Mente & cervello 105 – settembre 2013
Ha poco senso subordinare il linguaggio al pensiero o viceversa. Ha poco senso perché entrambi sono la manifestazione privata e pubblica, interiore e oggettiva, della potenza semantica che caratterizza la nostra specie. Il linguaggio è scandito nel tempo, le parole vengono pronunciate l’una dopo l’altra a formare delle frasi che compongono a loro volta una descrizione, un’analisi, delle narrazioni. Il carattere sequenziale del linguaggio è anche un dato tecnico, che però si fonda sulla struttura della mente umana, la quale non è nel tempo ma è essa stessa temporalità vivente, rammemorante, intenzionale.
Ha quindi ragione Charles Fernyhough a ritenere che il pensiero sia «fatto di parole tanto che i bambini prima di imparare a parlare non hanno veri e propri pensieri» (cfr. R. Fulci, p. 21). Il pensare è un fatto intrinsecamente linguistico, che produce sia le percezioni sia la memoria. Lo dimostra anche il celebre esperimento del “gorilla invisibile” che passa in mezzo a dei giocatori di basket e che pochi spettatori vedono, poiché «le nostre intenzioni, i bisogni e le aspettative influenzano ciò che percepiamo. […] Il cervello è tutt’altro che passivo nei confronti dell’ambiente: seleziona, sceglie e rinforza solo quello che vuole vedere» (D. Ovadia, 81-83). Non esiste insomma alcuna «immacolata percezione», per ricordare la battuta di Robert Kaplan, nonostante l’imperversare mediatico di realismi vecchi e nuovi.
Per un continuista come me è sempre una soddisfazione trovare conferme ai nessi profondi tra l’animale umano e gli altri. In questo numero di Mente & cervello ce ne sono due piuttosto significative, che riguardano entrambe la memoria, persino quella “involontaria” analizzata da Bergson e Proust. Scimpanzé e orangutan sembrano in grado di «ricordare immediatamente in quale scatola cercare uno strumento visto in un’unica occasione, un’esperienza ripetuta solo quattro volte e vissuta tre anni prima» Davvero «l’elenco delle straordinarie affinità con i nostri cugini primati continua ad allungarsi» (E. Melotti, 22). Se i primati sono filogeneticamente vicinissimi all’Homo sapiens, non altrettanto si può dire della planaria, un piccolo verme piatto del quale è nota da tempo la capacità di rigenerare la propria testa dopo che essa è stata tagliata, «il bello è che l’individuo con la testa nuova ricorderà le nozioni imparate prima della ghigliottina» (R. Fulci, 23). Il biologo Michael Levin, che insieme ad altri colleghi ha verificato questa capacità, afferma che «una cosa è certa: abbiamo dimostrato lo straordinario fatto che la memoria sembra essere conservata da qualche parte al di fuori del cervello» (cit. da Fulci, 23).
Gli studi di Antonio Damasio, e in generale la filosofia della mente, sanno che a pensare è l’intero organismo. La mente dipende dalle interazioni tra il cervello e il corpo e quindi è dall’intero corpo che essa scaturisce e non soltanto da un suo specifico organo. La mente, in altri termini, è pienamente e integralmente embodied, incorporata, e non costituisce solo una funzione del cervello. Di questa mentememoria corporea Nietzsche era del tutto consapevole:
Non esiste un organo specifico della “memoria”; tutti i nervi, per esempio della gamba, si ricordano di precedenti esperienze. Ogni parola, ogni numero è il risultato di un processo fisico che in qualche posto si è stabilizzato nei nervi. Tutto quello che è stato assimilato organicamente nei nervi, continua a vivere in essi. Vi sono onde condensate di eccitazione, quando questa vita ulteriore penetra nella coscienza, quando cioè ci ricordiamo di qualcosa.
(Frammenti postumi 1879-1881, in «Opere» Adelphi, vol. V/1, fr. 2 [68], p. 301)