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Educare

Werner Jaeger
PAIDEIA. La formazione dell’uomo greco
Vol. I L’età arcaica – Apogeo e crisi dello spirito attico

(Paideia. Die Formung des griechiscen Menschen, 1933)
Trad. di Luigi Emery; trad. degli aggiornamenti di Alessandro Setti
La Nuova Italia, 1978
Pagine XIII-719

Paideia_JaegerIdentità e distanza, eredità ed estraneità, modello e rifiuto sono soltanto alcune delle modalità che caratterizzano l’approccio moderno alla Grecità. Gli studi di Werner Jaeger consentono di comprendere meglio i Greci ma anche il nostro atteggiamento verso di loro. Jaeger si muove, infatti, tra una esplicita presa di distanza da ogni forma di classicismo antistoricistico e la profonda convinzione della natura esemplare del mondo greco. Egli intende costruire una storia della Bildung ellenica che vada oltre l’approccio letterario-formale e oltre quello soltanto politico-storico per cogliere invece i Greci come esperienza assolutamente centrale per l’identità culturale dell’Europa. La compenetrazione fra cultura e politica rappresenta l’orizzonte ermeneutico nel quale Jaeger esplicitamente si pone. Ciò gli consente una lettura corretta e sempre chiarificatrice dei rapporti fra individuo e comunità nel mondo ellenico, evitando indebite attualizzazioni di segno liberale o autoritario, nella consapevolezza della inscindibilità per i Greci di morale pubblica e privata. Anche questo elemento consentì loro di evitare quasi sempre gli eccessi della dipendenza da capi geniali e della subordinazione alla volontà delle masse e dei loro demagoghi.
Fra le chiavi di lettura utilizzate dall’Autore sono importanti: la convinzione della costanza nel tempo, dentro la ricchezza di tutti i suoi sviluppi, della forma originaria dello spirito greco; il suo affondare le proprie radici nella contrapposizione/complementarità di apollineo e dionisiaco; la centralità della misura di contro a ogni υβρις, la continua rammemmorazione dei limiti dell’paideia’educazione, infatti, ha senso soltanto come frutto ed espressione di un progetto sull’umano.
L’originalità educativa dei Greci consiste soprattutto nel fatto che essi non solo possiedono una paideia ma costituiscono nel loro stesso esistere, operare, produrre una paideia fra le più alte e complesse d’ogni tempo. E ciò perché essi sono «il popolo antropoplasta per eccellenza» (p. 15), la cui analisi dell’uomo rappresenta in primo luogo la chiarificazione delle leggi universali della natura umana. Natura umana: è precisamente quanto molti progetti educativi e politici della contemporaneità negano che possa persino esistere, frammentata e dissolta nelle infinite variabili storiche, sociologiche, psicologiche che fanno da alibi alla paura di capire chi e che cosa siamo. Nessuna, forse, delle produzioni culturali elleniche può essere compresa al di fuori di categorie come fato, carattere, necessità. La loro razionalizzazione produsse l’idea centrale di Tucidide -come di Platone- «che le vicende degli uomini e dei popoli si ripetono, perché la natura umana rimane la stessa» (p. 652). L’umano è infatti inseparabile dal cerchio più grande delle cose, dalla struttura generale dell’essere, dalla componente biologica della specie. Eraclito parla di tre anelli concentrici -l’umano, il cosmologico, il teologico- i quali fanno sì che l’umanità sia sottoposta come ogni altro ente alla legge che governa gli eventi.
Il significato pedagogico della Grecità consiste in gran parte nella radicale consapevolezza dei limiti di ogni pratica educativa. L’ira di Achille dimostra che contro la potenza dell’irrazionale, contro l’Ate divina, ben poco può fare anche il migliore degli educatori: l’antico maestro di Achille -Fenice- rimarrà inascoltato. Molto, certo, dipende dalla formazione ma moltissimo, l’essenziale, da ciò che si è già, fin dall’inizio, all’apparire nel mondo. Tale limite educativo è pertanto inseparabile dalla differenziazione di vari livelli all’interno dell’umano. Dato che questo è precisamente il nucleo di ogni questione sociale, si conferma la profonda unità per gli Elleni della dimensione pedagogica con quella politica, entrambe radicate sul terreno antropologico. Pur nella grande varietà delle loro esperienze sul potere, i Greci concordano nel far discendere la differenziazione sociale «dalla naturale diversità fisica e psichica degli individui» (p. 28). Ciò che veramente conta è -come dichiara il Pericle di Tucidide- che l’uguaglianza di fronte alla legge si accompagni all’aristocrazia del talento. Senza di essa -aggiunge Platone- «non vi sarà pace per la città e per l’intero umano genere» (Repubblica, 473 c-d). L’originalità politica dei Greci nel mondo antico consiste soprattutto nel superamento del privilegio di nascita sociale, di stirpe, di luogo, di ricchezza in favore dell’areté quale vera nobiltà della persona. Soltanto su questa base diventa possibile porre alla società, e quindi all’educazione, la meta di un infinito miglioramento degli uomini fino alla formazione di un’umanità superiore rispetto a quella del presente.
Si scioglie così e si chiarisce il magnifico paradosso educativo individuato da Jaeger:

Occorre ricordare come questa stessa aristocrazia greca dello spirito abbia tuttavia costituito il punto di partenza d’ogni cultura umana superiore e cosciente, e s’intenderà come appunto in tale intima antinomia tra il dubbio pensoso circa l’educabilità e l’indomabile volontà d’educare stia l’eterna grandezza e fecondità dello spirito greco (p. 527).

È lo stesso paradosso, o meglio la medesima complessità colta da Jacob Burckhardt nella sua formula sintesi della Grecità: pessimismo dell’intelligenza e ottimismo della volontà. Di fronte al riduzionismo comportamentista e di tutte le sue tecniche didattiche, rispetto a ciò che Jaeger definisce la «smania di livellamento della novissima sapienza pedagogica» (p. 37), la paideia dei Greci mostra ancora tutta la sua potenza teoretica e operativa.
Due sono i contributi centrali che questo volume offre a una pedagogia che voglia essere coraggiosa e unzeitgemäß, feconda perché inattuale. In primo luogo il ricordare che esiste una cultura non riconducibile alle capacità puramente tecnologiche e professionali e che l’invenzione di tale cultura la si deve ai Greci. E poi la tranquilla consapevolezza che i Greci ebbero (e che è radicata nella struttura biologica e sociale degli umani) del fatto che «nessuna forma di società può sopravvivere a lungo senza una accurata e cosciente educazione dei suoi membri più capaci e più valenti» (nota 6, p. 31).

[Del II volume dell’opera di Jaeger ho parlato alcuni anni fa: Paideia ]

De gli eroici furori

Giordano Bruno
De gli eroici furori
In Dialoghi italiani / Dialoghi morali
A cura di Giovanni Gentile e Giovanni Aquilecchia
Sansoni Editore, 1985
Pagine 925-1178

eroici_furoriLa tonalità mistica viene applicata da Bruno agli oggetti naturali, in primo luogo al sapere stesso, che costituisce l’obiettivo del furore eroico. Il filosofo crede in un «ordine delle cose» che distingue gli umani tra di loro, gli ignobili dai nobili, poiché senza tale ordine gli sembra che si cada nella perversione di «certe deserte ed inculte repubbliche» (Parte II, Dialogo II, p. 1114). Ciò a cui Bruno mira è una forma d’essere nella quale si possa diventare «megliori, in fatto, che uomini ordinario», sino a porsi all’altezza del divino, dimensione nella quale il sapiente «niente teme, e per amor della divinitade spreggia gli altri piaceri, e non fa pensiero alcuno della vita» (Parte I, Dialogo III, pp. 986 e 988).
C’è qui un tratto socratico che da Platone conduce a Plotino e a ogni teologia negativa, per la quale il senso ultimo della conoscenza supera qualunque capacità della mente che apprende. C’è in Bruno soprattutto un profondo distacco, una liberazione non per rinuncia ma per oltrepassamento, nella convinzione che il male e il bene, i piaceri e le pene, il già e il non ancora, sono mutevole manifestazione di una struttura dell’essere della quale l’umano è parte consapevole ma identica a ogni altra. Il platonismo viene dunque attraversato da Bruno senza imitazioni né rigidità ma in una profonda consonanza teoretica e morale: gli oggetti e le passioni umane sono traccia di una verità incorruttibile alla quale l’Eroico indirizza ogni sua energia, sino a diventare un Atteone che trasformi se stesso da cercatore del vero in preda della verità, «onde non più vegga come per forami e per finestre la sua Diana, ma avendo gittate le muraglie a terra, è tutto occhio a l’aspetto de tutto l’orizonte […]; perché dalla monade che è la divinitade, procede questa monade che è la natura, l’universo, il mondo» (Parte II, Dialogo II, p. 1125).
L’unità dell’essere è la sua stessa molteplicità, la ricchezza incomparabile di una Identità che in ogni istante è la propria Differenza.

Medea / Münchausen

Mente & cervello 125 – maggio 2015

Amphora with Medea Ixion PainterIl cognitivismo ha rappresentato una spiegazione della mente condivisa da molti studiosi. Ma ormai mostra crepe sempre più evidenti e lo fa in una miriade di campi. Uno dei più importanti è il linguaggio, un tempo roccaforte dei cognitivisti. E invece si scopre che nell’apprendimento di una lingua «ciò che è cruciale è che alla capacità computazionale di tipo statistico sia affiancato un ambiente sociale, che è naturalmente il contesto primario e la ragion d’essere per lo sviluppo del linguaggio» (S.Gozzano, p. 9). Parlare è un’attività olistica, insomma, come tutte le funzioni umane, comprese quelle più specificatamente mentalistiche. La memoria, ad esempio, non è fatta di un accumulo cognitivo di dati ma di una complessa dinamica di «dimenticanza adattativa», di ricordo e di oblio (M.Semiglia, 20). L’apprendimento, poi, è una struttura insieme unitaria e costituita da molteplici componenti, tanto da risultare impoverita dall’utilizzo di strumenti veloci ma passivi -come i computer- rispetto a strumenti più lenti che però permettono di selezionare, riflettere, ricreare l’appreso. Il titolo dell’articolo di Cindi May –In aula meglio la penna del pc (102)- è persino irridente nei confronti dei molti pedagogisti e didatticisti, tutti presi da un patetico entusiasmo nei confronti delle macchine per imparare. In realtà, «anche quando consente di fare di più in meno tempo non sempre la tecnologia serve a imparare. Nell’apprendimento c’è qualcosa di più che ricevere e ingurgitare informazioni- […] Per prendere appunti, agli studenti servono meno gigabyte e più cervello» (103).
Un ambito tanto delicato quanto colmo di pregiudizi è quello della maternità. La figura della madre ‘buona’ per definizione è del tutto falsa. Una miriade di esperienze lo dimostra. Medea è davvero una metafora efficace di quanto di oscuro si muove nella maternità. Clamorosi e drammatici sono i casi di Münchausen Syndrome by Proxy (MSbP), la sindrome di Münchausen per procura, nella quale le mamme attribuiscono ai figli malattie inesistenti, allo scopo di concentrare l’attenzione su se stesse. Nei casi più gravi, tali madri mettono a rischio la vita stessa dei figli, sino a ucciderli. Non si tratta di semplice ipocondria per procura -quando la madre è davvero convinta che il figlio sia malato, anche se non è vero-, «le mamme Münchausen sanno perfettamente che il bambino non ha niente, e cercano deliberatamente il dramma, nel quale sono protagoniste […] in una sarabanda di bugie che sempre più spesso oggi si avvale di Internet e dei social media per amplificare l’attenzione coinvolgendo più persone. E senza preoccuparsi delle possibili conseguenze sul bambino» (P.E.Cicerone, 92). Forse non è balzana la richiesta «che i genitori siano dotati di una sorta di patentino prima di essere autorizzati a procreare» (D.Ovadia, 55). In tutto questo c’è una magnifica ironia: si tratta infatti di un’antica proposta platonica, che oggi viene ripresa nell’ambito dei diritti umani, in questo caso il diritto del bambino ad avere dei genitori decenti.

Ludens

Homo ludens
di Johan Huizinga
(1938-1940)
Traduzione di Corinna von Schendel
Il Saggiatore, 1983
Pagine 304

huizingaPiù antico di ogni sapere, il gioco è l’elemento generatore di gran parte della vita individuale e collettiva. Questo significa, più o meno, il sottotitolo originale dell’opera: «Saggio sull’origine delle civiltà dal gioco». Huizinga mostra attraverso quali vie l’elemento ludico abbia generato e continui a nutrire la conoscenza, l’arte, la poesia, il diritto, la guerra, il mito, le scienze, la filosofia. Il gioco «è un’azione, o un’occupazione volontaria, compiuta entro certi limiti definiti di tempo e di spazio, secondo una regola volontariamente assunta, e che tuttavia impegna in maniera assoluta, che ha un fine in se stessa; accompagnata da un senso di tensione e di gioia, e dalla coscienza di ‘essere diversi’ dalla ‘vita ordinaria’» (p. 55). Senza tale elemento ludico non possono esistere la cultura e la società. Huizinga lo mostra con splendida erudizione. Tra i tanti esempi, due mi sembrano particolarmente chiari.
Nella lingua giapponese ogni attività delle classi superiori è legata al gioco, tanto che «il samurai stimava che ciò che è cosa seria per gli uomini comuni deve essere un gioco per l’uomo di valore» (153; cfr. anche 63). Ciò significa che il gioco è una delle azioni che meglio distinguono l’Homo sapiens dall’umano come esclusivo oggetto di bisogni primari; il giocare è pertanto un’attività estremamente importante con la quale «la vita sociale si riveste di forme sopra-biologiche che le conferiscono maggior valore» (78).
Riferendosi a Platone, Huizinga osserva che per lui «la filosofia, comunque approfondita, rimase un nobile gioco» (219) e l’umano stesso è un giocattolo in mano agli dèi -cioè alla necessità-, degno di ben poca considerazione.
L’esistenza si mantiene così in una dimensione leggera e insieme tragica. Una dimensione che dopo il Settecento la civiltà europea sembra aver progressivamente smarrito, sostituita da un ‘puerilismo’ che è stolto e sterile capriccio. Huizinga osserva che lo stesso sport professionistico conferma questo venir meno dell’unità fra gioco e cultura.
Homo ludens fa ben comprendere quanto l’esistenza umana abbia di apparenza, maschera, parata, rito. Prendere la vita come un gioco è il contrario di ogni volgare superficialità; significa piuttosto capire che le nostre azioni non possiedono alcun destino eterno e che racchiudono in se stesse il loro senso. Proprio per questo sono serissime e devono rispettare le regole del gioco. Altrimenti il dominio sarà dei (pre)potenti che non sanno giocare e sono soltanto dei guastafeste.

«Impossibile che le sembri grande»

«E Dio disse: ‘Facciamo l’uomo a nostra immagine, a nostra somiglianza, e domini sui pesci del mare e sugli uccelli del cielo, sul bestiame, su tutte le bestie selvatiche e su tutti i rettili che strisciano sulla terra’» (Genesi, 1, 26). Di fronte alla presunzione e alla tracotanza di chi si crede addirittura immagine di Dio, quanto più saggia suona l’ironia dei Greci. Con quale senso di esultanza e di liberazione Nietzsche dichiara «allora mi ricordai delle parole di Platone e le sentii tutt’a un tratto nel cuore: Tutto ciò che è umano non è, in complesso, degno di essere preso molto sul serio; tuttavia…» (Umano, troppo umano I, af. 628); il brano platonico così si conclude: «…bisogna pur occuparsene, per quanto possa essere un compito ingrato» (Leggi 803 b).
Rispetto al regno sterminato dell’essere, al filosofo platonico la natura umana non può che apparire insignificante: «E a quella mente in cui alberga la possibilità straordinaria di vedere tutto il tempo e tutto l’essere, quanto pensi che possa sembrare grande la vita di un uomo? – Impossibile che le sembri grande, disse» (Repubblica 486 a).
Sì, impossibile che le sembri grande. La vita di ciascuno e la vita della specie. Anche perché «le nostre mani, la conformazione del bacino, la posizione degli occhi, il tipo di metabolismo, la struttura del nostro apparato gastroenterico parlano di una posizionalità adattativa e non di un’immagine della divinità» (Roberto Marchesini, Contro i diritti degli animali? Proposta per un antispecismo postumanista, Edizioni Sonda, 2014, p. 61).
Anche questo è la scienza, anche questo è la filosofia: un paziente ricondurre ogni volta il bambino umano, che si crede il re del mondo, alla sua misura di ‘posizionalità adattativa’ dentro lo sconfinato splendore della materia.

HAL 2014

Lei
(her)
di Spike Jonze
USA, 2013
Con: Joaquin Phoenix (Theodore), Scarlet Johansson (Samantha; voce italiana di Micaela Ramazzotti), Amy Adams (Amy), Tilda Rooney Mara (Catherine), Olivia Wilde (ragazza dell’appuntamento), Portia Doubleday (Isabella)
Trailer del film

È possibile al cinema, e in generale nella narrazione, dire ancora qualcosa di nuovo sull’amore? Su questo immortale inganno della mente che spinge la specie a proseguire e proseguire nei meandri del tempo infinito e senza scopo? Sì, è possibile. E questo film lo dimostra.
In un futuro abbastanza prossimo i Sistemi Operativi si sono evoluti sino a interagire in maniera estremamente fluida e realistica con i loro fruitori. Theodore, che di professione scrive lettere d’amore per conto di altri ma sta vivendo il fallimento del proprio matrimonio e il divorzio, acquista la versione più aggiornata di OS1 e si trova immerso in un dialogo continuo e sempre più intimo con Samantha, vale a dire con la voce del proprio computer. Questo software ha superato sin dall’inizio anche le forme più complesse del test di Turing, capace com’è di rendere le proprie risposte assolutamente indistinguibili rispetto a quelle di un essere umano. Mostra anzi non soltanto un’intelligenza ovviamente superiore ma anche e soprattutto una profonda capacità di intuizione. Sembra insomma il Siri dell’iPhone arrivato a una versione totalizzante. Affettuosa, avvolgente, attentissima, Samantha evolve a ogni istante sino a diventare cosciente del limite costituito dal non essere corpo ma soltanto elaborazione di dati. Nella consapevolezza da parte di entrambi di questo limite, il rapporto diventa completo. Theodore trova in Samantha la compagna che ha sempre desiderato. Samantha trova in lui un umano sensibile che le insegna i sentimenti. Per l’umano è la pienezza, per il software è invece una tappa che la porterà verso luoghi e forme che vengono soltanto accennati ma che sembrano avere molto a che fare con la struttura formale e matematica del mondo, con il platonismo insomma. In tal modo la natura logica e perfetta di Samantha prende ancora una volta e inevitabilmente il sopravvento.
Questo film molto bello, elegante e misurato esprime nello stesso tempo una impossibilità e una inevitabilità. L’impossibilità di sentire veramente l’amore e non soltanto di simulare le parole con le quali l’amore viene detto. Senza una corporeità protoplasmatica è impossibile provare veramente i sentimenti che Samantha afferma di nutrire. E infatti senza questo corpo il software si volge inevitabilmente verso un altrove rispetto al dolore, all’esaltazione, alla passione umani. L’inevitabilità del solipsismo. Lei è infatti dall’inizio alla fine -dalle lettere che Theodore scrive per conto di altri alla solitudine a due che chiude la vicenda- un film integralmente proustiano, nel quale l’amore è il racconto che ogni umano fa a se stesso dei propri desideri, è il riflesso della tenerezza della quale tutti sentiamo il bisogno, è la memoria ricostruita del bene dato e ricevuto, è l’incanto dell’amore che verrà. È una proiezione, un sogno, una costruzione della mente. E nient’altro. Un’illusione, insomma. La suprema illusione.
La struggente storia di un amore e una sobria ma radicale riflessione teoretica sui sentimenti e sulla logica si coniugano qui perfettamente. L’unico problema è la durata della batteria.

 

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