Skip to content


Miró, l’animismo

Miró, la gioia del colore
Palazzo della Cultura – Catania
A cura di Achille Bonito Oliva, con la collaborazione di Maïthé Vallès-Bled  e Vincenzo Sanfo
Sino al 7 luglio 2024

Animistica è la vibrazione della materia per Juan Miró. Per questo il suo segno è luminoso anche e specialmente quando si accompagna a un nero profondo o proviene dal bianco più neutro. Si tratta di una consapevole mitologia «che fa sì che io non consideri un sasso, una roccia, come cose morte. In fondo quel che dipingo io è soprattutto questa mitologia» (da uno dei pannelli della mostra). La materia è quindi l’intero, è spinozianamente la sostanza, è Dio, è l’inizio. Ed «è la materia a decidere» (ivi).
Espressione della materia universale ovunque pulsante e consapevole, la materia come anima mundi, è naturalmente prima di tutto il cielo, sono gli astri, i soli, le galassie. Soli, astri e galassie che attraverso segni grafici inconfondibili abitano la sua pittura. Cosmo dal quale Miró afferma di essere sconvolto quando vede «in un cielo immenso la falce della luna e il sole. Nei miei quadri, del resto, vi sono minuscole forme in grandi spazi» (ivi). La «materia ricca e vigorosa» (ivi) diventa in questo artista filiforme, sinuosa, leggiadra; viene ricondotta alla sua forma platonica, all’essenza di pochi segni installati nello spazio del foglio, della tela, dei tappeti, delle ceramiche, dei poster. Come accade in un piccolo quadro nel quale ai segni viene dato esplicitamente un nome: scala per evadere, cerchio, sole, luna, occhio, e alla fine soprattutto «le néant», il nulla.

La gioia del colore è indubbia, come recita il titolo della mostra catanese, e si fonda su un sentimento esplicitamente drammatico e insieme armonioso del mondo e dello stare degli enti in esso. Perché, assai classicamente, «se anche una sola forma è fuori posto, la circolazione si interrompe, l’equilibrio è spezzato». E invece bastano due grumi di rosso e di nero dentro un piatto bianco a trasmettere la stessa vibrazione del Timeo: «Questo mondo, che è un vivente dotato di anima e di pensiero. […] Per cui lo tornì come una sfera, in una forma circolare in ogni parte ugualmente distante dal centro alle estremità, che è la più perfetta di tutte le figure e la più simile a se stessa, giudicando il simile assai più bello del dissimile» [τόνδε τὸν κόσμον ζῷον μψυχον ἔννουν τε. […] διὸ καὶ σφαιροειδές, ἐκ μέσου πάντῃ πρὸς τὰς τελευτὰςἴσον πέχον, κυκλοτερὲς αὐτὸ ἐτορνεύσατο, πάντων τελεώτατον μοιότατόν τε αὐτὸ ἑαυτῷ σχημάτων, νομίσας μυρίῳ κάλλιον μοιον ἀνομοίου» (30b, 187 – 33b, 195; trad. di Francesco Fronterotta, Rizzoli 2018).
A conferma di questo breve percorso nella mostra catanese, ricordo che parlando di un’altra mostra di Miró a Milano (2016) avevo scelto come titolo Miró. La materia felice.

Goya

Goya
La ribellione della ragione

Palazzo Reale – Milano
A cura di Victor Nieto Alcaide
Sino al 3 marzo 2024

A Francisco Goya Milano aveva dedicato nel 2010 un’ampia mostra. Questa nuova occasione di incontro con uno dei massimi artisti europei conferma tutto ciò che allora ne pensai, in particolare questa frase: «Goethe scrisse che, se visti dall’altezza della ragione, la vita appare una malattia e il mondo un manicomio. E sono esattamente questa vita e questo mondo che Goya disvela nella loro chiara e dolente assurdità» (Goya y Lucientes).
Si tratta infatti di un’opera che a ogni contatto mostra di essere nuova e diversa, di aprire corridoi nella comprensione del mondo, di attirare come un magnete lo sguardo. E di essere l’incunabolo di tutta la pittura moderna, a partire dalla sua stessa varietà e dalla tecnica davvero perfetta. Scrive infatti il curatore della mostra: «L’espressività tracima oltre la rappresentazione, mentre il colore è del tutto arbitrario. Dipingere tenendo conto del disegno presupponeva fedeltà al tema e alle norme stabilite. La rinuncia al disegno, il protagonismo della pittura, l’autonomia del colore, il valore in sé e per sé della materia pittorica e di una pennellata libera ed espressiva, l’originalità di soggetti che sorgono dall’immaginazione dell’artista e non da un’iconografia costituita fanno di Goya l’autore del primo capitolo della storia della pittura moderna». L’artista è del tutto consapevole di tale autonomia della forma, tanto è vero che in occasione di una relazione tenuta il 14 ottobre 1792 in un’Accademia di Belle Arti affermò che «non ci sono regole in pittura […], l’obbligo servile di far studiare o seguire a tutti la stessa strada è un grande impedimento per i giovani che professano quest’arte difficilissima, che più di ogni altra si avvicina al divino».

A volte le figure si dissolvono, frastagliate nei confini delle loro forme diventate ciò che poi si chiamerà impressionismo, ad esempio ne La cattura di Cristo (1797-98)

Altre volte invece i confini degli enti e dell’accadere sono netti e potenti, come in tutta l’arte rinascimentale. E ovunque pulsa una forza lucida e disperata che è l’essenza stessa di ogni espressionismo. Le due serie di incisioni dal titolo Disastri della guerra e Capricci costituiscono le manifestazioni più note e conturbanti di tale espressionismo. I Disastri sono infatti quasi una cronaca senza infingimenti e insieme onirica dell’orrore che ogni guerra è e produce. I Capricci dispiegano gli incubi, il grottesco, l’insensato che abita nelle cose e negli eventi, dispiegano gli archetipi stessi del male e del dolore, della ὕβρις che abita i fatti umani.

Un’impresa eroica! Con_morti!

Nei Ritratti l’arte di Goya si fa limpida, inquietante e profonda. Sono ritratti che colgono una sostanza stranamente e impossibilmente immortale dei corpi. In queste opere Goya conferma il suo sguardo oggettivo e insieme partecipe e tragico alla vicenda umana.

Marianito (1813)

Tragicità, inquietudine e grottesco rendono questo artista assai vicino, pur in ogni differenza, a uno dei vertici del delirio e del genio, a Hieronymus Bosch. Lo avvicinano certamente nei Capricci e nei Disastri ma anche in alcune opere emblematiche e fondanti come la Processione di flagellanti (1808-812, immagine di apertura) e Il Colosso (1808), nel quale la dismisura della figura che sta al centro emerge su una pianura di attività minute, frenetiche e oscure, attraversate come dal lampo di un sogno.

Lampo, fulmine, bagliore e sfolgorio si distendono spesso nella luce pacata e diffusa che Goya assorbì da Rembrandt e che lo rendono, non soltanto per il tempo nel quale visse ma per la declinazione che di questo tempo diede, uno dei massimi artisti dell’Illuminismo, di una ragione che si ribella, sì, perché da se stessa ha compreso i limiti di ogni sogno razionalista sull’irrazionalismo costitutivo della vicenda umana.

Autoritratto al cavalletto (1785)

Morandi

Giorgio Morandi
1890-1964

Palazzo Reale – Milano
A cura di Maria Cristina Bandera
Sino al 4 febbraio 2024

Un rigore formale che attinge alle geometrie di Piero della Francesca ma con la tonalità tutta novecentesca di un immanentismo che si fa anch’esso distanza dagli eventi e dalla morte, come accade allo slancio verticale di Piero. Una prospettiva stratificata su più piani, attraverso forme e pennellate che all’inizio sembravano vicini alla Metafisica e al Realismo magico e poi divennero altro, divennero il sacro che dalle tele di Morandi spira.
Una luminosità fredda e antica si fa forma nelle fronde immobili, in un dolore oggettivo, nelle conchiglie, nei fossili, negli oggetti che si raggrumano e producono nel loro tacere luce. È un mondo fatto di geometrie, di parallelepipedi, di paesaggi «inameni», come li definì Roberto Longhi. Un mondo abitato da una forza di gravità interiore che stringe sempre più gli oggetti gli uni con gli altri, rendendo fermo lo spazio.
Giustamente la curatrice della mostra milanese afferma che in Morandi «la  luce ha un’incidenza metafisica. Lo spazio non è misurabile né percepibile» e nelle opere ultime la sua è «una materia che sta scomparendo». Una materia che si dissolve nella pienezza dell’essere. Morandi lo intuì e scrisse che «quello che importa è toccare il fondo, l’essenza delle cose».

Morandi. Natura morta, 1918-1919

L’arte di Morandi mostra tale essenza, dispiega la potenza della materia e del silenzio. Nessun umano appare nei suoi quadri. Anche per questo offrono la pace della materia che in un suo intervallo sarà stata anche protoplasmatica, vegetale e animale, sarà stata materia artificiale e macchinica. Ma a rimanere sarà la materia minerale e cosmica, la sua potenza. Rimarrà la materia e basta. Non più gli umani, materia miserrima dentro il cosmo, e neppure soltanto gli altri animali, vertebrati o invertebrati, di terra o di mare, volatili e insetti. Nemmeno le piante, i fiori, il grano. Rimarrà soltanto la materia, le rocce, le lave. E le stelle. La pura luce, la loro luce. Le trasformazioni elettromagnetiche che invadono di fulgore lo spazio silenzioso e perfetto nel quale di tanto in tanto la materia si raggruma in polvere, pianeti, astri. Qui non c’è sofferenza. Non c’è mai stata. Nulla nasce e nulla muore. E il tempo accade senza posa nel movimento delle masse e nella potenza dell’energia.

Morandi. La strada bianca, 1941

[L’immagine di apertura è una Natura morta del 1957. Le ultime righe di questo testo sono già state utilizzate da me in altre pagine del sito, parlando della musica di Jean-Philippe Rameau, di un film di fantascienza (Life, 2017), di una lezione alla Scuola Superiore di Catania. Si tratta infatti di una concezione della materia/luce del tutto affrancata da ogni antropocentrismo, una tesi per me fondamentale]

Le arti

È uscito da qualche giorno il numero 29 (anno XIII, novembre 2023) della rivista di filosofia Vita pensata. Numero dedicato alle arti (al plurale) con nove testi che affrontano sia tematiche teoretiche ed estetiche generali sia specifiche opere di letteratura, pittura, teatro, architettura.
Tra i contributi di argomento diverso segnalo l’ampio saggio di David Benatar (tradotto da Sarah Dierna) dal titolo Un argomento misantropico per l’antinatalismo; un testo che sono particolarmente felice di aver pubblicato anche per le ragioni indicate nell’editoriale. Quest’ultimo è firmato da un nuovo Comitato di redazione, che ringrazio per l’attento e rigoroso lavoro che ha dedicato a questo numero della rivista, così come ringrazio tutti gli autori dei saggi che la compongono.
Inserisco qui sotto i due link dai quali è possibile leggere la rivista sul suo sito o scaricarla integralmente in un nuovo formato pdf, che confidiamo renderà più comoda e funzionale la lettura. Aggiungo il testo dell’editoriale e quello di una mia breve analisi della mostra che Milano ha dedicato quest’anno a Bill Viola, la cui opera rappresenta una sintesi tra la grande arte del Rinascimento e le tecnologie contemporanee.

Un Bacon gentile

Attilio Forgioli. I luoghi del tempo
Museo della Permanente – Milano
A cura di Luca Cavallini
Sino al 10 giugno 2023

Forgioli, Cipressi (2019)

Dense macchie di materiatempo non dicono, non parlano, non esprimono. Semplicemente indicano. Come l’oracolo delfico, come ogni sguardo distante sul mondo.
Tra i segni, alcune volpi dagli occhi verdeazzurro dentro una forma astratta; un uccello grigio che si posa e si riposa dopo un lungo tragitto che lo ha visto volare dall’Africa: «Morire come le allodole assetate / sul miraggio // O come la quaglia / passato il mare / nei primi cespugli / perché di volare / non ha più voglia // Ma non vivere di lamento / come un cardellino accecato»
(Giuseppe Ungaretti, Agonia, da L’Allegria, in «Vita d’un uomo. Tutte le poesie», Mondadori 1977, p. 10).
E poi i colori di Van Gogh e l’uniformità dei cipressi. Su tutto e dentro tutto cromatismi e forme scomposte che intendono trarre disperatamente dagli spazi un’idea, una forma. Trarla anche da due pezzi di Roast Beef, anche dalla morta carne dentro un piatto. L’Autoritratto del 2022 porta a compimento la dissipatio del soggetto, diventato ormai una cosa sola con i colori e con la materia.

Forgioli, Autoritratto (2022)

Attilio Forgioli, vivace novantenne lombardo in questi giorni ospite della Permanente, sembra un Francis Bacon gentile. La stessa potenza della carne e delle figure, la medesima loro dissoluzione, ma senza il gorgoglio dell’orrore, con soltanto l’accettazione matura della fine.

Hieronymus Bosch

Bosch & un altro Rinascimento
Palazzo Reale – Milano
A cura di  Bernard Aikema, Fernando Checa Cremades e Claudio Salsi
Sino al 12 marzo 2023

L’esistenza di Hieronymus Bosch si scandisce dal 1453 al 1516. Nel pieno della storia d’Europa che da Jacob Burckhardt in poi chiamiamo «Rinascimento». Caratterizzata da forme razionali, geometriche, classiche, sobrie, prospettiche.
Bosch è però altro, Bosch è l’altrove di architetture infuocate, di particolari a migliaia sulla tela e che pullulano in un movimento imprendibile che sembra non finire. L’altrove di una stupefacente e continua ibridazione tra le forme umane, quelle di altri animali, di strumenti musicali, di armi da taglio, di elmi e di uova, di umani crocifissi sopra un’arpa, di rettili e di fragole, di chiese, torri, campi, cieli, prospettive…
Una sfrenata antologia del mondo che sembra scaturire come eiaculata da una mente incapace di fermarsi, divertita e sarcastica, imbottita di droghe, riempita di elementi minuscoli e di grandi campiture di colore sulla tela.

Le tentazioni di Sant’Antonio, 1510-1515 Madrid Prado

La mostra a Palazzo Reale è divisa tra un terzo di dipinti di Bosch e poi due terzi di opere della sua scuola, degli imitatori e prosecutori: su ogni altro Pieter Brueghel il Vecchio e Arcimboldo e poi Pieter Huys, Battista Dossi, Marcantonio Raimondi, Pieter Stevens, Dürer, il Garofalo, il Civetta, Jacob van Swanenburg. Opere anche dei contemporanei, tra i quali Leonardo da Vinci.
Dal confronto tra il Maestro di ’s-Hertogenbosch e tutti gli altri emerge in modo assai limpido come non basti il mostruoso, non basti la fantasia. Bosch ė l’intuizione dell’orrore che bisogna attraversare, espresso in un modo imitato da folle di artisti ma che rimane inimitabile. Bosch è visionario nel preciso senso dell’aver visto, espresso, pensato e dipinto il dolore che intride la materia viva e la deforma nel momento della nascita e nel parallelo istante della morte.
In lui vince anche la natura ludica dell’arte, un’immensa Wunderkammer sparsa in ogni dove nel mondo, in città, edifici, chiese, templi, camere private, laboratori, biblioteche. E vince ed emerge in lui la molteplicità che nessun pensiero, nessuna formula, equazione o filosofia può ricondurre all’identità, all’uno, al monocorde canto dell’etica. Bosch è jenseits von Gut und Böse, al di ogni bene, al di là del male.
Bosch è la libertà dell’arte da ogni morale, da ogni principio, da ogni valore, da ciò a cui «i solidali, i linguisticamente corretti, gli inclusivi» vorrebbero ridurre ogni umana espressione. Bosch è il delirio disincantato e dionisiaco, è il genio e l’altezza rispetto ai nani che si credono buoni.

Tentazioni_Sant’Antonio, Lisboa

Elio Romano

Libero Elio Romano 1909-1996 
Palazzo della Cultura – Catania
A cura di Vittorio Ugo Vicari ed Enrico La Rosa
Sino al 20 gennaio 2023

Elio Romano ha attraversato il Novecento di una Sicilia sempre uguale e di un’Italia inquieta. È stato amico di altri artisti; ha ospitato pittori e amici nella sua casa museo di Morra, vicino ad Assoro nell’ennese; ha ricevuto committenze da istituzioni pubbliche e private, creando affreschi al modo dei rinascimentali. Ha plasmato le tele, la carta, il gesso, il bronzo. I suoi quadri, e i filmati che ne testimoniano il divenire, mostrano un uomo che sembra aver avuto la fortuna di fare ciò che ha voluto di sé e del proprio talento.
Le 57 opere raccolte a Catania costituiscono anche un’antologia del fare pittorico nel Novecento: impressionismo, fauves, espressionismo, macchiaioli, persino qualcosa del realismo magico. I soggetti sono soprattutto la campagna riarsa, antica, cupa e luminosa del latifondo siciliano; nudi dipinti come da distanze; ritratti assai intensi realizzati con la tecnica della china su carta – forse le cose sue migliori – e su tutto la solitudine di una terra enigmatica, al di là del tempo, dentro ogni tempo.

L’impressione è però di un epigono, di un artista che ha scelto volutamente di isolarsi in luoghi splendidi ma che sociologicamente costituiscono periferia dell’arte contemporanea. A chi gli chiedeva che cosa ci facesse a Morra, Romano rispondeva «coltivo il giardino». Una citazione dal Candide di Voltaire, certo, ma il rischio di una scelta come questa è indicato da alcuni versi di Vittorio Sereni: «…Pensare / cosa può essere –voi che fate / lamenti dal cuore delle città / sulle città senza cuore- / cosa può essere un uomo in un paese, / sotto il pennino dello scriba una pagina frusciante / e dopo / dentro una polvere di archivi / nulla nessuno in nessun luogo mai» (Gli strumenti umani, Einaudi  1980, p.  67).
L’arte, la filosofia, la vita non sono un’acquisizione soltanto individuale e intima ma costituiscono sempre un riflesso e un’espressione del tempo e dello spazio dai quali germinano. Per questo bisogna sempre abitare la distanza ma saper rendere anche quella distanza il centro del mondo.

Vai alla barra degli strumenti