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La mente di Van Gogh

Van Gogh. Sulla soglia dell’eternità
(At Eternity’s Gate)
di Julian Schnabel
USA, 2018
Con: Willem Dafoe (Vincent Van Gogh), Oscar Isaac (Paul Gauguin), Rupert Friend (Theo Van Gogh), Emmanuelle Seigner (Madame Ginoux), Mathieu Amalric (il Dr. Paul Gachet)
Trailer del film

In movimento, a frammenti, su campi lunghissimi e poi su primissimi piani dai quali emergono gli occhi, la pelle, le scarpe, le mani, altro. A volte con la metà inferiore dell’inquadratura sfocata e la parte superiore oscillante. Il cielo che si capovolge in vegetazione, il fango che diventa nuvola. E poi domande su domande da parte di chi non capisce e vorrebbe ricondurre Van Gogh alla misura della consuetudine, della stasi. Interrogatori ai quali il pittore risponde con lucidità, precisione, intelligenza. Guardandoci con i suoi occhi azzurri.
Così Julian Schnabel è riuscito a restituire la mente di Van Gogh. Una intuizione registica profonda e una virtuosistica prestazione tecnica con la quale il cinema conferma ancora una volta la sua capacità di entrare nella psiche umana che è fatta di istanti, intuizioni, ripetizioni, relazioni, vuoti, al modo dei fotogrammi di un film, legati tra di loro e tra loro sempre diversi.
L’innocenza di Vincent Van Gogh emerge da questa forma in tutta la sua bellezza, la sua purezza, la sua differenza, la sua mobilità rispetto alla morta gora delle persone di comune intelligenza e di comune vita che lo circondano, ne diffidano, lo odiano, lo cancellano. Tra questi i bambini di una classe elementare -feroci come soltanto i bambini sanno essere-, i loro genitori viventi dentro i confini di un borgo -Arles- del quale ignorano il fulgore, i giovinastri di Auvers-sur-Oise che forse hanno ucciso lui e che certamente hanno tentato di uccidere i suoi quadri.
Tutti costoro sono da molto tempo ossa e polvere che nessuno giustamente più ricorda. Sono il nulla. Van Gogh è invece ancora il sole. «‘Che cosa dipingi?’ ‘La luce’».

Natura morta metafisica

Carlo Carrà
Milano – Palazzo Reale
A cura di Maria Cristina Bandera
Sino al 3 febbraio 2019

Si viene accolti da Strada di casa (1900), un piccolo magnifico dipinto in movimento. Tutta in moto è infatti l’arte di Carlo Carrà, che fu tra i più convinti sostenitori del Futurismo, come testimoniano molte opere e la gigantografia che lo vede ritratto a Parigi nel 1912 insieme a Marinetti, Russolo, Boccioni, Severini. Il movimento del chiaro di luna (1910) è uno dei quadri più riusciti del periodo, fatto di strutture verticali che si addensano nello spazio con la forza del colore. Il particolare utilizzo del colore è uno degli elementi costanti dell’opera di Carrà, con la sua intensa presenza al confine tra naturalismo e immaginazione.
Un colore che crea città, umani, mare, case, cieli. Ai luoghi l’artista dedica un’attenzione profonda, creando una pittura urbana e insieme corporea, marina, vegetale. Luoghi naturali e luoghi costruiti. È ben presente la lezione di Cézanne, con  le case e i tetti immersi nella vegetazione. Ogni forma è scandita, si staglia, parla. Davvero «gli elementi architettonici subordinano a sé tutti i valori figurativi di forma e colore», come Carrà con chiarezza disse.
Ai miei occhi l’apice di questo artista è il periodo metafisico. La metafisica di Carrà è un cubismo raffinato, pulito, luminoso. Natura morta metafisica (1919, qui sopra) immerge nella materia come ombra e come luce dentro le quali abita il corpomente umano, circondato e intriso di oggetti perfetti, che sono una cosa sola con i colori, le forme, la vibrante geometria, il divenire.
Poi Carrà cercò e percorse una strada tutta sua, intessuta di corpi dentro l’aria, palpitanti nello spazio, intramati con i luoghi, con la luce. È quanto testimoniano le opere sue forse più celebri: Il pino sul mare (1921, qui accanto), Dopo il tramonto (il faro) (1927), Cavallo sulla spiaggia (1952), le cui costanti sono l’inoltrepassabile solitudine e la potente malinconia che emergono anche nei versi di Ungaretti, del quale Carrà fu amico.
Come questi: «Balaustrata di brezza / per appoggiare stasera / la mia malinconia» (Stasera [1916] da «L’Allegria», in Vita d’un uomo. Tutte le poesie, Mondadori 1977, p. 31).
O questi altri: «Cercata in me ti ho a lungo / Non ti trovavo mai, / Poi universo e vivere / In te mi si svelarono. // Quel giorno fui felice, / Ma il giubilo del cuore / Trepido mi avvertiva / Che non ne ero mai sazio. // Fu uno smarrirmi breve, / Già dita tue di sonno, / Apice di pietà, / Mi accarezzano gli occhi. // Davi allora sollecita / Quella quiete infinita / Che dopo amare assale / Chi ne godé la furia» (Soliloquio I [1969], da «Nuove», ivi, p. 322).

Si trasfigurava in gloria

Inside Magritte
Milano – Fabbrica del Vapore
A cura di Julie Waseige
Sino al 10 febbraio 2019

Lo dico subito: una mostra di pittura senza nemmeno un quadro lascia perplessi. Ma se c’è un artista che può essere attraversato mediante strumenti multimediali, è Magritte. E questo anche perché fu lo stesso Magritte in alcuni suoi brevi film a tentare di dare movimento ai suoi quadri, di ripensarli come video.
La milanese Fabbrica del Vapore si presta benissimo all’operazione. Nello spazio di ingresso svetta una grande bombetta, intorno alla quale si squadernano riproduzioni a parete del magnifico Empire des Lumières e di Golconda, gli omini vestiti di tutto punto e sospesi nel cielo azzurro come gocce di pioggia nello spazio. Nella sala successiva campeggiano degli schermi -accompagnati da titoli e frasi di Magritte- sui quali in ordine cronologico si susseguono le opere nella molteplicità delle loro fasi, dagli inizi astrattisti al surrealismo, dal periodo vache alle continue invenzioni oniriche, ossimoriche, ludiche. Il cuore dell’esposizione è una grande sala entrando nella quale si sta dentro le tele, in un flusso continuo che si dipana alle pareti, sul pavimento, dentro gli specchi, dentro la musica.
Scorre la varietà e molteplicità dell’opera di Magritte, la sua ricchezza linguistica ed espressiva, la realtà oltre la realtà, l’esaltazione della luce, delle ombre, delle figure, dei vuoti. Gli oggetti e i soggetti dei quadri acquistano movimento, diventano il dinamismo che è loro intrinseco, la tridimensionalità alla quale sembrano aspirare sin dalla loro concezione. Anche se la pittura non è cinema e non può diventare video, si tratta di un’immersione in ogni caso divertente e dissacrante come voleva essere l’arte di Magritte nella sua paradossale precisione della figura, nel rigore geometrico, nel suggerimento teoretico ed emotivo che vuole offrire a chi la osserva. Come si può forse vedere in questo brano:
«Tante volte dentro di sé e nella realtà che chiamano oggettiva se ne era andato. E anche lei, tante volte dentro di sé e nella realtà che chiamano oggettiva se ne era andata. Ma il rischio per lei era troppo grande. Lo sapeva. Glielo aveva anche detto mentre lo abbracciava: ‘immenso è il tuo orgoglio, lo so. Sei capace di stare senza respiro pur di non dire il bisogno che hai di me. Sei capace di morderti la vita prima che la morte del tuo io ti si pari innanzi nell’umiliazione della supplica. Lo sapevo già, dio della mia vita, dai tuoi racconti di chi non hai più amato dopo essere state per te tutto l’universo. Non le hai più volute neppure leggere negli inutili fogli della loro speranza. Per questo ogni volta che l’impulso mi è nato di lasciarti, ho messo le guardie alla mia follia e ho taciuto’. Così diceva, impaurita sorridente e forte del suo incanto. Ma alla fine era caduta nell’errore che pure conosceva. Ed era stata sintesi di tutto, lei, un riassunto dell’abbandono nel quale avevano tentato di costringerlo e che invece ogni volta e matematicamente si trasfigurava in gloria».
Magritte è anche questa gloria.

Gestaltpainting

Turner
Opere della Tate 

Roma – Chiostro del Bramante
A cura di David Blayney Brown
Sino al 26 agosto 2018

«Indistinctness is my forte», l’indeterminatezza è il mio forte, disse Joseph Mallord William Turner (1775-1851). E in modo sempre più libero e tenace l’artista transitò dalla densità delle opere giovanili alla progressiva rarefazione della forma, dei contorni, dello spazio.
La sua fonte naturale fu la luce, che riteneva -come Goethe e contro Newton- non scaturisca dai colori ma, al contrario, che i colori consistano in una progressiva, diversa e molteplice rarefazione della luce, che consistano nel suo incontro con l’oscurità.
La fonte estetica di Turner fu l’opera di Claude Lorrain. La pienezza cromatica e materica del pittore francese si rarefà anch’essa nel trionfo della forma. Se sempre la pittura -e in generale l’arte- è forma, questa verità diventa in Turner evidenza, tratto, trasparenza, colore, luce. Si fa consunstanziale alla tela, diviene materia formata, si fa aristotelica.
Al modo della Gestaltpsychologie Turner crea una Gestaltpainting, dentro la quale la natura cangiante e vorticosa della luce è talmente astratta, interiore e universale da aver generato l’Impressionismo e gli impressionisti e aver profondamente inciso su Rothko, Turrel, Twombly, Eliason e, direi, su tutti coloro che hanno dipinto dopo di lui.
La luce di Turner è ospitata in questi mesi negli intimi e raffinati spazi del Chiostro del Bramante, a Roma. In essi parla e vince un’arte per la quale la forma è flusso, il colore è fiume, la pittura è tempo. Un’arte eraclitea e magica nel senso indicato da un critico dell’epoca, il quale affermò che Turner aveva la capacità di controllare «gli spiriti della Terra, dell’Aria, del Fuoco e dell’Acqua». Dell’acqua luminosa e risbaldente nella quale la pittura di Turner è immersa.
Qui sopra si può vedere una riproduzione di A Wreck, Possibly Related to ‘Longships Lighthouse, Land’s End’ (ca. 1834). L’immagine digitale non restituisce -non può- ciò che si percepisce stando davanti a queste macchie nelle quali la roccia e il mare hanno smesso di costituire un concetto del linguaggiomente umano e tornano alla pura materia che sono. 

Rinascimento

Dürer e il Rinascimento tra Germania e Italia
Milano – Palazzo Reale
A cura di Bernard Aikema, con la collaborazione di Andrew John Martin
Sino al 24 giugno 2018

Il Rinascimento è un’invenzione di Jacob Burckhardt, collega e maestro di Nietzsche a Basilea, ed è anche un ritorno degli dèi, contro il quale si scaglia il monaco Lutero. Il Rinascimento è la scoperta della profondità dello spaziotempo che si mostra nella prospettiva, nelle distanze, nella storia. Il Rinascimento è benedizione dell’immanenza, è gloria del qui e dell’ora, è bellezza posseduta. Il Rinascimento è Albrecht Dürer.
Una mostra dedicata al Maestro di Norimberga non può quindi essere monodica ma diventa polifonia che si apre a un’epoca intera. Anche per questo il taglio non è cronologico ma tematico e diviso in sei sezioni:
Dürer, l’arte tedesca, Venezia, l’Italia
Geometria, misura, architettura
La natura
La scoperta dell’individuo
Albrecht Dürer incisore: Apocalisse e cicli cristologici
Il Classicismo e le sue alternative.

Non dunque una storia dell’arte ma una geografia dell’arte, come afferma il curatore Bernard Aikema.
Attraversando i territori dell’Europa e della sua arte nell’epoca di Dürer (1471-1538) si incontrano regioni di una fisicità pura e insieme metaforica. I corpi hanno tutta la potenza di Leonardo, Bosch, Mantegna. Nei volti, nei gesti, nei movimenti c’è una saggezza pagana. Le forme di Dürer sono scolpite, prima che dipinte. La sua arte è plastica, non è solo pittura.
Si prova poi la gioia -non soltanto il piacere, proprio la gioia– di vedere opere da tanto e profondamente ammirate come le due magnifiche incisioni Il Cavaliere, la morte e il diavolo e Melancholia I. Osservandola da vicino e con attenzione, si nota in quest’ultima una fortissima luce che investe da destra in basso la figura umano/angelica e la proietta verso l’arcobaleno in alto. Nonostante ogni malinconia, vi sono davvero tante aurore che devono ancora splendere (Rigveda).

Coinvolgenti -direi magiche- sono opere quali il piccolo e luminosissimo San Gerolamo penitente e l’enigmatica, solenne, ironica, elegante e feroce Nemesis che vedete qui sopra.
Nelle incisioni, negli acquerelli, nei dipinti, l’arte di Dürer è quasi fotografica, e però nel fotografare ricrea la realtà, non la riproduce. La strada del Brennero nella valle dell’Isarco (qui sotto) è un acquerello del 1494. Perfetta immagine di uno snodo dentro i luoghi, tra rocce, strade, muri, boschi. Potenza della materia, luce che proviene, che promana e che si scioglie. Senso dello spazio e significato del tempo, καιρός che scivola dentro il χρόνος facendosi αἰών della mente. Rinascimento.


Il gatto e la pittura

Lady Macbeth
di William Oldroyd
Gran Bretagna, 2016
Con: Florence Pughs (Katherine), Cosmo Jarvis (Sebastian), Naomi Ackie (Anna), Paul Hilton (Alexander)
Trailer del film

Nella campagna inglese di metà Ottocento. Una villa grande e gelida. Katherine vi arriva perché sposata al figlio del proprietario, che però si disinteressa di lei. Sola, silenziosa, segreta, si sente libera quelle poche volte in cui esce nello spazio arido e gelido della bruma. L’incontro con lo stalliere Sebastian la trasforma in amante appassionata, in attrice consumata, in assassina seriale.
Solitario, silenzioso e segreto è l’intero film. Ispirato in parte a un racconto di Nikolaj Leskov –Una Lady Macbeth del distretto di Mcensk-, è una sontuosa galleria di pittura d’ambiente e di ritratti ottocenteschi. Quell’arte densa di particolari realistici e di penetrazione psicologica che di lì a poco sarebbe stata sostituita dall’impasto impressionistico. Qui sembra di sentire la densità del colore, la geometria degli spazi, la distanza ottica ed esistenziale del pittore rispetto al suo soggetto. Un soggetto fatto di passioni stridenti rispetto all’ipocrisia perbenistica e alla volgarità della borghesia rurale britannica.
Su tutto aleggia una sensazione di morte che è ben espressa dalla fotografia che ritrae Katherine in piedi accanto alla salma del suocero, anch’essa in piedi. Nonostante la loro giovane vitalità, anche gli occhi e lo sguardo immobili di questa donna -qualunque cosa faccia qualunque cosa succeda- hanno qualcosa di postumo.
L’unica entità viva è un gatto che gira e saltella per la casa e che una volta si mette a tavola, sulla sedia davanti a Katherine, la quale lo fissa e accenna un impercettibile sorriso.

Essenze

Paolo Monti. Fotografie 1935-1982
Milano – Castello Sforzesco
Cortile delle Armi, Sale dell’Antico Ospedale Spagnolo
A cura di Pierangelo Cavanna e Silvia Paoli
Sino al 12 marzo 2017

I luoghi, i tagli, non l’oggetto ma la sua interpretazione. Il mondo si dirada nella mente e dà vita a una solitudine colma di pienezza. Lo sguardo si purifica e la fotografia diventa quindi pittura, come in Bologna, studio di Giorgio Morandi e nei Manifesti strappati, simili a quelli di Mimmo Rotella. I Nudi sfumano nell’astrazione. Gli abiti della serie Moda possiedono invece la nettezza della forma. Dalla serie dei Tronchi e degli alberi si leva l’angoscia della combustione, della distruzione. I Chimigrammi sono come fossili, come liquidi, pura materia astratta. Le città sono deserte, silenziose, metafisiche. Di Milano lo affascina in particolare il Grattacielo Pirelli e il suo stridente dialogo con il contesto urbanistico nel quale sorse. Ovunque i Musei,  i loro oggetti, il loro spazio, diventano essi stessi opera. Della Pietà Rondanini di Michelangelo, della Fontana di Trevi, delle Cappelle Medicee di Firenze, di Ponte Sant’Angelo l’artista coglie e fotografa le Monti_Procidaombre. Ovunque domina il chiaroscuro. Procida (qui accanto), le sue case di pescatori, le sue discese al porto, costituiscono una sintesi del profondo talento di questo fotografo, della sua capacità fuori dal comune di vedere l’essenza degli enti e dei luoghi, riproducendola per immagini.
«Tutto il mondo visibile mi attrae, quasi senza alcuna gerarchia di valori […] per tentare di scoprire, delle molte cose viste, un aspetto nuovo ed essenziale, quasi un segreto», scrisse Paolo Monti. E aggiunse: «Fotografare vuol dire creare delle immagini che staccate dalla realtà dalla quale trassero origine mostrino nel breve spazio della loro superficie una realtà nuova, conclusa nei limiti dell’inquadratura».
Emblematica è Le astrazioni involontarie (1950), che potete vedere in alto: un’immagine semplicissima ma capace di penetrare l’essenza della materiaspazio. Nell’opera di Monti si fa chiaro il segreto platonico della fotografia, il suo esistere per le essenze, per l’εἶδος.

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