelle che si stanno svolgendo in Italia, è stata di nuovo sospesa dagli incapaci al governo, dai cinici, dagli incompetenti, dai rozzi. Dai barbari. Questo testo vuole essere anche d’auspicio affinché le forme possano tornare a consolare ed esaltare i nostri corpimente]

Termodinamica

Ilya Prigogine
Dall’essere al divenire

Tempo e complessità nelle scienze fisiche
(From Being to Becoming. Time and Complexity in the Physical Sciences [1978])
Traduzione di Gianluca Bocchi e Mauro Ceruti
Einaudi, 1986
Pagine XIII-276

La potenza del pensiero matematico e idealizzante della tradizione platonica è stata interamente acquisita  e riverberata dalla fisica galileiana e newtoniana e pervade di sé anche i paradigmi -opposti a quello di Newton pur se incompatibili tra di loro- della fisica dei quanti e della relatività. L’ideale di un universo statico e senza tempo è tuttora un modello condiviso da molti fisici, sia che esso riguardi la struttura infinitesimale della materia sia che si riferisca alla struttura illimitata del cosmo. «Quando ci si avvicina alle scale relative ad oggetti molto piccoli (atomi, particelle ‘elementari’) o ad oggetti iperdensi (come le stelle di neutroni o i buchi neri), avvengono dei nuovi fenomeni. Allora la dinamica newtoniana viene sostituita dalla meccanica quantistica (che prende in considerazione il valore finito di h [costante di Planck]) e dalla dinamica relativistica (che comprende c). Tuttavia queste nuove forme di dinamica, in sé estremamente rivoluzionarie, hanno ereditato dalla fisica newtoniana il suo ideale di un universo statico, un universo di essere senza divenire» (p. 15).
Meccanica classica e meccanica quantistica non sono errate ma parziali. Esse costituiscono infatti forme e formule idealizzate rispetto sia all’effettivo divenire della natura sia ai processi termodinamici che la intessono. Nel mondo che osserviamo, nel mondo empirico, nel mondo naturale che possiamo indagare e che indaghiamo con una varietà molto complessa di strumenti, la natura è asimmetrica rispetto al tempo. L’irreversibilità è la regola, la reversibilità è l’eccezione. La termodinamica ipotizza e mostra che tale stato di cose non è frutto soltanto delle modalità con le quali una mente consapevole guarda e misura la materia ma è anche intrinseca alla materia stessa e dunque che «l’esistenza di leggi orientate rispetto al tempo, quali l’aumento di entropia verso il futuro, implica per questi sistemi l’esistenza di stati orientati rispetto al tempo» (224). L’irreversibilità è una legge della termodinamica poiché il tempo è una condizione stessa della materia.
Secondo Eddington le leggi primarie controllano il comportamento di singole particelle elementari, le leggi secondarie si applicano invece a insiemi di atomi e di molecole. Ma questa distinzione è corretta se viene intesa nel senso che «la struttura delle equazioni del moto, con la ‘casualità’ al livello microscopico, emerge allora come irreversibilità al livello macroscopico» (183) e non nel senso che l’entropia sia da limitare soltanto alla dimensione macroscopica. Non è dunque vero che l’irreversibilità emerge a livello macroscopico da dinamiche del livello fondamentale della natura che sarebbero invece reversibili. La seconda legge della termodinamica costituisce piuttosto una delle più efficaci e potenti manifestazioni dell’unità della natura, la quale produce grandi differenze ma sempre sul fondamento di alcune strutture profondamente unitarie. Le cosiddette ‘particelle elementari’ sono in realtà oggetti complessi, nei quali il tempo svolge un ruolo molto significativo e «profondamente radicato nelle fluttuazioni del livello microscopico, dinamico» (8). E questo anche perché il tempo non è un semplice parametro, come presupposto dalla dinamica, ma è anche un operatore, esattamente al modo di quelli che nell’ambito della meccanica quantistica descrivono le quantità. La distinzione tra la natura non umana -caratterizzata da processi reversibili- e quella umana, fatta di irreversibilità, è l’ennesima espressione di un antico dualismo, che una comprensione più ampia e unitaria cancella.
L’unità della natura e l’unità della scienza che la studia coincidono in gran parte con l’unità dei processi temporali che pervadono sia la materia, sia la parte di materia che indaga se stessa: noi. «La seconda legge della termodinamica esprime la nostra appartenenza a un universo in evoluzione» (XIII). Il tempo spiega le dinamiche psicologiche come quelle cosmologiche, le strutture sociali e le strutture molecolari. Tutti i sistemi viventi, anche i più semplici, possiedono una direzione del tempo. Essi si sviluppano, decadono e muoiono. La teoria delle strutture dissipative contribuisce a indagare le diverse modalità con cui questo avviene. Ma questo avviene, appunto. La direzione del tempo si trova «nelle stesse basi della fisica e della chimica. A sua volta questo risultato giustifica in maniera autoconsistente il senso del tempo che noi possediamo. Il concetto di tempo è molto più complesso di quanto pensassimo» (7), per meglio dire di quanto metafisici atemporali e fisici sia classici sia relativistici abbiano immaginato.
La seconda legge della termodinamica mostra la realtà del mutamento, distingue il passato dal futuro, fa del tempo una variabile intrinseca dei sistemi fisici. Si tratta di una legge molto complessa, scoperta in ambito chimico (da Boltzmann) come misura del disordine molecolare e quindi  come crescita della disorganizzazione nei sistemi. In ambito biologico e sociale -dove il ruolo dei processi irreversibili è fondamentale e palese- la seconda legge conduce invece a un aumento della complessità e quindi dell’ordine. L’attività degli enzimi nei composti non è un’evoluzione verso il disordine molecolare ma il contrario. L’esistenza di collettività umane -di qualunque misura- non sarebbe possibile senza un aumento di complessità associato alla crescita dell’organizzazione. Se siamo in grado di attribuire un’età -approssimativa, certo, ma non implausibile- agli individui come ai luoghi è perché non nei singoli elementi di un corpo o di una città ma dal loro insieme unitario emerge l’elemento temporale. E questo è possibile soltanto perché la struttura interna della nostra percezione e del nostro essere e la struttura esterna della materia naturale e artificiale condividono alcuni processi fondamentali, che sono processi  temporali.
Biologia e geografia sono espressioni di una temporalità che è insieme sia corporea sia coscienzialistica, sia naturale sia culturale. Ecco il problema, la cui stessa formulazione è densa di implicazioni metafisiche:

L’interpretazione classica della seconda legge era che essa esprimesse l’aumento del disordine molecolare. Nella formulazione di Boltzmann, l’equilibrio termodinamico corrisponde allo stato di massima ‘probabilità’. In biologia e in sociologia, però, il significato fondamentale dell’evoluzione era esattamente l’opposto: essa descriveva delle trasformazioni che portavano a livelli di complessità sempre maggiore. Come si possono mettere in relazione questi vari livelli del tempo? Il tempo moto usato in dinamica, il tempo connesso all’irreversibilità della termodinamica, il tempo storia della biologia e della sociologia? Chiaramente non è cosa facile. Eppure viviamo in un unico universo. Se vogliamo ottenere una visione coerente del mondo in cui siamo inseriti, dobbiamo trovare qualche strada per passare da una descrizione all’altra (4).

Se l’irreversibilità è un dato pervasivo della materia e se la distinzione tra passato e futuro è un precategoriale, «un tipo di concetto primitivo in un certo senso antecedente all’attività scientifica» (190), allora per comprendere come è fatto il mondo e come ci appare, bisogna transitare da una fisica e una metafisica dell’essere a una fisica e una metafisica del divenire. Già Aristotele aveva ben compreso che il tempo -come l’essere- si può dire in molti modi. Il tempo è certamente kinesis, movimento reversibile formulabile nel linguaggio della dinamica, ma è anche metabolé, movimento irreversibile di trasformazione formulabile con il linguaggio della termodinamica. L’uno non esclude l’altro, che invece si impiccano reciprocamente perché la complessità della natura va molto oltre il potere formalizzante dei linguaggi scientifici e filosofici. «Il caos dà origine all’ordine» (132), la maggior parte dei sistemi sufficientemente complessi costituiscono delle strutture non soltanto statiche e non soltanto divenienti ma metastabili, nel senso che in esse convivono reversibilità e irreversibilità, determinismo e probabilità, tempo ed eternità.
La fisica e la metafisica non sono più i saperi dell’immobilità, del nunc stans, della verità logica opposta alle apparenze, ma vanno sempre più diventando i saperi capaci di coniugare il tempo come divenire -χρόνος- – e il tempo come eternità -αἰών, poiché il tempo è anche l’unità degli opposti, è il coniugare le differenze mantenendole come differenze. La questione cosmologica è il luogo -alla lettera- nel quale la complessità del tempo si manifesta in tutta la sua ricchezza anche come durata del presente, che non è affatto il non-luogo della tradizione agostiniana e neppure soltanto il pur importante Specious Present di Clay e James ma è anche e soprattutto la materia densa di strutture molecolari della termodinamica:

Vediamo come è mutata drasticamente la descrizione del tempo se la si paragona con la rappresentazione tradizionale in cui si riteneva che il tempo fosse isomorfo a una linea retta (cfr. figura 10.8) precedente dal lontano passato (t → -∞) al lontano futuro (t → +∞). Il presente corrisponde allora a un unico punto che separa il passato dal futuro. Il presente viene fuori, per così dire, dal nulla e scompare nel nulla. Inoltre, essendo ridotto a un punto, esso è infinitamente contiguo al passato e al futuro. In questa rappresentazione non v’è distanza fra passato, presente e futuro. Al contrario, nella nostra rappresentazione, il passato è separato dal futuro da un intervallo misurato dal tempo caratteristico tc : possiamo parlare della durata del presente. È interessante come molti filosofi -Bergson, Whitehead- abbiano sottolineato la necessità di attribuire al presente una durata incomprimibile di tal genere. L’uso della seconda legge come principio dinamico porta precisamente a questa conclusione, e porta pure a una nuova non-località dello spazio. (213-214).

Prigogine riconosce in modo esplicito il contributo che alcuni filosofi -Bergson, Whitehead e Heidegger- hanno dato alla descrizione del cosmo e della materia come strutture in divenire, intrise di spaziotempo che produce materia e dalla materia è generato. Una temporalizzazione dello spazio per la quale ogni ente è anche un evento, ogni struttura è anche un’attività. Al pari di molte posizioni metafisiche, anche la fisica ha abbandonato ogni ingenuo realismo e si è data il compito di indagare e descrivere la complessità della quale quale siamo parte e che ci oltrepassa. La non-commutatività che rende impossibile uno stato nel quale la coordinata q e la quantità di moto p posseggano valori contemporaneamente ben definiti ha contribuito «a scuotere i fondamenti galileiani della fisica. Essa ha distrutto la convinzione che la descrizione fisica sia realistica in un senso ingenuo» (53).
Il mondo è diventato ai nostri occhi molto più incerto, fluttuante, diveniente, probabilistico, irreversibile. Il paradigma eleatico per il quale tutto è immobile nella sua perfezione, il paradigma platonico per il quale il gorgo del tempo è immagine mobile di un modello atemporale, costituiscono delle magnifiche costruzioni della mente razionale. Che però in quanto razionale deve anche misurarsi con l’esperienza empirica, biologica, sociale delle costruzioni individuali e collettive. Esperienza insieme psichica e materica, alla quale la termodinamica e il divenire offrono tutta la potenza di un mutamento inscritto nelle molecole, di un tempo che coincide con l’essere di tutte le cose possibili e pensabili. 

Il vuoto

Maurizio Consoli – Alessandro Pluchino
Il vuoto: un enigma tra fisica e metafisica
Aracne Editrice, 2015
Pagine 174

Tra i concetti più antichi, enigmatici, pervasivi del pensare, sempre attuali pur nel mutare delle concezioni fisiche e filosofiche, il vuoto si delinea sempre più come un altro nome dell’essere. Vuoto è infatti la condizione del movimento, del divenire, del tempo. Non soltanto nel banale e semplice senso che qualcosa per muoversi e diventare deve farlo in un elemento libero, spazialmente occupato e temporalmente non ancora compiuto ma anche e soprattutto in un significato assai più radicale, che questo importante libro indaga in una molteplicità di direzioni: dal rigore delle equazioni che intessono un intero capitolo (il settimo) ai riferimenti esatti e costanti alla storia della filosofia e alle tradizioni metafisiche orientali.
Il fecondo paradosso che attraversa tutto il testo è che il vuoto non è ‘vuoto’ ma consiste, usando il linguaggio della fisica contemporanea, nello «stato di minima energia» (p. 166); è il ground state, lo stato fondamentale che riempie uniformemente lo spazio e con il quale alla fine coincide. Il vuoto può dunque essere anche la forma oscura di materia ed energia che non è percepibile o misurabile (almeno con i nostri strumenti) ma che interagisce gravitazionalmente, determinando la struttura stessa della materia, la sua origine, il suo evolversi.
I nomi e le forme che questa potenza del vuoto ha assunto nelle differenti culture, tradizioni e paradigmi sono diversi, radicali e fondanti: l’ἄπειρον di Anassimandro, l’indifferenziato che consente l’esistenza e il dinamismo di tutti gli elementi nel tempo; la materia del Taoismo, dell’Induismo e del Buddhismo, non il mero nulla – anche qui – ma l’unità degli opposti; la χώρα platonica, «un elemento primordiale oscuro, informe ed invisibile» (p. 68); il Sein di Heidegger come trasparenza che fa vedere, attrito che fa muovere, intero che rende possibile la parte.
Un altro nome del vuoto è, infine, l’etere della millenaria tradizione fisica e metafisica, vale a dire la sostanza che pervade tutto l’universo e dentro la quale si muovono i corpi, compresa la luce. È sull’etere che questo libro formula ipotesi e propone interpretazioni di grande significato sia per la storia della scienza sia per l’epistemologia. Dall’indagine condotta in queste pagine emerge infatti come non sia vero che la relatività abbia definitivamente cancellato l’etere. Non soltanto perché, come si disse sin da subito, nella teoria einsteiniana dell’invarianza (o della relatività) l’etere continua a rimanere centrale prendendo il nome di spazio, ma per numerose altre ragioni sia sperimentali sia matematiche.
Lo stesso Einstein fu sulla questione molto più aperto di quanto di solito si pensi. Nel Manoscritto Morgan del 1920 e in una lezione tenuta a Leida  lo stesso anno, affermò infatti che «nel 1905 ero convinto che non fosse più permesso di parlare di etere in fisica. Tuttavia questa opinione era troppo radicale. Secondo la relatività generale, lo spazio è dotato di proprietà fisiche. In questo senso, un etere esiste…Si può perciò dire che l’etere è risuscitato nella teoria della relatività generale, anche se in una forma più sublimata. A differenza della materia ordinaria, esso non è pensabile come composto di particelle che possano essere seguite individualmente nel tempo» (qui citato alle pp. 100-101).
Consoli e Pluchino mostrano in modo documentato che se questa posizione non venne dallo scienziato tedesco ulteriormente sviluppata fu per ragioni che non hanno a che fare con la fisica ma con la sociologia della conoscenza e con la situazione storica della prima metà del Novecento. Di fatto oggi si assiste a un ritorno dell’etere «sotto altre specie, tramite la nozione di un condensato che pervade uniformemente lo spazio e fa da sfondo ai processi fisici osservabili. Peraltro […] il campo di Higgs non  è l’unica forma di etere che viene introdotta» (17).
Il vuoto non è il nulla, l’etere non è il nulla. Vuoto ed etere sono il vacuum condensation, la condensazione del vuoto, tanto che  diversamente «dallo spazio-tempo banalmente vuoto che Einstein aveva in mente nel 1905, il vuoto della fisica di oggi andrebbe piuttosto pensato come permeato da diversi condensati di quanti elementari» (140).
A partire da questa complessa e ricca fondazione epistemologica, Consoli e Pluchino conducono una duplice operazione: interpretano in modo diverso – rispetto alla vulgata – il significato e i limiti degli esperimenti di ottica effettuati da Michelson-Morley nel 1887; analizzano e riproducono tali esperimenti su base matematica. Mostrano in questo modo che i residui di quegli esperimenti – il cui obiettivo consisteva nell’osservare il moto della Terra nell’etere e stimarne la velocità – conducono a un valore di 370 km al secondo, che è esattamente quello confermato dallo studio della Cosmic Microwave Background (CMB, radiazione cosmica di fondo). La loro indagine suggerisce quindi di rivalutare alcuni elementi di quegli esperimenti che risultano compatibili con l’esistenza dell’etere, non riducendoli per intero a errori strumentali ma anzi mostrando che «possono anche essere consistenti con il modello stocastico di ether-drift che abbiamo discusso» (124). Si tratta di un risultato assai fecondo, dato che «riuscire a rivelare in laboratorio un ‘ether-wind’ (vento d’etere) finirebbe con il modificare sostanzialmente il nostro modo di concepire la realtà» (10).
I primi esperimenti di Michelson-Morley, e i numerosi che seguirono nei decenni successivi, se da un lato non diedero i risultati che ci si attendeva per poter confermare l’ipotesi dell’esistenza dell’etere, dall’altro diedero però dei risultati con essa compatibili. Riformulati con metodi matematici, questi risultati «differentemente dall’interpretazione tradizionale, che tende a considerarli come puri effetti strumentali, potrebbero invece acquistare un significato fisico ed indicare un debole flusso di energia, associato al moto cosmico della Terra, che induce correnti convettive in sistemi debolmente legati come i gas ed una conseguente leggera anisotropia della velocità della luce» (140-141). Ricordo che con anisotropia si indica quella proprietà per la quale il valore di una grandezza fisica dipende dalla direzione che il fenomeno studiato assume. Questo implica che un punto di riferimento conta nell’accadere e nei risultati del fenomeno studiato e che quindi siano possibili riferimenti assoluti.
Un altro elemento favorevole a questa ipotesi è una delle più interessanti interpretazioni della meccanica quantistica, vale a dire la teoria dell’onda-pilota di de Broglie-Bohm: «Nella sua formulazione più semplice, vengono introdotte due entità distinte: un corpuscolo materiale localizzabile ed un’onda che lo guida, la funzione d’onda Ψ che compare nell’equazione di Schrödinger. L’onda ha un diretto significato fisico ed andrebbe interpretata come una reale eccitazione di un etere sottostante, cioè del vuoto. Essa viene provocata dal corpuscolo ma, nello stesso tempo, lo ‘pilota’ nel senso che ne determina il momento spaziale P tramite la relazione P = −h∇S, dove S è la fase di Ψ = |Ψ|eiS» (164). In questo modo non soltanto si supera il dualismo onda/particella ma l’etere acquista lo stato di ipotesi ancora ben presente e ben plausibile all’interno della fisica contemporanea, un’ipotesi radicata nell’intera scienza e metafisica, non soltanto europee, e coerente con la meccanica quantistica.
L’etere può costituire l’ἄπειρον come campo/energia nel quale la materiatempo fluisce, si condensa, sta e accade. In termini generali, l’etere può rappresentare lo spaziotempo assoluto la cui esistenza non è affatto esclusa ma anzi è implicata da alcune delle teorie cosmologiche più recenti.
Il fatto che la meccanica quantistica conduca «a una visione della realtà come un tutt’uno profondamente interconnesso» (52) conferma il significato e la fecondità del pensiero greco arcaico, da cui matematica e fisica sono sorte e del quale – come si vede anche in questo libro appassionante – rimangono eredi.

Gli autori del libro – che si può scaricare in pdf – ne hanno scritto un altro, molto più tecnico, pubblicato nel 2018 in lingua inglese con la World Scientific.
Le loro ipotesi sulle relazioni tra l’etere e la radiazione cosmica di fondo erano state anche sintetizzate in forma semplificata e per un più vasto pubblico in un articolo in lingua italiana, inizialmente preso in considerazione da una rivista di divulgazione scientifica ma che poi per varie traversie non è stato pubblicato. Ne pubblico qui il pdf (con le mie evidenziazioni).
Si tratta di pagine che possono aprire un dibattito fecondo, anche nel caso si volesse respingere i loro contenuti. Significativa è la conclusione del testo, che indirizza alla questione della complessità. Se un articolo così fecondo non è stato ancora pubblicato è perché, oltre i meccanismi di censura e rifiuto analizzati magistralmente da Kuhn e Feyerabend, in questi casi agisce anche la consueta antropologia del branco, tesa a respingere i membri della comunità che mostrino troppo coraggio. Un coraggio che rischierebbe di mettere in pericolo l’identità e la forza della comunità stabilita. Insomma, che siano fisici, matematici, filosofi o altro, gli umani rimangono una comunità di primati. È bene che lo sappiano per non incorrere nella ὕβρις antropocentrica. Tanto più apprezzo chi, come Pluchino e Consoli, ha il coraggio e la curiosità di muoversi su territori non dogmatici e realmente scientifici.

[La fotografia raffigura il nostro pianetino, con la Luna che gli gira intorno, come si vede da Saturno;  a una distanza di circa un miliardo e mezzo di km, che corrispondono a 90 minuti luce]

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