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Contro l’autorità

Piccolo Teatro Strehler – Milano
L’arte della commedia
di Eduardo De Filippo
adattamento e regia Fausto Russo Alesi
con: Fausto Russo Alesi, David Meden, Sem Bonventre, Alex Cendron, Paolo Zuccari, Filippo Luna, Gennaro De Sia, Imma Villa, Demian Troiano Hackman, Davide Falbo
scene Marco Rossi
produzione Teatro di Napoli – Teatro Nazionale, Fondazione Teatro della Toscana – Teatro Nazionale, Teatro di Roma – Teatro Nazionale, Elledieffe
Sino al 5 novembre 2023

«Venga a teatro, Sig. Prefetto! A Teatro la suprema verità è stata e sarà sempre la suprema finzione…». Un invito decisamente pirandelliano, tanto più che i Sei personaggi in cerca d’autore vengono esplicitamente citati. E tuttavia, subito dopo aver ricordato il titolo di Pirandello, il capocomico Oreste Campese aggiunge «Ma qui Pirandello non c’entra nulla. Non sono i personaggi in cerca d’autore ma gli attori in cerca di autorità».
Campese chiede infatti udienza al prefetto da poco arrivato in città; il capannone della sua Compagnia è andato distrutto da un incendio e la presenza del prefetto alla rappresentazione nel Teatro Comunale sarebbe di lustro e di richiamo. Il prefetto si aspettava una divertente conversazione con un guitto e invece si trova davanti un uomo di teatro dalle sfumature complesse e per il prefetto «sofistiche», che si permette di arruolarlo come «specchietto per le allodole». Rifiuta quindi con sdegno il suo invito. Ma Campese gli promette che presto capirà che cosa siano teatro, finzione, verità.
E infatti le persone che il funzionario riceve nel pomeriggio dello stesso giorno non si comprende se siano reali – il medico, il parroco, la maestra elementare, il farmacista – o se siano gli attori inviati da Campese a recitare le storie che avevano coralmente scritto per il nuovo spettacolo. Storie di inquietudine, di aspirazioni frustrate, di matrimoni divorzi e aborti, di licenze negate e di suicidi, di figli illegittimi e di bambini morti. Il profluvio del dolore umano, della sua ambiguità, della sua inestirpabilità, travolge il prefetto, il suo segretario, il militare a guardia dell’istituzione. E vince il disvelamento che la finzione teatrale sa attuare dell’autorità sanitaria, di quella religiosa ed educativa, del potere politico e burocratico.
Un metateatro messo in scena da Fausto Russo Alesi in modo da estrarre dal testo di Eduardo gli accenti e le forme più dolenti, persino cupe nell’ambientazione oscura delle scene, e nel quale gli attori toccano e fanno suonare l’intera tastiera del recitare: dimesso, allucinato, struggente, grottesco, folle, caricaturale, dignitoso, solitario.
«Un atto poetico e politico per il Teatro» scrive Russo Alesi, «una istintiva risata liberatoria» (Programma di sala, pp. 8 e 10) nella quale De Filippo si coniuga a Kafka e a una delle formule dell’anarchismo: «Una risata vi seppellirà», dove a essere sepolta è l’autorità cadaverica che in questi anni Venti del XXI secolo va mostrando sempre più e in vari ambiti – Ministri della Sanità, Pontefici, Professori e Rettori Universitari, Medici, Presidenti di Repubbliche e Confederazioni – la propria sostanza di morte.

Umani e alieni

Asteroid City
di Wes Anderson
USA, 2023
Con: Jason Schwartzman (Augie Steenbeck), Scarlett Johansson (Midge Campbell),  Jake Ryan (Woodrow), Tom Hamks (Stanley Zak), Edward Norton (Conrad Earp), Maya Hawke (II) (June)
Trailer del film

I colori accesi di Grand Budapest Hotel diventano quelli di un cartone animato. E questo consapevolmente. L’autore del testo teatrale, intorno al quale il film ruota, compare all’inizio del film, riappare nei suoi momenti chiave e dichiara in modo esplicito che le luci dovranno essere intense, come calate dall’alto e «spietate». Non solo le luci. I costumi sono sempre perfetti e puliti (anche quelli del meccanico e dei soldati). Gli ambienti sono coloratissimi e geometrici. Il cielo sempre azzurro, il deserto sempre giallo e senza vento che alzi la sabbia, i cactus sempre uguali, i bambini sempre lindi, l’alieno che per due volte scende dalla sua astronave nel bel mezzo di un antico cratere (dal quale il luogo prende nome) è esattamente come ci aspetteremmo un alieno.
Tutto quindi appare per quello che il cinema è: finzione, pura, sognante, inquietante finzione. Che si moltiplica nel dispositivo pirandelliano del film: nella prima scena un narratore racconta di Conrad Earp, che appare mentre sta scrivendo il testo teatrale che poi intitolerà Asteroid City; Earp immagina anche quali attori potranno incarnare i personaggi che sta inventando; questi personaggi cominciano ad apparire e a entrare in scena negli studi teatrali dove la pièce viene messa in scena. Prima che tutto cominci, Earp comunica la scansione del testo teatrale e dunque del film che racconta la messa in scena del testo stesso. Scansione classica in tre atti e con al loro interno varie scene. Dei cartelli segnalano allo spettatore in quale atto e scena ci troviamo. E poi comincia il film, nel quale si alterano il testo recitato, gli attori che commentano il testo che stanno recitando, l’autore che interagisce con gli attori, il narratore che racconta tutto questo.
Abbastanza confuso, vero? E invece no. Il film fluisce come una favola che racconta di fotografi di guerra vedovi, di attrici bellissime e fatali, della moglie defunta del fotografo le cui ceneri vengono provvisoriamente seppellite sotto un anonimo cactus, delle tre figlie del fotografo che si credono streghe e cercano di resuscitare la madre, del quarto figlio – il maggiore – che è uno dei ragazzi geniali premiati durante il raduno di giovani astrofili che è l’occasione del film, degli altri giovani intelligentissimi, di una classe di scuola elementare alla quale la maestra fa recitare delle preghiere prima di ogni lezione di astronomia, di generali e presidenti che mettono tutti in quarantena dopo lo sbarco di un alieno che ruba l’asteroide precipitato 5000 anni prima…e tanto altro. Tutto questo nel vuoto di un deserto che si riempie di memoria, di relazioni, di parole e poi si svuota di nuovo mentre dietro le quinte accadono altri fatti tutti comunque rigorosamente finti.
La tonalità grottesca e iperrealistica di Asteroid City fa emergere la ripetitività, il nuovo e la simulazione che le nostre vite ogni giorno sono. La loro immaginazione.

Metafore

Piccolo Teatro Strehler – Milano
Ditegli sempre di sì
di Eduardo De Filippo
con Carolina Rosi, Tony Laudadio, Andrea Cioffi, Antonio D’Avino, Federica Altamura, Vincenzo Castellone, Nicola Di Pinto, Paola Fulciniti, Viola Forestiero, Vincenzo D’Amato, Gianni Cannavacciuolo, Boris De Paola
regia Roberto Andò
produzione Elledieffe – La Compagnia di Teatro di Luca De Filippo, Fondazione Teatro della Toscana

Eduardo De Filippo innesta sulla greve serietà dell’umorismo pirandelliano la dirompente forza del comico partenopeo, ereditato dal padre, dal teatro dell’arte, dalla inesauribile vita napoletana fatta di un linguaggio che è impastato con l’assurdo e con la pienezza del sole.
Di questo innesto che lo ha reso grande, Ditegli sempre di sì è paradigmatico. Si tratta infatti di una tipica situazione ‘pirandelliana’ nella quale il protagonista, Michele Murri, torna a casa dopo un anno di cure in manicomio. I medici garantiscono alla sorella Teresa che Michele è guarito, anche se «non del tutto». E infatti quest’uomo tende a prendere ogni parola e ogni situazione alla lettera, crede a ogni enunciato, pensiero, figura, scherzo, iperbole che gli si comunica. Gli effetti di tale atteggiamento non possono che essere travolgenti e generano una serie assai divertente, e plausibile, di equivoci. Sino a che, e qui si svela il dispositivo profondo del testo, Michele prende per pazzo un giovane aspirante attore, sentendogli dire – pirandellianamente – che la vita è più teatrale del teatro e il teatro più vivo della vita.
Come tutti i testi, anche questo può essere messo in scena in molti modi. La regia di Roberto Andò mostra ancora una volta i suoi limiti scegliendo una tonalità farsesca che in realtà nuoce al comico che intrama l’opera. La quale è, alla fine, una riflessione dolorosa e ironica sulla comunicazione. Prendendo ogni parola alla lettera, Michele Murri annulla gli strati profondi, molteplici e sfavillanti del linguaggio umano. La sua ossessione per la precisione, per la certezza, è la stessa follia del metodo galileiano che innalza il linguaggio della matematica a unico idioma del mondo.
Il linguaggio, invece, come l’esistenza, è fatto di ambiguità, sfumature, polisemanticità, immersione nelle situazioni e nei contesti. In ciò che Morris ha chiamato «pragmatica», al di là della sintassi e della stessa semantica. Della comunicazione va compreso il non detto, che ne costituisce la condizione stessa, assai più che l’esplicitamente pronunciato. Chi invece vuole ricondurre ogni formulazione, frase, espressione, parola, soltanto al suo significato letterale è davvero un folle. Anche per questo è così difficile comunicare. E anche per questo è così meraviglioso parlare e scrivere. «La lingua degli uomini è sciolta, ne sgorgano tante parole (μῦθοι) / diverse, ricca pastura di frasi da entrambe le parti. / Ogni cosa che dici, ne senti un’altra appropriata» (Iliade, XX, 248-250, trad. di Giovanni Cerri) e in modo appropriato devi rispondere, consapevole che dall’altro non arrivano dei suoni ma l’intero suo mondo, alla fine inattingibile nella sua trasparenza, e splendente invece di metafore.

«Plaudite!»

L’innocente
(L’Innocent)
di Louis Garrel
Francia, 2022
Con: Louis Garrel (Abel), Roschdy Zem (Michel), Noémie Merlant (Clémence), Anouk Grinberg (Sylvie), Jean-Claude Bolle-Reddat (Jean-Claude)
Trailer del film

Sylvie insegna recitazione in un penitenziario e si innamora regolarmente di qualche detenuto, sino a sposarli. Stavolta tocca a Michel. Il figlio di Sylvie, Abel, è scettico su questi legami e accoglie malvolentieri il nuovo compagno della madre. Insieme all’amica Clémence pedina il detenuto uscito per buona condotta e scopre che sta preparando una rapina: il furto di un carico di caviale iraniano. L’esuberante amica di Abel lo convince a partecipare al colpo, all’insaputa della madre. Un colpo che sembra semplice ma che inevitabilmente si complica sino a sviluppi paradossali.
Abel svolge attività didattica nell’acquario di Lione e in effetti il mondo appare abitato da pesci grossi, pesciolini, squali. Più o meno reciprocamente indifferenti sino a quando qualcosa non li pone in contatto. Questo qualcosa sono sempre i sentimenti: amore, avidità, amicizia, curiosità, protezione, nostalgia. Sono questi i sentimenti che intessono una commedia leggera ma non banale.
E però il vero centro del film è un altro: è la recitazione, è la metanarrazione, è il teatro dentro al cinema, la finzione dentro la finzione. La prima scena raffigura Michel che recita in carcere. In vista del furto, Michel e un suo complice danno lezioni di regia ad Abel e Clémence, i quali dovranno simulare un litigio per distrarre il camionista che trasporta il caviale. E qui L’innocente raggiunge il suo vertice, rendendo incomprensibile allo spettatore se Clémence e Abel stiano recitando un appassionato colloquio d’amore o se lo stiano vivendo davvero. «Davvero»? Ma è sempre un film, si potrebbe rispondere. E tuttavia che cos’altro facciamo quando interagiamo con la gran parte dei nostri simili se non recitare, simulare, più spesso dissimulare? Senza questo teatro del mondo il mondo sociale non potrebbe esistere, semplicemente.
È questo, com’è ovvio, il fondamento della poetica di Luigi Pirandello. Ed è questo che Pierre Klossowski intuisce nell’enigma della cosiddetta ‘follia’ di Friedrich Nietzsche:
«Mai Nietzsche sembra perdere la nozione del proprio stato: egli simula Dioniso o il Crocifisso e si compiace di questa enormità. Ed è appunto in questo compiacimento che consiste la sua follia: nessuno può dire fino a che punto la simulazione è perfetta, assoluta; il suo criterio sta nell’intensità che egli prova nel simulare, fino all’estasi: ora qui, per giungere a questa gioia estatica, egli deve esser stato sostenuto da un’immensa derisione liberatrice nelle strade di Torino in quei pochi giorni, i primi dell’anno ‘89, quasi un superamento della sua sofferenza morale – derisione di se stesso, di tutto ciò che era stato ai propri occhi, derisione del Signor Nietzsche – ed è a questo punto che nasce la disinvoltura nei confronti dei suoi corrispondenti»
(Nietzsche e il circolo vizioso, trad. di E. Turolla, Adelphi 1981, pp. 346-347).
O, come sembra abbia detto Beethoven morendo, «Plaudite amici, comœdia finita est». Il compositore citava a sua volta le ultime parole dell’imperatore Ottaviano Augusto così come le ricorda Svetonio: «Acta est fabula, plaudite!»

Le ceneri di Pirandello

Leonora addio
di Paolo Taviani
Italia, 2022
Con: Fabrizio Ferracane (delegato del comune di Agrigento), Matteo Pittirutti (Bastianeddu), Daria Marino (Betty)
Trailer del film

Nel filmato che documenta il conferimento del Premio Nobel per la letteratura a Luigi Pirandello (1934), lo scrittore appare piccolo, malinconico, solo. E così infatti descrisse l’evento – come pervaso di solitudine – in una meditazione «sul dolce della gloria e sull’amaro che è costata».
Pirandello voleva rimanere solo per sempre. Stabilì che non si dovesse dare notizia pubblica della sua morte e del funerale, che fosse cremato e le ceneri disperse o, «se non sarà possibile», tumulate «in qualche pietra del luogo dove nacqui». E invece le vicende dei suoi resti furono assai travagliate. L’urna cineraria venne infatti prima tumulata nel cimitero di Roma. Dieci anni dopo la morte (avvenuta nel 1936) venne trasportata con difficoltà in Sicilia. L’aereo destinato a un veloce viaggio da Roma a Palermo non partì perché passeggeri ed equipaggio non volevano viaggiare «insieme a un morto». Dopo il lungo itinerario in treno, sorse il problema della benedizione «di un vaso», cosa che il vescovo non voleva fare. Infine furono necessari quindici anni per la costruzione del monumento funebre nella contrada Caos di Agrigento, monumento e casa di Pirandello che, da quello che so, non sono oggi nelle migliori condizioni.
Non aveva quindi torto lo scrittore a non volere lasciare nulla di sé se non le proprie opere, i personaggi, la disincantata visione delle cose. Leonora addio racconta tutto questo con eleganza formale e tristezza sostanziale. Scorrono le immagini di molti film italiani dedicati alla guerra, alla distruzione, alla morte. Ed è quest’ultimo sentimento, la morte, che sembra prevalere e dominare. Come una lunga malinconia aperta dentro il finire insensato degli eventi.
La seconda parte del film trascorre dal bianco e nero al colore ed è la messa in scena di uno degli ultimi racconti di Pirandello: Il chiodo. Una parte che sembra aggiunta alla prima senza continuità ma che racconta anch’essa del procedere del tempo dentro l’insensatezza e il morire delle azioni e delle passioni umane.
Anche il titolo del film è un’assenza. Infatti dell’omonima novella nulla in esso è presente. Condivido quindi i sei aggettivi che Gianni Canova ha utilizzato per definire quest’opera che sembra proprio non farsi problemi di comprensione e di successo, com’è naturale quando il suo autore è un novantenne che continua a creare in assoluta libertà, per il gusto e il bisogno di farlo: «Un film arcano e misterioso, buffo e solenne, bizzarro e sfuggente». 

Ἀναγκη

Il dubbio. Un caso di coscienza
(Bedoone Tarikh, Bedoone Emza)
di Vahid Jalilvand
Iran 2017
Con: Amir Aghaee (Dr. Nariman), Navid Mohammadzadeh (Moosa), Hediyeh Tehrani (Sayeh), Zakieh Behbahani (Leila)
Trailer del film

Un medico legale investe senza volerlo una moto con sopra una famigliola, compreso un bambino di otto anni. Sembra comunque che nessuno si sia fatto male. La notte stessa il bambino arriva però morto in ospedale. L’autopsia accerta che si tratta di avvelenamento da cibo andato a male ma il dott. Nariman si tormenta sospettando che in realtà sia stata la caduta dalla moto a causare il decesso. Intanto il padre del bimbo finisce in prigione per aver aggredito l’uomo che gli ha venduto i polli avariati che hanno ucciso il figlio. Il tormento dei due uomini fa sentire ciascuno di loro responsabile della morte. E gli attori, tutti, sono ben immersi in questa  inesorabile trama.
Sempre la colpa gorgoglia dall’agire umano, come un drago che soffoca nelle sue spire l’orizzonte. Dalle azioni più insignificanti alle opzioni di fondo dell’esistere sentiamo, sì lo sentiamo proprio, che qualcosa è accaduto con il nostro nascere, qualcosa che non doveva accadere. E che dobbiamo scontare. Da Anassimandro a Ungaretti «la morte si sconta vivendo»; da Eschilo a Pirandello – ben presente nella trama aporetica del film, dove sino alla fine ciò che è è anche ciò che ciascuno vuole che sia–,  γὰρ αὐτὰ δίκην καὶ τίσιν ἀλλήλοις τῆς ἀδικία, le cose sono tutte transeunti e subiscono l’una dall’altra la pena della fine.
Non riusciamo ad accettare che Ἀνάγκη guidi gli eventi, che φύσις κρύπτεσθαι φιλεῖ, che l’essere, l’intero, il sorgere, porti sempre con sé il tramonto, «che il nulla stia fitto dentro il mondo / nessuna sfera ne esce già redenta». I nostri dolori sono meritati come le nostre gioie, al di là dei limiti e delle scelte di ciascuno. Una profonda giustizia domina l’insignificanza delle esistenze umane dentro il tempo.

Psiche

Transfert
di Massimiliano Russo
Italia, 2017
Con: Alberto Mica (Stefano Belfiore), Massimiliano Russo (Stefano), Paola Roccuzzo, Clio Scirè Saccà,  Rossella Cardaci, Rosario Pizzuto
Trailer del film

Dentro i meandri della psicoterapia, sullo sfondo del cielo e del mare di Catania, nella notte e nella metropolitana, tra le carte e le parole, sui letti e davanti agli specchi che moltiplicano le figure, le scompongono, le agglutinano, le separano, le dissolvono e ne ratificano il dolore.
Quando Stefano Belfiore riceve e ascolta i suoi pazienti c’è sempre uno specchio dietro di lui, che dei pazienti riflette la presenza. Ma che cosa significa presenza? In quanti modi si può essere presenti alla mente? La descrizione degli altri umani è anche la descrizione di ciò che noi stessi siamo, della differenza che vorremmo marcare, dell’identità che a loro ci accomuna.
Una sceneggiatura matura, nella quale non ci sono affermazioni superflue e battute fuori posto. Una tensione che va seguita dall’inizio alla fine con molta cura, per non smarrire un filo che si intrica, si dipana, si scioglie e ci sorprende. Una recitazione scandita e mediterranea, esagerata e sottile, sorridente e fredda. L’intrico può sembrare estremo ma -come sappiamo da Pirandello e da altri gorghi- la vita vissuta è a volte più improbabile della vita immaginata.
C’è chi vuole diventare psicoterapeuta e chi, invece, vuole diventare paziente.

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