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Platone / Il piacere

Si racconta che in occasione di una lezione Sul Bene Platone si mise a parlare di numeri e di matematica, con stupore di chi lo ascoltava. Qualcosa di analogo accade a chi legga il Filebo. L’indagine sul piacere diventa indagine sulle proporzioni, la misura e la gerarchia dell’essere. Mediante le quattro categorie dell’illimitato, di ciò che limita, della mescolanza tra di loro e della causa, Platone dimostra il valore del pensare come forma suprema del piacere, quella che -circoscrivendone la potenza- rende davvero possibile il godimento dei piaceri, senza esserne sopraffatti. Alla misura di cui è permeata l’intelligenza non tutti possono accedere ma quei «pochissimi» sono degli uomini felici, la loro gioia è la gioia dei saggi:

Il pensare, l’avere intelligenza ed il ricordare, e poi le attività a queste affini, opinione retta e ragionamenti veri, sono più convenienti e più desiderabili del piacere, almeno per tutti quegli esseri viventi che sono in grado di prendervi parte: per tutti coloro che possono o potranno parteciparne, quelle sono le cose più vantaggiose di tutte.
(Trad. di Claudio Mazzarelli, in Tutti gli scritti, Rusconi 1991, 11 B-C)

L’intelligenza vince quindi su ogni altro piacere ma con due importanti precisazioni. Nel quotidiano -nella fatica del corpo, della natura e del sociale- è necessario che la rigidezza delle forme etiche sia sempre mescolata alle forme del piacere, per quanto soltanto alle più pure. Di più: il Bene trascende non solo il piacere ma lo stesso pensiero, di entrambi è l’altrove. Si delinea quindi una gerarchia assiologica che al suo vertice pone la misura -opposta a ogni hybris– e subito dopo, in ordine, il bello-proporzionato, l’intelligenza-pensiero, le scienze e l’opinione corretta, i piaceri della mente ma anche delle «sensazioni» (66 A-C). Piaceri e azioni “ignobili” vengono «affidate alla notte, come se la luce non dovesse vederle» (66 A).
Così vicino al cristianesimo per la tendenza a sottovalutare la corporeità, il platonismo si mostra comunque irriducibilmente pagano quando sostiene che non sia «ingiusto né invidioso gioire dei mali dei nemici» (49 D). Gioire del dolore dei nemici è quello che fanno i pagani, appunto, secondo l’esatta definizione che Jeshu-ha-Notzri dà di loro in Mt 5, 43-48. La dismisura morale del cristianesimo distrugge in realtà la possibilità stessa dell’etica. A essa Platone oppone la misura come armonia della ragione nell’uomo, come saggezza ordinatrice nelle cose.
Il dialogo è uno degli ultimi di Platone, secondo alcuni il penultimo prima del Timeo. Anche per questo il suo stile è solenne fin dalle prime battute, estremamente analitico nell’indagine, tripudiante nella certezza di avere ormai raggiunto una forma luminosa del pensare e dell’essere.

Identità e Differenza

Martin Heidegger
IDENTITÀ E DIFFERENZA
(Identität und Differenz, 1957: Der Satz der Identität; Die onto-theo-logische Verfassung der Metaphysik)
Trad. di Giovanni Gurisatti
Adelphi, 2009
Pagine 101

L’identità non è uguaglianza. Per la seconda sono necessari due termini, per la prima ne basta uno soltanto, «giacché mentre nell’uguale la diversità svanisce, nello stesso la diversità appare» (p. 58). Il rapporto dell’umano con l’essere e la relazione dell’ente all’essere sono caratterizzati da identità e non da uguaglianza. Essi si coappartengono perché rimangono diversi pur essendo l’identico, la cui identità consiste proprio in tale coappartenersi. Senza l’uno quindi non si dà l’altro, anche se l’uno non è l’altro se non nella relazione stessa che li fonda.
È certo «singolare», come riconosce Heidegger, che l’ente e l’essere vengano trovati a partire dalla loro differenza e nella differenza. Ed è proprio tale condizione a rendere del tutto inadeguata la struttura linguistica soggetto/oggetto che domina il Moderno, avendo la sua radice nella concezione dell’umano quale animal rationale.  “Soggetto” e “oggetto”, infatti,

sono già il prodotto di una specifica caratterizzazione dell’essere. Chiaro è soltanto il fatto che nel caso sia dell’essere dell’ente sia dell’ente dell’essere si tratta ogni volta di una differenza. Ne deriva che noi pensiamo l’essere in modo aderente alla cosa solo se lo pensiamo nella differenza dall’ente, e quest’ultimo nella differenza dall’essere. Soltanto così la differenza balza propriamente agli occhi. Se però tentiamo di rappresentarla ci troviamo subito indotti a concepire la differenza come una relazione che il nostro rappresentare ha aggiunto sia all’essere che all’ente. È così che la differenza (Differenz) viene ridotta a una distinzione (Distinktion), cioè a un artificio del nostro intelletto. (80)

Numerosi sono i modi nei quali il pensiero ha dispiegato l’oblio della differenza tra essere ed enti. È tale dimenticanza della differenza (Vergessenheit) -e non soltanto la differenza- che Heidegger intende pensare.
Un oblio che si è di volta in volta manifestato come «Fu@siv Lo@gov,  çEn, Ide@a, Ene@rgeia, sostanzialità, oggettività, soggettività, volontà, volontà di potenza, volontà di volontà» (87). In tutte queste determinazioni la metafisica mostra se stessa non soltanto come oblio della differenza ma anche come onto-teo-logia, che guarda o al fondamento comune degli enti (onto-logica) oppure alla totalità dell’ente supremo che fonda ogni cosa (teo-logica).
La concezione rappresentazionale dell’essere e l’oblio della differenza -in una parola la metafisica- arrivano per Heidegger al culmine nella tecnica, intesa come legittimazione del dominio di uno degli enti, l’umano, sull’intero.

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Arcaici / Ora

Gran parte delle moderne esegesi sui pensatori delle origini derivano da Aristotele e da Teofrasto, poiché la stessa dossografia greca trae dai due peripatetici le proprie informazioni, i testi, gli schemi. Il problema consiste nel fatto che Aristotele e la sua scuola sono molto lontani dalla dimensione dionisiaca, misterica, iniziatica che è propria del pensiero greco arcaico. Giorgio Colli sgombera anzitutto il campo da questa lettura per poi affidarsi alla propria sensibilità filologica e alla guida dei pochi che avrebbero «compreso qualcosa di vitale della Grecia»: Nietzsche e Burckhardt (La natura ama nascondersi. Φυσις κρυπτεσται  φιλει, Adelphi 1998 [I ed. 1948], p. 14). Che cosa questo significhi è ben esemplificato dal ritratto che emerge di Empedocle, assai vicino a ciò che Nietzsche è stato nella contemporaneità: «Il dramma è recitato con una maschera inalterabile, un sorriso melanconico e staccato accompagna la rivelazione delle verità più strazianti» (214). Più in generale, la grandezza dei filosofi arcaici è consistita in alcuni elementi che essi hanno posseduto in sommo grado, che Platone ancora conserva e che dopo di lui andarono perduti per riapparire ancora una volta al tramonto del mondo classico, con Plotino. Con quest’ultimo, infatti, «uno squarcio soltanto di vita presocratica basta a chiudere degnamente la grecità» (33).
Fra tali elementi, sono importanti la distanza, la libertà, l’interiorità, il dionisiaco.
Ciò che Nietzsche chiama pathos della distanza e gusto del gioco costituisce la radice della grandezza greca: «Il senso del distacco, l’essere sempre al di fuori di fronte a ciò che si presenta, l’opporsi ad ogni trascinamento e ad ogni livellamento» (22). Chi -come Protagora- proclama l’eguaglianza degli uomini si pone totalmente al di fuori dell’ellenismo più profondo. È per questo -per la sua vicinanza agli arcaici- che Platone è così ostico verso l’illuminismo democratico, «che tollera soltanto nel maestro», in Socrate (262).
Una libertà politica senza confronto permise ai primi filosofi greci di affermare delle verità terribili, di porsi con alterigia verso il potere e verso il demos, e ciononostante di vivere ancora: «Nessuna potenza terrena tollerò in seguito alcunché di simile» (24).
L’interiorità di questo mondo si esprime per Colli proprio in quella parola -φυσις- che la scuola aristotelica interpretò come principio materiale e che invece andrebbe letta come «interiorità noumenica» (179).
Del dio che sempre muore e sempre riappare nella sua gioia strabordante, nella sua passione tragica per la vita e per le cose -di Dioniso- tutto il pensiero arcaico è intriso. Per queste ragioni il giovane Platone è per Colli l’ultimo pensatore delle origini: «La sua teoria delle idee nasce ora come traduzione espressiva dell’esperienza dionisiaca che l’ha portato alla solitudine. La realtà ultima delle cose deve essere costituita da essenze αυτά καθ’αυτά, ossia da individualità perfettamente indipendenti, prive di ogni limitazione fenomenica, pure verità interiori, viventi una vita solitaria» (264).
Se tale è stato il mondo greco arcaico, due nomi ne riassumono la pienezza e il tramonto: Parmenide e, appunto, Platone. Il primo rappresenta un’oggettività senza cedimenti, una natura talmente piena di sé da vedere nel potere politico soltanto una forma infima dell’essere; il secondo prosegue e porta a compimento la vicenda e la forma del “maestro venerando e terribile” ma poi cede di fronte alla sua stessa altezza e finisce schiavo della passione e delle contraddizioni politiche. Parmenide fu quindi «staccato in una sfera eterogenea ad ogni espressione, autosufficiente e senza desiderio» (166). Platone colse il frutto di tanta potenza nel cammino filosofico che dal Fedone lo porta al Simposio passando per il Fedro. Poi però «concreto e sereno come nel Simposio egli non sarà più, perché qui soltanto raggiunge il suo fragile punto di equilibrio, e dovrà in seguito fatalmente scendere la china dell’astrazione. Un miracolo del genere è unico nella storia dello spirito» (289).
La  forza di Colli consiste nello sguardo profondo ed empatico del filosofo capace di trarre alla luce e rendere vive le parole di una sapienza antica. Il suo limite sta nella difficoltà che tuttavia emerge di unire sino in fondo il rigore filologico con l’approccio teoretico. È ciò che a Colli riuscirà comunque più tardi, allorché il lavoro critico su Nietzsche gli consentirà un cammino a ritroso da questi a Schopenhauer, a Spinoza, a Eraclito-Parmenide, per cogliere nell’anello del ritorno anche il ritorno della sapienza arcaica nel cuore della modernità all’apparenza più romantica e invece -nella sua essenza- dionisiaca, o almeno del dio ancora una bella maschera.

Filosofia e verità

Edmund Husserl
RICERCHE LOGICHE I

(Logische Untersuchungen I, 1900)
A cura di Giovanni Piana
Net, Milano 2005 (Prima edizione: Il Saggiatore 1968)
Pagine XLVII-494

Husserl definisce le sue Ricerche logiche un punto di inizio e non certo di arrivo, riferendosi in particolare alla VI, la più importante dal punto di vista fenomenologico. In questo primo volume compaiono gli ampi Prolegomeni a una logica pura e le Ricerche I e II. In esse si consuma un articolato distacco dallo psicologismo della prima opera di Husserl –Filosofia dell’aritmetica– mediante un’argomentata difesa della prospettiva logicistica.

A dire il vero, le tendenze sono soltanto due. L’una ritiene che la logica sia una disciplina teoretica, indipendente dalla psicologia e al tempo stesso una disciplina formale dimostrativa. Per l’altra, essa rappresenta una tecnologia, dipendente dalla psicologia, e con ciò si esclude naturalmente che essa possa avere il carattere di una disciplina formale e dimostrativa nel senso in cui, per la tendenza opposta, lo è in modo tipico l’aritmetica. (Prolegomeni, § 3, p. 27).

Le condizioni psicologiche della conoscenza di una legge non vanno infatti confuse con le sue premesse logiche. Una simile confusione renderebbe di per sé impossibile la distinzione tra un pensare corretto e un pensare erroneo, in quanto anche i modi errati del giudizio procedono senz’altro dalle condizioni psicologiche del pensare. Il cuore del discorso consiste quindi in una teoria del significato che si costituisca nel modo più formale possibile e per la quale la verità mostri di essere indipendente dalla mente -qualsiasi mente- che la pensa.
È questo il cosiddetto realismo delle Ricerche logiche, il quale non ha nulla a che fare con le forme ingenue di realismo ma, invece, con la gnoseologia platonica. Husserl cerca infatti una fondazione radicale, universale e certa della scienza. Cerca un’evidenza apodittica per la quale spiegare non significhi pervenire al generale attraverso il particolare, alla legge ideale mediante le intuizioni empiriche ma, al contrario, «rendere comprensibile il singolare a partire dalla legge generale, e quest’ultima a partire dalla legge fondamentale» (Introduzione alle Ricerche, § 7, p. 285).
La fondazione si radica nell’evidenza, senza la quale non c’è sapere. Un’evidenza categoriale e non empirica. Dei tre nessi che coniugano conoscenza e realtà -il nesso psicologico dei vissuti di coscienza, il nesso oggettuale delle cose teoreticamente conosciute e il nesso logico delle idee teoretiche che costituiscono la conoscenza- soltanto il terzo fonda per Husserl il luogo della verità, la quale è appunto indipendente da qualunque forma -umana, animale, divina, artificiale- di vita psichica e persino di realtà effettuale e si costituisce come puro formalismo delle regole e dei significati. La legge di gravitazione in quanto legge continuerebbe a valere anche se non ci fossero più o non ci fossero ancora masse gravitazionali. A venir meno sarebbe la sua applicazione fattuale e non il suo valore di verità.
Ogni scienza -e la scienza in quanto tale- «è una complessione ideale di significati» e non l’atto del significare; è -nei termini di Fregeder Gedanke e non das Denken: «Ciò che è essenziale e decisivo nella scienza non è il significare ma il significato, non la rappresentazione e il giudizio ma il concetto e la proposizione» (Prima ricerca, § 29, pp. 362-363). La scienza è scienza delle specie e non degli enti singoli, è scienza dei significati universali e non della «formazione fonetica pronunciata hic et nunc, questo suono fuggevole che non ritorna mai identico» (Prima ricerca, § 11, p. 309). Nelle formazioni linguistiche universali e nelle idee generali si realizzano la stessa specie e il medesimo significato che poi si differenziano nei momenti individuali e nei diversi casi empirici. Ancora una volta la realtà e la sua conoscenza sono sistole e diastole dell’identità e della differenza.

Le singolarità molteplici che formano il significato idealmente unico sono naturalmente i momenti d’atto corrispondenti del significare, le intenzioni significanti. Il significato si trova, rispetto agli atti singoli del significare (la rappresentazione logica rispetto agli atti rappresentazionali, il giudizio logico rispetto agli atti di giudizio, l’inferenza logica rispetto agli atti inferenziali) in una relazione simile a quella che il «rosso» in specie ha verso queste strisce di carta, che «hanno» tutte lo stesso rosso. […]
I significati formano, potremmo anche dire, una classe di concetti nel senso di «oggetti generali» essi non sono perciò oggetti che, se non si trovano in qualche luogo nel «mondo», si troveranno tuttavia in un tópos ourànios o nello spirito divino; una simile ipostatizzazione metafisica è infatti assurda. […]
In realtà: dal punto di vista logico i sette corpi regolari sono sette oggetti, così come i sette saggi; il teorema del parallellogramma delle forze è un oggetto così come la città di Parigi.
(Prima ricerca, § 31, pp. 368-369)

Una pagina, questa, assai vicina alla Teoria dell’oggetto di Meinong e nella quale il rifiuto del realismo metafisico di Platone si coniuga con la piena accettazione e condivisione del suo realismo concettualista. Il fondamento platonico dell’intero pensiero husserliano è del tutto evidente non solo nelle Ideen ma anche in queste Logische Untersuchungen. In esse la conoscenza delle leggi generali precede sempre quella dei fatti singolari; alla legge naturale come regola empirica viene contrapposta la legge ideale come legalità fondata sui concetti; viene posta una netta distanza tra le unità ideali -identiche ovunque- e i singoli segni linguistici nei quali esse si esprimono e che sono culturalmente differenti nello spazio e nel tempo.
Negli atti di riempimento dei significati è sempre necessario distinguere rispetto all’oggetto che viene percepito il contenuto semantico della percezione, poiché soltanto quest’ultimo è passibile di giudizio ed espressione linguistica. I numeri sono per Husserl indipendenti dall’atto empirico del contare, essi sono indipendenti persino dal fatto che siano espressi o pensati. Il logicismo antipsicologistico è quindi sotto il segno della teoresi platonica: «Nessuna arte interpretativa del mondo è in grado di eliminare gli oggetti ideali dal nostro linguaggio e dal nostro pensiero» (Seconda ricerca, § 8, p. 397).
Per lo Husserl delle Ricerche logiche la verità è del tutto ideale, non empirica e atemporale. A essere nel tempo e come tempo sono i fatti, non le leggi e i significati concettuali dei quali essi sono espressione. Leggi e significati sono fuori dal tempo, senza origine e senza fine. L’affermazione che segue è a questo proposito chiarissima:

Ciò che è vero è assolutamente vero, è vero «in sé»; la verità è unica ed identica, sia che la colgano nel giudizio uomini o mostri, angeli o dei. Le leggi logiche parlano della verità in questa unità ideale, di fronte alla molteplicità reale di razze, individui, vissuti, e noi tutti parliamo della verità in questa unità ideale, a meno che non siamo confusi dall’errore relativistico.
(Prolegomeni, § 36, pp. 132-133)

È da qui, è da tale concezione semantico-veritativa e logicistica del mondo, che discende il costante invito di Husserl a «tornare alle “cose stesse”» (Introduzione alle Ricerche, § 2, p. 271). Se le singole scienze e i diversi saperi hanno tutti bisogno della ricerca filosofica per raggiungere gli obiettivi di senso e universali che si propongono; se la filosofia scientifica rappresenta il culmine del sapere e della vita degli umani -in quanto dalle sue scoperte «è assente qualsiasi aspetto clamoroso; manca qui il riferimento utilitario, immediatamente percepibile, alla vita pratica o alla promozione di bisogni spirituali più elevati» (Introduzione alle Ricerche, § 3, p. 277)- è perché «la sistematicità propria della scienza, naturalmente della scienza vera ed autentica, non è una nostra invenzione, ma risiede nelle cose, e noi non facciamo altro che scoprirla e portarla alla luce» (Prolegomeni, § 6, p. 34).
La filosofia così intesa è gratuita come la matematica, indispensabile come essa, vera al suo stesso modo.

«Esperimento della perfezione»

Tonio Hölscher si chiede se quell’«esperimento della perfezione» che fu la Grecità sia alla fine riuscito. Risponde ammettendo che se «la “classicità” fu un’epoca di conflitti e di contraddizioni, il suo merito consiste appunto nel fatto di aver reso tali conflitti oggetto di decisioni culturali» (in Aa. Vv. I GRECI Storia Cultura Arte Società. Vol. II/2, Una storia greca. Definizione (VI – IV secolo), a cura di Salvatore Settis, Einaudi 1997, pag. 205). Mauro Corsaro nega che tramite la Lega delio-attica gli ateniesi perseguissero soltanto una politica di «omogeneizzazione forzata degli alleati alla loro costituzione democratica» (41). Secondo Corsaro bisognerebbe anche rivedere molti luoghi comuni sulla schiavitù, dato che «gli schiavi in effetti non erano del tutto privi di diritti e non erano affatto considerati, a differenza di quanto si legge talvolta, come semplici cose, come una parte di proprietà» (403).
In realtà, furono i Greci a cominciare a porre un freno -tramite il culto per il nomos, per le leggi- al potere della tirannide e all’arbitrio del potente. Essi seppero coniugare competizione e parità, conflitto e libertà, individualismo e collettività. Contrariamente a quanto sostiene Popper, l’interrogativo su “come si governa” affondava nel mondo arcaico e aristocratico, mentre nella nuova polis democratica cominciò «una riflessione pubblica sul […] tema del “chi governa”» (582).
I Greci erano certamente pagani, la loro pratica dell’amicizia aveva come norma aurea un comportamento che i vangeli condannano: «Aiutare nel modo migliore gli amici e danneggiare con ogni mezzo i nemici» (454). Questo era per loro giustizia. Del tutto legittimo era anche l’uso del corpo per trarre piacere, per suscitare ammirazione, per muoversi con forza, agilità, letizia nello spazio pubblico e privato. Una delle più tipiche e complesse espressioni dell’Atene classica –il platonismo- può essere compreso solo su questo sfondo, nel quale il singolo e la comunità interagiscono e confliggono ma dipendono sempre l’uno dall’altro; nel quale la componente politica del platonismo non è utopica –tantomeno totalitaria- proprio perché è in realtà una posizione antropologica ed etica. Anche in Platone, come nei Sofisti e in fondo come in ogni altro Greco, la forza della parola e la profondità del pensiero sono inseparabili, tanto che «in un certo senso, tutto il compito della filosofia consiste nell’appropriarsi della retorica, vale a dire nel fare della persuasione una qualità intrinseca della verità» (822).
In questo modo, i Greci ci hanno trasmesso uno dei modi fondamentali della conoscenza razionale: la dimostrazione more geometrico. Essi non furono forse degli scienziati nel senso professionale con cui intendiamo oggi tale attività ma furono degli epistemologi –e durante l’Ellenismo anche dei tecnologi- di altissimo livello, ai quali dobbiamo «le idee stesse di scienza esatta, di sistema assiomatico, di coerenza logica. […] Ancora di più, le idee stesse di verifica sperimentale e di ricerca empirica sono state esplicitamente tematizzate dai più grandi di questi filosofi e studiosi» (1203).
I Greci percepirono senza illusioni la finitudine che ci costituisce; il loro pessimismo arcaico non dimenticò mai la caducità di ogni cosa, ente, vita, desiderio. Da tale sfondo di melanconia e di oscurità, come Nietzsche ben comprese, nacque il loro bisogno di misura, il rifiuto della hybris come il più pericoloso dei mali. Per questo sulle metope del Partenone -non un tempio per il culto ma l’autodefinizione della città nel marmo- scorrono le immagini che mostrano «la lotta della padronanza di sé contro la sfrenatezza, dell’ordine contro il caos, della civiltà contro la barbarie, della cultura contro la natura» (1259). Ed è sempre per la stessa ragione che l’affresco di Raffaello dedicato alla Scuola di Atene mostra degli uomini «sopraffatti dalla gioia di apprendere» (1340).
Una delle ultime battute di questo libro afferma che «oggi ci è difficile, se non impossibile, condividere una fede come quella di Jaeger. Ma appare anche arduo farne a meno» (1351).

Giochi

Ho scelto la filosofia per motivazioni analoghe a quelle che mi avrebbero spinto verso l’astronomia, la geologia, la fisica e non verso la giurisprudenza, la medicina o l’economia. Per cercare di comprendere qualcosa che merita di essere conosciuto. Qualcosa che dunque non riguardi l’umanità.
E tuttavia Platone afferma che se «è vero che le vicende umane non sono degne di una grande considerazione, è anche vero che bisogna pur occuparsene, per quanto possa essere un compito ingrato. […] L’uomo è una specie di giocattolo costruito dal dio il cui valore propriamente sta solo in questa sua origine. Da ciò segue che ogni umano, maschio o femmina non importa, deve vivere giocando i giochi migliori» (Leggi, 803 b-c). La filosofia è questo gioco.

Angelo Anzalone. Gli umani, la luce

Ex Monastero dei Benedettini – Corridoio dell’Orologio – Catania
Il Tempo della Vita
Sino al 20 dicembre 2012

 

[Inserisco qui il testo critico che ho scritto per la mostra, che spero aiuti ad apprezzare l’opera di questo giovane fotografo]

L’immagine fotografica è luce diventata geometria. Sono quei tagli che feriscono lo spazio dandogli visibilità. È l’esistenza che si fa forma, idea, visione. Tre parole che nel greco di Platone sono una soltanto: Eîdos. Per il filosofo ateniese l’immagine fotografica sarebbe, naturalmente, l’ultimo e fragile riflesso della verità. E tuttavia è di questo riflesso che la filosofia vive, è questo debole bagliore di una luce assai più densa che millenni di pensiero, di scienza, di arte hanno indagato.
E dentro questo barlume gli umani. Essi appaiono nelle immagini di Angelo Anzalone come se fossero una sostanza sola con la luce che li esplora, li ferma, li conosce. Immobile per sempre è l’istante ebbro nel quale un’anziana donna ride soddisfatta e compiaciuta di ciò che ha davanti, una bambina scompigliata scruta l’enigma del mondo, un’altra emerge da uno spazio oscuro e circolare.
La luce intesse i singoli e i gruppi nel loro divenire quotidiano, nella pagnotta afferrata dalla fame, nel riposo su una panca, nell’acqua che scorre a dare frescura all’estate, nel ritorno dal mare o nel correre in bicicletta verso di esso. E soprattutto nella luminosità che invade un gruppo di anziani mentre gioca a carte, due muratori tra le loro porte, dei ragazzini con un pallone in un cortile assolato e desolato. Si tratta di tre foto impressionanti per nitidezza, potenza, simbolismo. Come se nel gesto dello svago e in quello del lavoro si fosse finalmente raggrumato il senso dell’esserci, dell’andare e dello stare al mondo.
Altre immagini descrivono linee, diagonali, cerchi, nei quali tre soggetti avanzano in prospettiva lungo una via, un uomo incontra due cani che si incrociano su una strada che procede a perdita di sguardo, un pastore diventa gioco di ombre mentre i suoi animali svaniscono sullo sfondo.
E poi le orme della polvere che siamo, lo scambio di due vite che da tanto stanno insieme ma che hanno ancora da dirsi guardandosi nei volti, l’immancabile santa e i suoi devoti. E i bambini, tanti bambini. Candidi e insieme violenti nelle azioni e negli sguardi. Sineddoche degli umani di Sicilia.
La realtà sta nell’occhio di chi guarda. E Anzalone imparerà a guardare sempre meglio e a restituirci con arte ciò che ha visto. Ma, intanto, le opere qui esposte disegnano una geometria in bianco e nero che sa fare del mondo pura luce. E, in essa, la speranza degli umani.

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