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Picasso / Segni

Picasso e le sue passioni
Castello Ursino – Catania
A cura di Stefano Cecchetto e Dolores Durán Úcar
Sino al 28 giugno 2015

Duecento opere di Picasso. Soprattutto incisioni. Varie ceramiche -vasi e piatti- e alcuni oli. Tutte opere che si dipanano in mezzo ai segni greco-romani e medioevali del magnifico Castello voluto a Catania da Federico II.
picasso_baccanale_1955Tra questi antichi spazi emergono le tauromachie, dove la crudele e inaccettabile morte del toro si trasforma anch’essa in segno. Nel semplice e bellissimo Baccanale del 1955 vi è il segno mediterraneo: il mare, il verde, le colonne, il canto, la luce. I Vingt poèmes de Gongora sono il segno poetico. I segni delle ceramiche dipinte trasformano questi oggetti in enti semantici e non soltanto d’uso. Il più suggestivo è una brocca con fondo nero sul quale si staglia un Picador. picasso_picador_1952Il segno geometrico vive nella serie dedicata alla Carmen, incisioni senza sangue, senza passioni, senza amore, senza dolore, pura forma. Il segno figurativo è in cinque incisioni a colori di impianto neoclassico, tra realismo magico e puntillismo. Il segno politico domina nella Figura di donna ispirata alla Guerra di Spagna, non presente in mostra ma visibile in una installazione che ne spiega la forte valenza antifranchista, con questa «dama dal culo cristiano che getta delle monete ai soldati mori difenpicasso_Figura de mujer inspirada en la guerrasori della vergine». La mostruosità della figura umanoanimale -simbolo della nobiltà spagnola di fede cattolica che esulta per la vittoria del dittatore- è il segno atroce del potere.
Il segno, infine, della scrittura nella quale Picasso disse che «no, la pittura non è stata inventata per decorare appartamenti. Essa è un’arma di offesa e di difesa dal nemico».

Chagall, il coro umano

Marc Chagall
Una retrospettiva 1908-1985
Palazzo Reale – Milano
A cura di Claudia Zevi e Meret Meyer
Sino al 1 febbraio 2015

Chagall-Composizione-con-cerchi-e-capra-1920-Imponente riepilogo dell’opera di questo longevo Maestro (1887-1985), la mostra milanese ne percorre la vicenda dal villaggio russo della giovinezza alle capitali del mondo -Parigi soprattutto- nelle quali Chagall ebbe la fortuna di vedere riconosciuto da vivo il proprio valore. Si può, in questo modo, osservare la costanza nella differenza. Costanza nei temi -i contadini; gli animali simbolici come la capra, il gallo, l’asino, la vacca; la coppia; i riti ebraici-, differenza nelle forme, nel percorso dentro molti stili ma sempre con una inconfondibile spazialità capovolta e dinamica. I risultati più coinvolgenti miChagall_Don-Chisciotte_HD_1973 sembrano quelli segnati dal cubismo e da variabili geometrie. Mano a mano che si procede dentro l’opera e dentro il secolo, i colori diventano sempre più accesi, cupi, profondi; il simbolismo ebraico-cristiano sempre più pervasivo; la materia pittorica sempre più raggrumata sulla tela.
Rispetto alle assai conosciute spose volanti e rabbini preganti, tre opere spezzano un poco la monotonia simbolica. Un Bue squartato che è quello di Rembrandt ma sullo sfondo di un villaggio russo (1947), la Composizione con cerchi e capra (1920) frutto dell’iniziale slancio delle avanguardie post-rivoluzionarie, un quadro che va al di là del sogno e della felicità, cogliendo la pura forma come senso del dipingere; il Don Chisciotte del 1974, un dipinto storico e cosmico la cui struttura si ispira a El Greco e riassume la coralità che costituisce la vera cifra dell’opera di Chagall.

Archetipo / Altero / Ascetico

Il volto del ‘900. Da Matisse a Bacon. Capolavori dal Centre Pompidou
Palazzo Reale – Milano
Sino al 9 febbraio 2014

Brancusi_Musa_addormentata_1910I “fatti” non hanno alcuna autonomia ontologica ma assumono senso –e quindi per noi si verificano, li vediamo, li viviamo- solo in un ambito di rilevanza situazionale, in un contesto fenomenologico ed esistenziale che è sempre superiore alla somma dei singoli enti, eventi, cose. Una faccia -l’insieme di fronte, occhi, orecchie, zigomi, naso, labbra, mento- non è ancora un volto. E neppure uno sguardo lo è. Lo sguardo, infatti, è l’intenzione comunicativa di una faccia. Il volto è l’interpretazione / costruzione che della faccia e dello sguardo fa chi la osserva. Una faccia è atomistica, separabile in parti. Un volto è l’intero.
Bacon_Michel_Leiris_1976Di questo intero la pittura ha da sempre cercato il segreto. E soltanto la pittura e la grande fotografia possono in effetti riuscire a coglierlo. Il volto archetipo, silenzioso e perfetto della Musa addormentata (Brancusi, 1910) si distende in un sogno orizzontale fatto di luce e di oro, di forme sobrie e perfette, di una calma che dura. Il volto altero, vissuto, dinamico di Michel Leiris (Bacon, 1976) sembra moltiplicarsi a ogni istante; sembra ripetere le sue forme in un qualche altrove appena scoperto; sembra sezionarsi, frangersi, tornare come le onde di un oceano di figure. Il volto ascetico, materico, immerso di Asaku Yanaihar (Giacometti, 1956) colma lo spazio e riempie il tempo come una sacra icona, simulacro venerato da un’umanità diventata ologramma, che in essa riverisce il proprio capostipite.
Il volto del Novecento -e oltre- che questa mostra documenta e testimonia ha tolto al soggetto tutto il peso Giacometti_Asaku_Yanaihar_1956sciocco del suo narcisismo individuale e di ceto, lo ha frantumato nelle discariche della materia, lo ha letteralmente distrutto, per restituirgli però una sacralità completa e inquietante di fronte alla quale vien fatto di sostare come davanti all’immagine di un dio.

 

Nostalgia della luce

L’infinito nel finito
Paolo Zermani, Giovanni Chiaramonte, David Simpson e foto di scena da film di Andrej Tarkovskij
Centro Culturale San Fedele – Milano
A cura di Andrea Dall’Asta SJ
Sino al 2 febbraio 2013

Nostalghia (Andrej Tarkovskij, 1983) fu girato nella luce di alcuni dei luoghi più mistici dell’Italia centrale e la luce è ciò a cui ciascuno dei personaggi tende come alla vera dimora dell’umano. In questa mostra intima ed essenziale, le foto di scena di quel film si coniugano alle calde architetture di Paolo Zermani, alle geometriche fotografie di Giovanni Chiaramonte e ai dipinti monocromatici di David Simpson. Di essi, il curatore Andrea Dall’Asta scrive che «mostrano una particolare capacità di diffondere la luce, in quanto mescolati a un composto particolare di titanio e di cristalli. […] La superficie del quadro sembra scomparire, diventando vibrazione luminosa che non può essere catturata o imprigionata».
Immagini e strutture nelle quali lo spazio mostra di essere il tempo, la forma presente del tempo. In una di esse la luce fende la tenebra come una lama dentro il dolore di esserci. Lo stesso dolore di Nostalghia.

La pittura

Picasso. Capolavori dal Museo Nazionale Picasso di Parigi
Palazzo Reale – Milano
A cura di Anna Baldassari
Sino al 27 gennaio 2013

Quasi un intero secolo (1881-1973) attraversato e vissuto nell’inventare forme, stili, colori, drammi e sogni. Ventenne, Pablo Picasso (il cui nome completo è un fluviale Pablo Diego José Francisco de Paula Juan Nepomuceno María de los Remedios Cipriano de la Santísima Trinidad Ruiz Picasso) visita Parigi e scopre l’arte del secolo appena cominciato. Scopre se stesso. A formarlo sono Impressionismo, Espressionismo, Gauguin ma anche El Greco e soprattutto l’arte tribale africana e oceanica. È così che inizia una concezione panica e panteistica dell’essere, dell’umano e dell’arte. Concezione che Picasso conservò sempre ed è già assai chiara in un Paesaggio con due figure (1908) nel quale gli umani sono del tutto immersi nella physis vegetale, in una serena e potente unione con le forze ctonie del mondo [cliccando sull’immagine si noteranno meglio le due figure].
Ma per Picasso tutto -natura, umanità, oggetti, storia- è pronto a farsi tratto, colore, segno. Una volta disse che «la natura non si può tradurre in pittura se non attraverso dei segni». L’arte contemporanea è caratterizzata anche dalla capacità di trasformare in segno qualunque cosa sia a portata di mano. Manubrio e sellino di una bici diventano, per esempio, una magnifica Testa di toro (1942).

La pittura di Picasso si fa spesso scultura, come in Michelangelo, e le sculture assumono la lievità di un dipinto. Dopo i colori vivacissimi degli anni Sessanta, uno degli ultimi dipinti è il grigionero di Le jeune peintre (1972). Questo giovane artista è in realtà uno spettro, è la morte/pittura che viene a prenderlo.
Dopo la leggendaria mostra del 1953, l’artista andaluso è tornato a Milano con circa 250 opere del Musée National Picasso di Parigi. Stavolta non c’è Guernica, che comunque viene proiettata e indagata nella stessa Sala delle Cariatidi che la ospitò sessant’anni fa. Il percorso della mostra è lineare e arioso; ogni sala è presentata in modo discreto, con i suggerimenti essenziali per comprendere le opere esposte.
Attraversando cubismo, classicismo, surrealismo e tutti gli altri momenti poco classificabili di questo artista senza dogmi, se dovessimo chiedere “Qual è lo stile di Picasso?” la risposta sarebbe “Nessuno”. Lo stile di Picasso è la pittura.

La carne dei volti

Raffaello verso Picasso. Storia di sguardi, volti e figure
Basilica Palladiana – Vicenza
A cura di Marco Goldin
Sino al 20 gennaio 2013

Un profluvio di pittori, di dipinti, di epoche artistiche. Non manca quasi nessuno tra i nomi più importanti della pittura europea tra il Quattrocento e il XX secolo. Tranne Antonello da Messina, Hieronymus Bosch e Leonardo da Vinci, sembrano esserci proprio tutti: Mantegna, Botticelli, Raffaello, Dürer, Veronese, El Greco, Rubens, Caravaggio, Rembrandt, Velasquez, Goya, Manet, Monet, Degas, Gauguin, Renoir, Cézanne, Modigliani, Picasso, Bacon. E molti altri.
Il tema della mostra è quell’elemento fondamentale dell’identità di ciascuno che è il viso, la faccia con la quale ci presentiamo non soltanto agli altri ma in primo luogo a noi stessi, il volto che parla anche quando non proferiamo parola, lo sguardo che comunica pensieri, emozioni, memorie, attese, il dolore e la gioia.
In un percorso siffatto ciascuno individua e trova le consonanze più intime, proiettando sui capolavori quell’opera di ognuno che dovrebbe essere la propria temporale e palpitante esistenza.

[Cliccando sulle immagini, esse appariranno assai meglio definite]

Nella Vergine con il bambino di Bramantino (1485) ho trovato la continuità senza iato tra l’umano e i luoghi, tra il corpo e lo spazio. Questa donna spigolosa e delusa sembra essere tutt’uno con il castello dal cui sfondo emerge; stesso colore, stessa geometria.

Il medico di Francisco Goya (1779) è prima di tutto interessato a scaldare il proprio corpo e il proprio prestigio al fuoco di un braciere. Pazienti e scienza vengono dopo, come è chiaro dallo sguardo freddo e infastidito, ravvivato -come spesso accade in Goya- da un barlume di follia.

Nella Donna con parasole e un bambino di Auguste Renoir ciò che davvero emerge non è l’idillio campestre e familiare ma è il dolore della luce, di una postura obliqua, di quell’angolo buio al quale ogni vita è destinata.

L’Autoritratto che Pierre Bonnard dipinse nel 1945 trasmette l’immensa nostaglia e il lutto di chi sa che «il nostro dio è la luce» (come scrisse una volta a un amico) e che manca ormai poco alla tenebra.

La magnifica Figura distesa nello specchio (1971) di Francis Bacon va finalmente all’essenza metafisica del volto umano: un grumo di carne, di finitudine, di tempo.

Arte / Artificio

La migliore offerta
(The Best Offer)
di Giuseppe Tornatore
Con: Geoffrey Rush (Virgil Oldman), Sylvia Hoeks (Claire), Jim Sturgess (Robert), Donald Sutherland (Billy), Philip Jackson (Fred)
Italia, 2012
Trailer del film

Raffinato, assai ricco, colto, Virgil Oldman è il proprietario di una casa d’antiquariato e un ricercatissimo battitore d’aste. È uno dei massimi conoscitori di intere epoche e artisti. Non tocca mai nulla e nessuno senza indossare dei guanti. Vive da solo in una casa il cui caveau è costituito da alte pareti dalle quali splendono immagini di donne. Donne dipinte con gli stili e nei periodi più diversi ma tutte accomunate dal guardare dritto negli occhi chi le osserva. Oldman non indirizza mai il suo sguardo sulle donne che incontra ma soltanto su quelle raffigurate.
Una giovane cliente gli chiede di valutare il vasto patrimonio presente in una villa, patrimonio che intende mettere all’asta dopo la morte dei suoi genitori. Questa donna soffre di una grave forma di agorafobia. Non si mostra mai né a lui né ad altri. Le sicurezze di Oldman cominciano a vacillare di fronte alla voce di Claire e alla curiosità verso di lei. In breve: è la passione. Un sentimento progressivo e totale che riesce nell’impresa di guarire la ragazza, portarla fuori dalla villa, trasformare le vite di entrambi. E tuttavia, come si ricorda nel corso del film, «i sentimenti umani sono come le opere d’arte: si possono simulare» e «in ogni falso si nasconde sempre qualcosa di autentico».
L’Artificio è la cifra di quest’opera. Nella magnifica villa di Claire, Oldman trova di tanto in tanto dei piccoli ingranaggi di epoca antica che riesce ad assemblare con l’aiuto di un giovane amico esperto in ogni marchingegno. Ne verrà fuori uno degli automi settecenteschi di Vaucanson. Sarà questo automa a svelare parte della verità. Un’altra parte gli verrà comunicata da un automa umano: una ragazza autistica che abita di fronte alla villa di Claire e che dipana continuamente dei numeri. La scena finale si svolge in un ristorante di Praga pieno di orologi meccanici che scandiscono un tempo che soltanto le passioni umane possono riempire per noi di significato. Il film è esso stesso un meccanismo a incastro, dove tutto deve accadere e accade secondo un progetto che gli ultimi -inesorabili- venti minuti conducono a lancinante chiarezza.

Dopo alcuni film deludenti e dopo il pessimo Baaria, Tornatore riacquista la densità metafisica della sua opera più bella e forse meno conosciuta: Una pura formalità (1994). Anche qui l’impulso del cinefilo si stempera e si distende in una ripresa originale e sempre piacevole  di alcune grandi opere della storia del cinema: la perfidia femminile che ne L’angelo azzurro (Josef von Sternberg, 1930) degrada la figura di un dignitoso professore in quella di un umiliato marito da circo; la trasformazione dell’esistenza appartata ed elegante di un altro professore per mano di una volgare tribù familiare in Gruppo di famiglia in un interno (Luchino Visconti, 1974); la miriade di thriller e di film che hanno utilizzato l’artificio cinematografico per esprimere la finzione che sta al fondo delle relazioni umane. La metafora è qui chiarissima nel continuo piacere che le opere d’arte delle quali il film è disseminato offrono a chi lo guarda. Il greco Techne e il latino Ars si riferiscono entrambi alla capacità di costruire delle belle ed efficaci simulazioni. L’opera è per sua natura un artificio. Di questa dinamica tra simulazione e dissimulazione che è la vita, a volte siamo vittime altre volte diventiamo carnefici.

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