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Paideia

Platone sta al centro della seconda tappa dell’itinerario di Werner Jaeger (1888-1961) dentro la forma-uomo ellenica. L’analisi delle opere della «più grande personalità di educatore apparsa nella storia del mondo occidentale» (Paideia. La formazione dell’uomo greco. II Alla ricerca del divino, trad. di A. Setti, La Nuova Italia, 1978, p. 40) permette di penetrare a fondo nella complessità dell’antropologia greca. Essa si fonda sull’assunzione della natura come norma e direzione dell’esistere di ogni ente. L’avventura umana consiste nell’aprire lo spazio di massima libertà consentito dalla struttura finita perché biologica della specie. Solo così si comprendono gli importanti legami e debiti di Platone con la medicina greca. Egli trovò la soluzione più originale al problema che muoveva tutta la cultura arcaica e che ha in Eschilo la sua espressione più chiara: l’uomo che erra lo fa perché indotto dagli dèi e tuttavia non per questo la sua colpa è meno grave. Platone contrappone alla forza di Ate la paideia, che ha come «presupposto la libertà della scelta, laddove il potere del demone appartiene al regno della necessità» (643). È qui che nasce l’individuo europeo e cioè la forma umana che oppone alla comunità, allo Stato, a Dio la propria irriducibilità  di singolo. A coloro, come Popper, che guardano con occhi moderni e prevenuti il progetto platonico, va quindi ricordato che «se lo Stato disegnato da Platone è Stato autoritario, ciò non deve però farci dimenticare che la sua fondamentale esigenza –inattuabile nella realtà politica- di fare della verità filosofica l’istanza suprema del potere, scaturisce in realtà da un immenso valore dato alla libera personalità spirituale, non già da un disconoscimento di un tale valore» (471-472).
Il fatto è che si sbaglia completamente prospettiva se si guarda al Platone politico separandolo dall’educatore, come anche viceversa. La centralità dell’impulso educativo da cui muove tutta la filosofia platonica è una cosa sola con l’esigenza di trovare una risposta al problema del potere. Fra individuo e comunità, società e psiche, Platone -come Socrate- instaura una dinamica di reciproca dipendenza per la quale l’uomo equilibrato può crescere solo sul terreno di una società giusta e questa è a sua volta frutto della giustizia nella coscienza del singolo. «Realizza il vero Stato nella tua psyché» (Repubblica 592 A-B) è il finale invito di Platone, con il quale l’unità arcaica fra il singolo, la famiglia, il clan, la polis, si spezza definitivamente.

Nonostante tutta l’importanza che attribuisce all’educazione, Platone «non crede alla uguaglianza meccanica dei suoi risultati, ma fa molto conto delle differenze individuali di temperamento» (404), sa che una precondizione è l’armonia tra intelletto e carattere; inserisce il fatto educativo nella più vasta dimensione sociale, ritenendo responsabili del successo o del fallimento l’intera comunità e non soltanto gli educatori; rifiuta sia la mera costrizione autoritaria come la riduzione del sapere a un gioco; è convinto, infine, con Socrate, che «l’educazione vera è il risvegliare facoltà che nell’anima sono sopite» (512). Proprio per tutto questo, la paideia si rivolge soltanto a coloro che promettono un qualche esito positivo e non a tutti indistintamente. Solo la prontezza nel capire, delle buone doti mnemoniche e specialmente una vera e propria avidità di sapere, richiedono e permettono la paideia. La selezione è quindi un prerequisito della pedagogia platonica, in modo che –al di là delle differenze di nascita, di classe e di sesso- sia la capace intelligenza della persona il criterio di un’educazione giusta.
Qualunque cosa si pensi della terapia platonica, la diagnosi è di grande verosimiglianza. La sua attualità dipende anche dalla perennità della natura umana, alla quale Platone riconosce la possibilità di cogliere il divino ma anche quella di albergare in sé un male profondo che solo la paideia può contenere. Anche per Platone, come per Nietzsche, l’ordine e la razionalità degli Elleni si ergono su uno sfondo di violenza e di furia. Per entrambi al centro sta il sapere, una scienza gaia, poiché «la conoscenza del significato delle cose è anche la forza creatrice che tutte le guida e le ordina […] e trasforma in un valore positivo tutto ciò che è vita, anche quello che sta ai confini oltre i quali il pericolo comincia» (297 e 306).
Il filosofo al potere -un progetto intessuto di convinzione profonda e di rassegnata malinconia- non ha quindi nulla di autoritario e neppure di professorale. Il filosofo è l’uomo formato nella paideia.

[Sul primo volume dell’opera: Educare
Sul terzo volume dell’opera: «Quell’antica luce risplende ancora»]

«Questo stato della mente si chiama intelligenza»

Fra le tante ragioni che rendono straordinari i dialoghi di Platone, una delle più significative è che in ciascuno di essi il platonismo si rispecchia ogni volta per intero. Il Fedone risulta anch’esso paradigmatico. «Indagare con la ragione e discorrere con miti» è il suo metodo (61 E; trad. di G. Reale). Entrambi convergono a dimostrare che non tutto muore in quel composto che chiamiamo uomo ma c’è una parte che partecipa soltanto della vita. Il filosofo impara progressivamente a morire fino a non temere più, anzi a desiderare di ricongiungersi finalmente con il divino di cui è parte.
Il giorno stesso in cui viene eseguita la sua condanna, Socrate insegna che la filosofia è esercizio della morte, amicizia con essa. Egli sa ed è certo che l’essere si articola in due forme «una visibile e l’altra invisibile» (79 A) e a esse corrispondono due livelli del comprendere, quello dei sensi che confondono l’essere con il sussistere e quello della mente che invece

restando in sé sola, svolge la sua ricerca, allora si eleva a ciò che è puro, eterno, immortale, immutabile, e, in quanto è ad esso congenere, rimane sempre con quello, ogni volta che le riesca essere in sé e per sé sola; e, allora, cessa di errare e in relazione a quelle cose rimane sempre nella medesima condizione, perché immutabili sono quelle cose alle quali si attacca. E questo stato della mente si chiama intelligenza. (79 D)

L’intelligenza rivolge la sua indagine a quei paradigmi di cui ogni cosa che è partecipa poiché senza di esse nemmeno sarebbe. Ecco fondata la metafisica, la ricerca del necessario nel contingente, del modello nella copia, dell’eterno nel tempo. Di questo sapere Platone è l’inventore, l’espositore più chiaro, il più formidabile ragionatore, con il quale la cultura europea ha dovuto fare i conti momento per momento, in un confronto che segna la storia del pensiero. Sulle ultime parole di Socrate -«Critone, dobbiamo un gallo ad Asclepio: dateglielo, non dimenticatevene!» (118 A)- Nietzsche formula un giudizio ironico e demistificante, scorgendo in esse il nascosto cuore nichilista di chi nell’esistere vede la suprema delle malattie. E tuttavia per Zarathustra come per Platone il sapere del corpo è la danzante armonia dell’essere: «la filosofia è la musica più grande» (61 A). Splendida, folgorante formula della vita.

«Sono a volte una persona felice»

Un grande privilegio di chi insegna consiste nel ricevere di tanto in tanto delle lettere scritte da allievi a distanza di anni, anche di molti anni. Ed è sempre una gioia. Ma quella che Francesca Arosio mi ha inviato qualche giorno fa è davvero particolare nella sua semplice radicalità. Autorizzato dall’autrice, la riporto qui per intero.
«Professore,
ho deciso dopo tanti anni di scriverle per ringraziarla.
Sono passati credo cinque anni dal mio ultimo giorno di scuola al Beccaria dove lei è stato il mio professore di filosofia per pochi mesi. Quei pochi mesi hanno determinato le mie scelte future.
L’anno scorso mi sono laureata in filosofia con un tesi sul rovesciamento del platonismo nella Ricerca del tempo perduto, quest’anno ho avuto modo di lavorare con il professor Zecchi sul superamento del nichilismo nell’opera di Proust.
Ricordo molto bene la sua ultima lezione al liceo, ha voluto parlarci di Proust. La ringrazio perché, in un certo senso, con le sue parole mi ha spinto ad amarlo. E ad amare la filosofia, come scelta di vita.
Insomma la ringrazio perché anche grazie a lei ora sono a volte una persona felice.
Francesca».
È la conferma che ogni parola del docente può essere l’apertura di un mondo, che la nostra responsabilità è grande, che insegnare è un dono. Proust, Platone, il nichilismo. Temi che possono da soli riempire una vita dedicata alla ricerca e alla riflessione. Una vita autenticamente umana. Ma qui c’è assai di più. C’è il raggiungimento di uno dei due obiettivi ultimi di ogni insegnamento e apprendimento: essere «a volte una persona felice». La filosofia è infatti questo: una ragnatela che il corpomente getta sul mondo per catturare la gioia. L’altro obiettivo è svelare l’enigma di questa nostra vita. Un enigma che mentre intuisci e comprendi il senso della parte e dell’intero, dell’ora e del sempre, dell’identità e della differenza, con ciò stesso ti regala l’istante della pienezza, la costanza di una faticosa ma inesorabile serenità.
Grazie a te, Francesca.

I Greci, identità e differenza

L’opera intelligente e monumentale che Einaudi ha dedicato ai Greci -quattro volumi in sei tomi- è tutta costruita sotto il segno dell’identità e della differenza. Salvatore Settis afferma che uno dei suoi obiettivi consiste nell’«imparare a riconoscere la grecità come estranea e familiare al tempo stesso» (I Greci. Storia Cultura Arte Società, vol. III I Greci oltre la Grecia, Einaudi 2001, pag. XXXV).
I Greci ebbero rapporti variegati e profondi con Traci, Sciti, Anatolici, Iranici, Indiani, Ebrei, Arabi, Iberi, Celti, Fenici, Egizi. Con questi ultimi, in particolare, il legame fu stretto e testimoniato in modo esplicito da Platone, il cui dualismo conserva importanti legami anche con la cultura indiana e iranica. Più in generale, la concezione greca del Tempo deve molto a quel «doppio aspetto tipicamente egiziano di sterminata estensione e di eterno ritorno [che] appartiene ai tratti tipici degli dèi egizi Ra, Ammone, Ptah e Osiride, confluiti in Serapide» (Assmann, pag. 431).
Profonde e complesse sono anche le relazioni fra la Grecità e il cristianesimo, l’Islam, Bisanzio. Roland Kany dimostra in modo convincente che «un cristianesimo senza grecità non è mai esistito» (569), non foss’altro perché i testi sacri di quella religione sono tutti scritti non nella lingua del profeta aramaico Gesù ma in quella del filosofo Aristotele. Non bisogna dimenticare che i roghi dei libri, pratica sconosciuta al mondo antico, cominciarono con l’imperatore Costantino, il quale fece bruciare i testi di Porfirio, avversario dei cristiani. La furia cristiana contro gli Èllenes costituì probabilmente la prosecuzione del giudaismo rabbinico che si opponeva con tutte le sue forze all’educazione “alla greca”, la quale «sottrarrebbe tempo allo studio della Legge ebraica» (Zonta, 682).
La differenza fra grecità e cristianesimo rimane così netta «che nel III secolo d.C. il termine ellenismos venne a designare presso gli autori cristiani il paganesimo nel suo insieme e non semplicemente o esclusivamente la cultura dei Greci» (Savalli-Lestrade, 41). L’identità ritorna in una delle eredità più tenaci che il mondo antico abbia trasmesso al cattolicesimo, mascherata ma non distrutta dai tre monoteismi vincitori, se si pensa che «i discendenti degli dèi antichi sono i nostri santi e non il dio unico delle speculazioni filosofiche» (Troiani, 224). Bisogna sempre stare attenti al rischio di «adeguare i Greci al nostro senso comune […]; una strada rassicurante che pone al riparo dal dover pensare il diverso e, più inquietante ancora, il diverso che ci appartiene, il diverso dentro di noi» (Lanza, 1462).
Per quanto studiati, amati, imitati, i Greci rimangono un’alterità radicale rispetto al mondo che li ha sostituiti. Se dovessimo adeguarci ai loro parametri antropologici, politici, religiosi, rimarremmo sconcertati da un radicale antiumanismo, da un’oggettività implacabile e lontanissima dal nostro sentimentalismo, dal loro disprezzo verso i tristi e i malriusciti. Ogni tentativo di accostarci a essi deve dunque partire dall’ammissione della loro radicale distanza. Ma senza questa differenza non ci sarebbe la nostra identità.

Eros

È uno dei dialoghi più perfetti. La struttura a incastro in cui i personaggi e i discorsi si inseriscono non distoglie dal vero scopo dell’opera, anzi lo mette maggiormente in risalto.
Eros è «un essere superiore all’uomo, un demone possente» generato dall’intraprendenza (Poros) e dal bisogno (Penia) (Simposio, 202d – 203b); è l’unione del possedere e del desiderare. In quanto intermedio tra sapienza e ignoranza, Eros è dunque filosofo (204 a). In ciò si differenzia sia dagli dèi che dagli stolti i quali, per opposte ragioni, non aspirano alla sapienza. Amore è tendenza al possesso sicuro del bene/bellezza, è ricerca dell’immortalità nei due diversi gradi della generazione biologica, che prosegue nei figli la vita dei genitori, e della generazione intellettuale, la quale soltanto assicura una sopravvivenza non troppo effimera.
Il lungo discorso iniziatico di Diotima conduce dalle cose belle alla Bellezza in sé, alla forma oggettiva ed eterna, della quale tutte le singole cose belle partecipano: «Ecco, l’uomo è giunto al termine: conosce il bello nella sua pura oggettività; quel bello che esiste nell’Essere» (211 c).
La straordinaria efficacia della scrittura, le definizioni dell’Eros e del Bello, la descrizione mossa e chiarissima dei costumi sessuali greci, sono alcuni degli elementi che fanno di questo dialogo platonico una delle più radicali espressioni del paganesimo.

Burckhardt, la storia

Sullo studio della storia
(Uber geschichtliche Studium [Weltgeschichtliche Betrachtungen, 1868-1873])
di Jacob Burckhardt
Trad. di Mazzino Montinari
Boringhieri, 1958
Pagine 310

In queste sue lezioni pubblicate postume nel 1905 -anche con delle manipolazioni1– Burckhardt rifiuta le concezioni storicistiche che interpretano il divenire storico come lo sviluppo progressivo di un’idea, di un valore, di una qualsiasi Provvidenza. Cerca, piuttosto, di vedere la storia nella sua più concreta e non garantita empiria, a partire comunque da tre grandi concetti: stato, religione, cultura.
Lo stato e la religione sono per Burckhardt elementi statici, di controllo, alla fine sempre oppressivi. La cultura, invece, è la dimensione dinamica, libera, viva e costantemente nuova. Essa è «la quintessenza di tutto ciò che si è formato spontaneamente per promuovere la vita materiale e come espressione della vita spirituale e morale» (pp. 42-43). In quanto tale, essa costituisce la critica delle altre due strutture, «l’orologio che rivela l’ora in cui la forma e il contenuto in esse non coincidono più» (74).
Attraverso ampie pennellate ed efficaci excursus, Burckhardt enuncia una serie di tesi che saranno condivise e rielaborate da Nietzsche, il quale in uno dei biglietti del 4 gennaio 1889 definì il collega basileese «il nostro grande, più grande maestro»2. Tra queste tesi: il pluralismo metodologico; la Grecia come il luogo dove cultura e arte hanno avuto i migliori esiti, senza che però questo implichi la romantica e «fantastica predilezione per una antica e idealizzata Atene» (151); il cristianesimo come tipica religione dei passivi e dei dogmatici, che non è stata nemmeno capace di migliorare la condotta morale dei suoi adepti; il riconoscimento del conflitto come elemento dinamico della storia; la critica alle società massificate, i cui membri si adeguano sempre a chi meglio garantisce loro «tranquillità e guadagni» (239). Alle masse Burckhardt contrappone le «individualità possenti [che] si impongono e indicano le direzioni» (80-81).
Oscillando tra pragmatismo e metafisica, disincanto e progetto, Burckhardt si pone alla confluenza di numerosi itinerari della cultura e del pensiero moderno. Lo studioso riservato, il silenzioso maestro, insegna a Nietzsche «che in generale non si valuti la vita terrena più di quel che merita» (193). Era la stessa convinzione di Platone: «Certo è vero che le vicende umane non meritano poi una grande considerazione, ma è anche vero che bisogna pur occuparsene, per quanto possa essere un compito ingrato»3. Questo compito è la storia.

Note

1. Nel 1998 Einaudi ha pubblicato una nuova edizione, presentandola con queste parole: «Le lezioni che Burckhardt tenne all’Università di Basilea tra il 1868 e il 1873, uno dei momenti salienti della moderna riflessione storiografica. Condotta sui manoscritti originali, la nuova edizione a cura di Maurizio Ghelardi restituisce gli appunti dello storico svizzero alla loro vera natura, facendo giustizia delle deformazioni nate dalle precedenti manipolazioni e riproducendo le frequenti osservazioni critiche che Burckhardt annotava in margine ai fogli».

2. F. Nietzsche,  Briefe. Januar 1887 – Januar 1889, in «Nietzsche Briefwechsel. Kritische Gesamtausgabe», herausgegeben von Giorgio Colli und Mazzino Montinari, vol. III/5, de Gruyter, Berlin-New York 1984, lettera 1245, p. 574. Nel recente quinto e ultimo volume della traduzione italiana dell’Epistolario (Adelphi, 2011) la lettera si trova a p. 889.

3. Platone, Leggi, 803 a, trad. di R. Radice.

Hic et nunc

«Come certi personaggi letterari sono costitutivamente esseri di fuga –basti pensare all’Albertine della Recherche-, così l’indagine filosofica sul tempo sembra mutuare dal suo oggetto il dileguarsi nel momento stesso in cui il tempo viene nominato.
La difficoltà non è soltanto teoretica o logica o empirica. L’ostacolo è anche esistenziale. Il tempo, infatti, è per gli umani l’altro nome della morte. E qui il nodo diventa talmente complesso da consentire a Platone di definire la filosofia come una preparazione al morire e a Spinoza di affermare che a nulla il saggio pensa meno che alla morte. E anche l’esatta prospettiva epicurea –per la quale il morire ci è precluso poiché si tratta di un incontro che il vivente non può che mancare, sin quando è vivente- nasconde e rivela una difficoltà quasi costitutiva da parte del pensiero di pensare la morte, poiché si pensa sempre qualcosa e mai il niente. Perfino il noumeno è soltanto un concetto-limite e quindi pensabile al confine tra il conoscibile e l’ignoto, ma la morte? E il tempo, che la sostanzia? Si tratta di due processi diversi o non è forse il medesimo divenire che mostra se stesso nell’esserci temporale delle cose e nel loro ultimo dissolversi e scomparire? Non è certo un caso se il filosofo che nel Novecento ha fatto del tempo e dell’essere il proprio oggetto privilegiato è anche colui che meglio di ogni altro ha tematizzato la morte. Finitudine e temporalità sono due categorie o due esistenziali o due processi che formano un vincolo concettuale ed esperienziale unico. Sono la vita nel suo esserci e nell’andare. Non possiamo comprendere il morire perché e finché siamo pensiero vivo in atto e vita pensata nel tempo. Ma dal non poter comprendere la morte scaturiscono numerose difficoltà, aporie, genericità nella riflessione sul tempo. Donando agli umani l’ignoranza sul quando della loro morte, Prometeo ha reso possibile le attività e il fervore della vita di ogni giorno ma ha anche posto un ostacolo alla comprensione della natura temporale dell’umano, della sua finitezza costitutiva e quindi precedente ogni morale, ogni religione, ogni pensiero della cosa. E dunque l’affermazione aristotelica secondo la quale l’uomo è l’essere vivente che possiede in sé la percezione del tempo (De anima, III, 433 b) significa in primo luogo che l’uomo è l’essere che conosce la propria finitudine e in essa abita, esattamente come il divino abita l’altrove. L’altrove che è il sempre».
(La mente temporale, pp. 205-206)

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