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Una decadenza

Piccolo Teatro Strehler – Milano
Minetti. Ritratto di un artista da vecchio
di Thomas Bernhard
traduzione di Umberto Gandini
con Glauco Mauri
e con Stefania Micheli, Federico Brugnone, Danilo Capezzani, Francesca Trianni, Pietro Bovi, Giuliano Bruzzese
regia Andrea Baracco
produzione Compagnia Mauri Sturno

Bernhard Minetti è stato l’attore più amato dal drammaturgo Thomas Bernhard (1931-1989) che al suo amico  dedicò un testo teatrale e teoretico di grande interesse.
Minetti. Ritratto di un artista da vecchio raffigura infatti un attore che porta questo nome, il quale ormai molto anziano arriva la sera di Capodanno in un albergo dove ha appuntamento con un direttore di teatro che gli ha chiesto di portare ancora una volta in scena il King Lear di Shakespeare. È questa l’unica opera che Minetti salva dal naufragio della cultura classica, che personalmente detesta, tanto da essersi ritirato dalle scene per non dover interpretare le parole di un mondo al quale non crede più. In verità Minetti non spiega le ragioni di questo rifiuto. Piuttosto in un lungo monologo, al quale prestano ascolto due giovani signore e un impiegato dell’albergo, parla delle città, dei teatri, del pubblico. Tutti elementi verso i quali nutre un astio profondo e insieme un’evidente nostalgia.
Nella messa in scena di Andrea Baracco mentre l’attore parla appaiono figure deformi, dei giovani con le maschere, spettri di un mondo in rovina. Minetti fa continuo riferimento a una maschera di King Lear appositamente preparata per lui trent’anni prima da un grande scultore. Quando le luci della festa e della vita si spengono, l’attore indossa ancora una volta la maschera mentre la scena e la sua finzione vengono disvelate al pubblico.
Glauco Mauri, attore di 92 anni, è capace di ricordare e interpretare l‘intero monologo con i tempi e le pause giuste. La regia è onirica e inquietante e viene così spiegata da Andrea Baracco:
«La scena su cui si aprono le pagine o si levano i sipari di Bernhard è quella del day after: l’esplosione è già avvenuta, è ormai lontana. Il mondo, intatto solo in apparenza, è scardinato in profondità. Follia, gelo, malattia e devastazione: ruota come impazzito seguendo un’orbita indecifrabile e assurda. Il superstite, con facoltà di parola, si pone di fronte a questo caos, a questo perturbamento: tenta di decifrarlo, di contrapporglisi, persegue questo scopo con folle determinazione, pur essendo conscio che porterà soltanto alla dissoluzione fisica e mentale.
L’unica possibilità di sopravvivenza sembra essere, allora la ricerca della perfezione in campi che fino a poco tempo fa erano il luogo della bellezza, del senso: il teatro, la musica, la letteratura, la filosofia» (Programma di sala, p. 4).
In verità Minetti e Bernhard non sembrano cercare la perfezione della conoscenza e dell’arte ma, al contrario, prendere atto di quello che mi sembra un nichilistico rifiuto della parola e della bellezza proprio mentre la parola fluisce un poco ovvia e in ogni caso risentita verso la storia e l’umano.
Il testo è alla fine una metafora dell’inevitabile, del morire. Metafora del tramonto di una vita che non sa perché è stata, quale sia il senso. Il senso non dell’esistenza di Minetti ma di tutti.

Contro l’autorità

Piccolo Teatro Strehler – Milano
L’arte della commedia
di Eduardo De Filippo
adattamento e regia Fausto Russo Alesi
con: Fausto Russo Alesi, David Meden, Sem Bonventre, Alex Cendron, Paolo Zuccari, Filippo Luna, Gennaro De Sia, Imma Villa, Demian Troiano Hackman, Davide Falbo
scene Marco Rossi
produzione Teatro di Napoli – Teatro Nazionale, Fondazione Teatro della Toscana – Teatro Nazionale, Teatro di Roma – Teatro Nazionale, Elledieffe
Sino al 5 novembre 2023

«Venga a teatro, Sig. Prefetto! A Teatro la suprema verità è stata e sarà sempre la suprema finzione…». Un invito decisamente pirandelliano, tanto più che i Sei personaggi in cerca d’autore vengono esplicitamente citati. E tuttavia, subito dopo aver ricordato il titolo di Pirandello, il capocomico Oreste Campese aggiunge «Ma qui Pirandello non c’entra nulla. Non sono i personaggi in cerca d’autore ma gli attori in cerca di autorità».
Campese chiede infatti udienza al prefetto da poco arrivato in città; il capannone della sua Compagnia è andato distrutto da un incendio e la presenza del prefetto alla rappresentazione nel Teatro Comunale sarebbe di lustro e di richiamo. Il prefetto si aspettava una divertente conversazione con un guitto e invece si trova davanti un uomo di teatro dalle sfumature complesse e per il prefetto «sofistiche», che si permette di arruolarlo come «specchietto per le allodole». Rifiuta quindi con sdegno il suo invito. Ma Campese gli promette che presto capirà che cosa siano teatro, finzione, verità.
E infatti le persone che il funzionario riceve nel pomeriggio dello stesso giorno non si comprende se siano reali – il medico, il parroco, la maestra elementare, il farmacista – o se siano gli attori inviati da Campese a recitare le storie che avevano coralmente scritto per il nuovo spettacolo. Storie di inquietudine, di aspirazioni frustrate, di matrimoni divorzi e aborti, di licenze negate e di suicidi, di figli illegittimi e di bambini morti. Il profluvio del dolore umano, della sua ambiguità, della sua inestirpabilità, travolge il prefetto, il suo segretario, il militare a guardia dell’istituzione. E vince il disvelamento che la finzione teatrale sa attuare dell’autorità sanitaria, di quella religiosa ed educativa, del potere politico e burocratico.
Un metateatro messo in scena da Fausto Russo Alesi in modo da estrarre dal testo di Eduardo gli accenti e le forme più dolenti, persino cupe nell’ambientazione oscura delle scene, e nel quale gli attori toccano e fanno suonare l’intera tastiera del recitare: dimesso, allucinato, struggente, grottesco, folle, caricaturale, dignitoso, solitario.
«Un atto poetico e politico per il Teatro» scrive Russo Alesi, «una istintiva risata liberatoria» (Programma di sala, pp. 8 e 10) nella quale De Filippo si coniuga a Kafka e a una delle formule dell’anarchismo: «Una risata vi seppellirà», dove a essere sepolta è l’autorità cadaverica che in questi anni Venti del XXI secolo va mostrando sempre più e in vari ambiti – Ministri della Sanità, Pontefici, Professori e Rettori Universitari, Medici, Presidenti di Repubbliche e Confederazioni – la propria sostanza di morte.

Metafore

Piccolo Teatro Strehler – Milano
Ditegli sempre di sì
di Eduardo De Filippo
con Carolina Rosi, Tony Laudadio, Andrea Cioffi, Antonio D’Avino, Federica Altamura, Vincenzo Castellone, Nicola Di Pinto, Paola Fulciniti, Viola Forestiero, Vincenzo D’Amato, Gianni Cannavacciuolo, Boris De Paola
regia Roberto Andò
produzione Elledieffe – La Compagnia di Teatro di Luca De Filippo, Fondazione Teatro della Toscana

Eduardo De Filippo innesta sulla greve serietà dell’umorismo pirandelliano la dirompente forza del comico partenopeo, ereditato dal padre, dal teatro dell’arte, dalla inesauribile vita napoletana fatta di un linguaggio che è impastato con l’assurdo e con la pienezza del sole.
Di questo innesto che lo ha reso grande, Ditegli sempre di sì è paradigmatico. Si tratta infatti di una tipica situazione ‘pirandelliana’ nella quale il protagonista, Michele Murri, torna a casa dopo un anno di cure in manicomio. I medici garantiscono alla sorella Teresa che Michele è guarito, anche se «non del tutto». E infatti quest’uomo tende a prendere ogni parola e ogni situazione alla lettera, crede a ogni enunciato, pensiero, figura, scherzo, iperbole che gli si comunica. Gli effetti di tale atteggiamento non possono che essere travolgenti e generano una serie assai divertente, e plausibile, di equivoci. Sino a che, e qui si svela il dispositivo profondo del testo, Michele prende per pazzo un giovane aspirante attore, sentendogli dire – pirandellianamente – che la vita è più teatrale del teatro e il teatro più vivo della vita.
Come tutti i testi, anche questo può essere messo in scena in molti modi. La regia di Roberto Andò mostra ancora una volta i suoi limiti scegliendo una tonalità farsesca che in realtà nuoce al comico che intrama l’opera. La quale è, alla fine, una riflessione dolorosa e ironica sulla comunicazione. Prendendo ogni parola alla lettera, Michele Murri annulla gli strati profondi, molteplici e sfavillanti del linguaggio umano. La sua ossessione per la precisione, per la certezza, è la stessa follia del metodo galileiano che innalza il linguaggio della matematica a unico idioma del mondo.
Il linguaggio, invece, come l’esistenza, è fatto di ambiguità, sfumature, polisemanticità, immersione nelle situazioni e nei contesti. In ciò che Morris ha chiamato «pragmatica», al di là della sintassi e della stessa semantica. Della comunicazione va compreso il non detto, che ne costituisce la condizione stessa, assai più che l’esplicitamente pronunciato. Chi invece vuole ricondurre ogni formulazione, frase, espressione, parola, soltanto al suo significato letterale è davvero un folle. Anche per questo è così difficile comunicare. E anche per questo è così meraviglioso parlare e scrivere. «La lingua degli uomini è sciolta, ne sgorgano tante parole (μῦθοι) / diverse, ricca pastura di frasi da entrambe le parti. / Ogni cosa che dici, ne senti un’altra appropriata» (Iliade, XX, 248-250, trad. di Giovanni Cerri) e in modo appropriato devi rispondere, consapevole che dall’altro non arrivano dei suoni ma l’intero suo mondo, alla fine inattingibile nella sua trasparenza, e splendente invece di metafore.

Galileo?

Piccolo Teatro Strehler – Milano
Processo Galileo
di Angela Dematté e Fabrizio Sinisi
dramaturg Simona Gonella
con Luca Lazzareschi, Milvia Marigliano, Catherine Bertoni de Laet, Giovanni Drago, Roberta Ricciardi, Isacco Venturini
regia di Andrea De Rosa e Carmelo Rifici
Sino al 15 gennaio 2023

Presentando lo spettacolo i suoi due autori confessano che stavano lavorando con due diversi registi agli stessi temi. E che successivamente hanno deciso di creare un solo testo e un solo spettacolo. Ahimè, questo si vede. Il risultato sono due atti che diventano tre momenti ma il terzo momento si perde non esprimendo con chiarezza alcuna cesura. Il risultato è un minestrone nel quale si mescolano la vicenda scientifica e processuale di Galileo Galilei; la redazione di un articolo da parte di una giornalista/musicista contemporanea che parla con la madre che cura l’orto e che continuamente afferma di non capire nulla di ciò che lei dice, indicando come soluzione di qualunque problema il coltivare appunto fave e fagioli «ma concimandoli, eh!»; un giovane che si dichiara rivoluzionario dalle barricate del 1821 a Seattle 1999 e a Genova 2001 e che accusa gli apparati scientifici di collusione con quelli politici o almeno questa dovrebbe essere l’intenzione, non del tutto esplicitata se non nel programma di sala.
A questa confusione si aggiunge, ed è l’elemento sicuramente peggiore, un testo intessuto di un moralismo pervasivo, ostentato e banale.
I due registi affermano che «entrambi avevamo il desiderio di ragionare sull’impatto, sempre più forte, che l’apparato tecnico-scientifico esercita sulle nostre vite e sulla nostra socialità. Volevamo farlo a partire da Galileo Galilei, dagli atti del suo processo, dalla sentenza della Santa Inquisizione e dall’abiura dello scienziato, per approfondire i rapporti che, oggi più che mai, legano la scienza alla società e al potere. Che cos’è cambiato da quel lontano 22 giugno 1633? La scienza, che allora era stata costretta ad abiurare, che cosa è diventata? Dove si spingerà in futuro la sua ricerca?» (Programma di sala, pp. 10-11).
Domande talmente complesse da rendere necessario, per tentare di rispondere, un ordine teoretico e drammaturgico che questo spettacolo non possiede. Tanto più in presenza di una scelta spericolata qual è stato cominciare con le parole dello stesso Galilei, di sua figlia Virginia e dell’allievo Benedetto Castelli. Sono i primi dieci minuti e naturalmente sono i più belli perché intessuti di una lingua e di un pensiero limpidi e profondi. Ciò che poi segue appartiene invece ai due autori e ai due registi e sparisce di fronte alla coerenza ed eleganza della scrittura galileiana.
Galilei non fu un martire, fu un uomo abilissimo e uno scienziato geniale, fu soprattutto un filosofo che rifiutò di omologarsi alla scienza del suo tempo, utilizzando tutti gli strumenti possibili per mostrarne i limiti; esattamente l’opposto di ciò che fanno molti scienziati contemporanei che presentano i loro ambiti di ricerca come se fossero verità rivelate (lo abbiamo visto, lo stiamo vedendo con la medicina).
Paul Feyerabend scrive giustamente che «l’esperienza su cui Galileo vuol fondare la concezione copernicana non è altro che il risultato della sua fertile immaginazione, è un’esperienza inventata»; «si potrebbe dire che Galileo inventa un’esperienza che contiene ingredienti metafisici. Proprio per mezzo di una tale esperienza si realizza la transizione da una cosmologia geostatica al punto di vista di Copernico e di Keplero» (Contro il metodo, Feltrinelli 2021, pp. 68 e 77).
Galilei è consapevole del proprio valore, è altero ed è persino sprezzante. Si legga, ad esempio, una delle affermazioni iniziali del Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo: «Tal differenza dipende dalle abitudini diverse degl’intelletti, il che io riduco all’essere o non essere filosofo: poiché la filosofia, come alimento proprio di quelli, chi può nutrirsene, il separa in effetto dal comune esser del volgo, in più e men degno grado, come che sia vario tal nutrimento. Chi mira più alto, si differenzia più altamente; e ‘l volgersi al gran libro della natura, che è ‘l proprio oggetto della filosofia, è il modo per alzar gli occhi» (Edizione Einaudi,  a cura di L. Sosio, 1982, pp. 3-4).
Se si vuole cercare un’occasione per i propri sermoni edificanti e fondati sui valori, conviene rivolgersi ad altri e lasciar stare filosofi come Galilei. Il quale, osserva ancora Feyerabend, anche come «ciarlatano è un personaggio molto più interessante del misurato ‘ricercatore della verità’ che di solito ci viene additato come esempio da riverire» (Contro il metodo, nota 22, p. 89).
Rispetto all’epistemologia di Popper, di Lakatos, di Feyerabend e di altri filosofi del Novecento, nel XXI secolo sembra di essere tornati (davvero incredibilmente) all’ingenuo dogmatismo dei positivisti, con l’affermarsi di una «fiducia acritica nei confronti della scienza», la quale «ha soggiogato anche molti intellettuali, oltre alla maggioranza dei cittadini» (Roberta Corvi, I fraintendimenti della ragione. Saggio su P.K. Feyerabend, Vita e Pensiero, 1992, p. 298).
I veri scienziati sono degli eretici in tutto: nell’ispirazione, nelle procedure, nelle intenzioni. I buffoni conformisti che in questi anni riempiono la televisione presentando la medicina e la scienza al modo di un dogma non sono «scienziati» ma sono semplicemente dei miserabili al servizio dell’autorità costituita e dell’industria farmaceutica.

Mussolini, lo Spettacolo

Piccolo Teatro Strehler – Milano
M Il figlio del secolo
regia di Massimo Popolizio
tratto dal romanzo di Antonio Scurati
collaborazione alla drammaturgia di Lorenzo Pavolini
scene Marco Rossi
costumi Gianluca Sbicca
luci Luigi Biondi
video Riccardo Frati
suono Alessandro Saviozzi
movimenti Antonio Bertusi
con Massimo Popolizio e Tommaso Ragno
e con (in ordine alfabetico) Riccardo Bocci, Gabriele Brunelli, Tommaso Cardarelli, Michele Dell’Utri, Giulia Heatfield Di Renzi, Raffaele Esposito, Flavio Francucci, Francesco Giordano, Diana Manea, Paolo Musio, Michele Nani, Alberto Onofrietti, Francesca Osso, Antonio Perretta, Sandra Toffolatti, Beatrice Verzotti
produzione Piccolo Teatro di Milano-Teatro d’Europa, Teatro di Roma, Luce Cinecittà
in collaborazione con il Centro Teatrale Santacristina
Sino al 26 febbraio 2022

Il fantasma di Benito Amilcare Andrea Mussolini (1883-1945) continua ad aleggiare sul contemporaneo. Perché? Rispondere significa cercare di comprendere il presente nel suo battito profondo, nelle sue paure, nel bisogno di Autorità. È una delle prime affermazioni dello spettacolo: «Guardali: per un uomo avere un Capo è tutto». In 31 quadri tratti dal romanzo di Antonio Scurati M. Il figlio del secolo, Massimo Popolizio intreccia il teatro didascalico-didattico di Brecht e l’imponente visionarietà di Luca Ronconi per costruire una vicenda teatrale nella quale «la chiave di tutto sta nel montaggio» (Programma di sala, p. 10).
Un montaggio che racconta le vicende del fascismo e del suo capo dal 1919 al 1925, a partire dal programma ancora in gran parte socialista di San Sepolcro fino alla seduta del Parlamento del 3 gennaio 1925 durante la quale, assumendosi la responsabilità dell’assassinio di Giacomo Matteotti, Mussolini disse «Se il fascismo è stato un’associazione a delinquere, io sono il capo di questa associazione a delinquere!». Quando un capo di governo arriva a pronunciare parole come queste, è evidentemente sicuro che nulla gli accadrà, come infatti fu, e che anzi da quel momento potrà disporre del potere in piena autonomia, come protagonista, come Attore supremo.
Camillo Berneri, un anarchico che conobbe Mussolini all’epoca in cui questi era socialista, affermò che costui non era fondamentalmente né vile né coraggioso ma che «era capace di coraggio di fronte al pericolo soltanto quando aveva un pubblico cui mostrarsi audace» (Antonio Scurati, p. 17).  Mussolini lo Spettacolo, dunque. 

La tonalità con la quale viene narrato il piano inclinato che portò il fascismo dal completo fallimento elettorale del 1919 alla presa del potere nel 1922 – possibile solo con la piena complicità dei Savoia, della magistratura, dell’esercito, degli industriali- è «una chiave grottesca per uno spettacolo che non è mai ideologico, ma sempre teatrale» (p. 11). Questa affermazione di Popolizio è fondamentale anche perché parziale. La sua messa in scena è certamente grottesca/parodistica; di più – come aggiunge Pavolini – è «una sorta di cabaret espressionista» (p. 18) nel quale la complessità della storia, la tragedia della violenza, la ferrea casualità degli eventi sembrano smarrirsi in una trama puramente spettacolare.
Il regista rivendica l’affrancamento dalla figura di Mussolini, che viene incarnato da un attore non giovane e con la barba bianca (Tommaso Ragno) e, nei momenti più istrionici, dallo stesso Popolizio, i quali interpretano il loro personaggio facendolo parlare sempre in terza persona. Ma Mussolini non è un personaggio qualsiasi. Il suo corpo, la sua fisicità non costituiscono un elemento sostituibile. Mussolini ha bisogno di un corpo, Mussolini è il suo corpo. Dal corpo del capo – cangiante, ridicolo, solenne, dinamico, ammiccante, inquietante – si sprigiona l’aura del potere fascista. E invece Ragno e Popolizio disegnano «un organismo attoriale dove nessuno somiglia nelle fattezze al personaggio storico, ma prova ad impersonarne il destino» (Pavolini, pp. 18-19). Invece che offrire universalità alla messa in scena, questa soluzione ostacola l’empatia che sempre il teatro deve far nascere con il suo oggetto, in modo – come ci ha insegnato Aristotele – da ottenere la catarsi dei sentimenti anche distruttivi che albergano nei suoi fruitori.

È il corpo del duce, dalla bombetta del 1919 all’appeso/capovolto di piazzale Loreto del 1945, a costituire il magnete per le masse. Perché, come ricorda lo storico Marcello Flores, «Mussolini comprende che la società di massa, in Italia, è nata con la guerra, con i contadini-soldati nelle trincee che adesso, reduci, chiedono riconoscimento, integrazione, ricompensa» (p. 21).
Il fascismo è nato dai corpi slanciati e massacrati delle trincee, il fascismo è nato dal Trionfo della Morte del 1914-1918. Ancora Pavolini giustamente scrive che il duce vuole «essere applaudito anche se sta in piedi su una montagna di morti» (p. 19). Il potente infatti è in primo luogo il sopravvissuto, l’unico superstite di fronte alla distruzione dei suoi simili. Il suo trono poggia su mucchi sterminati di cadaveri: «Il più antico ordine – impartito già in epoca estremamente remota, se si tratta di uomini – è una sentenza di morte, la quale costringe la vittima a fuggire. Sarà bene pensarci quando si parla dell’ordine fra gli uomini» (Elias Canetti, Massa e potere, Adelphi 1981, p. 366). Il desiderio di dominare come signore incontrastato su un mondo ridotto al silenzio – rimanendo l’unico ad avere parola e vita – è inseparabile dal timore di poter essere a propria volta ridotti a nulla dalla rivolta di coloro che subivano. Ciò crea la necessità di eliminare il pericolo moltiplicando i cadaveri (in senso letterale ma più spesso traslato). È questa per Canetti la spirale del tutto paranoica del potere.
Canetti disvela la vera e propria natura patologica dell’autorità, nella quale pulsa una volontà di morte che «si trova davvero ovunque, e non è necessario scavare molto nell’uomo per trarla alla luce» (Massa e potere, p. 87). Volontà che in alcuni momenti diventa una cosa sola con il comando. Le epidemie costituiscono uno di questi momenti. Forse l’Ur-Fascismo, il ‘fascismo eterno’, esiste davvero. Sua espressione contemporanea sono il confino (lockdown), l’obbligo vaccinale, i trattamenti sanitari obbligatori (TSO) del tutto arbitrari, la violenza delle polizie contro cittadini inermi, la distruzione delle attività economiche, la devastazione delle comunità, la paura. Le ondate di panico collettivo sono sempre molto pericolose e quella legata alla Sars2 è particolarmente insidiosa anche per la sua dimensione planetaria, globale, dalle conseguenze ambientali assai gravi e intrisa di un asfissiante conformismo.
Canetti ci avverte che l’autorità è sempre potenzialmente paranoica e quando i suoi ordini riguardano la ‘salute’ diventa folle e contraddittoria. Contro tutto questo, il pensiero e la pratica libertari costituiscono una preziosa alternativa, un necessario vaccino. L’epidemia conferma infatti quanto con metodi diversi Elias Canetti e Philip Zimbardo hanno ben mostrato: è sufficiente far indossare una divisa a un essere umano (o dargli in mano un dispositivo di controllo del cosiddetto Green Pass) e le probabilità che costui si faccia prendere dal delirio di onnipotenza e dal sadismo (sempre strisciante nel corpo sociale) diventano molto alte. I decisori politici – sia centrali sia periferici – hanno creato una situazione nella quale tale patologia è dilagata.

L’immagine conclusiva di M. Il figlio del secolo appare quando lo spettacolo è finito e gli attori ricevono gli applausi. La foto in bianco e nero raffigura alcuni ragazzi che indossano delle maschere chirurgiche. Non si comprende se l’immagine si riferisca al presente, al Ventennio fascista, ad altre epoche ma costituisce una raffigurazione inquietante dell’oggi nel quale il fantasma di Benito Amilcare Andrea Mussolini continua ad aleggiare in altri nomi, con altre movenze, in corpi diversi ma altrettanto forieri di morte.

Il tempo, le larve

Piccolo Teatro Strehler – Milano
La notte dell’Innominato
da Alessandro Manzoni
Regia e adattamento Daniele Salvo
Con: Eros Pagni (L’Innominato), Gianluigi Fogacci, Valentina Violo, Simone Ciampi
Produzione Centro Teatrale Bresciano e Teatro de Gli Incamminati
Sino al 31 ottobre 2021

La notte è il luogo della pace ma anche dell’angoscia, dei tormenti che da nulla possono essere attutiti, risolti, ribaltati. L’intero peso della vita a volte si raggruma nell’insonnia, nelle ragioni disperate e violente che impediscono al corpomente di placare la propria fame di dolori. Onde su onde allora rendono il tempo un istante che non finisce più e al quale l’albeggiare sembra offrire solo i segni lividi della morte che si è stati, della morte che si è desiderato essere. Questo può accadere anche a un uomo spietato, sicuro sino alla tracotanza, portatore di morte e di dolore per tanti. Ma Francesco Bernardino Visconti (1579-1647) non sentiva più soddisfazione nel crimine e anzi «già da qualche tempo cominciava a provare, se non un rimorso, una cert’uggia delle sue scelleratezze» (I Promessi Sposi, a cura di Giovanni Getto, Sansoni Editore, Firenze 1985, cap. XX, p. 475).
E allora bastò -nella finzione del romanzo- che davanti a quest’uomo di malaffare piangesse una donnetta per ridurlo all’angoscia più insostenibile. «Cos’è stato? che diavolo m’è venuto addosso? che c’è di nuovo? Non lo sapevo io prima d’ora, che le donne strillano? Strillano anche gli uomini alle volte, quando non si possono rivoltare. Che diavolo! non ho mai sentito belar donne?» (Ivi, cap. XXI, pp. 502-503), dice nella notte a se stesso rimproverando nella notte se stesso, cercando a tentoni nel buio l’uomo che è stato e che ora non è più. A ogni modo pur di scrollare da sé quel tormento, è pronto a liberare la ragazza. Lo farà. Subito, al mattino. Ma «poi? che farò domani, il resto della giornata? che farò doman l’altro? che farò dopo doman l’altro? E la notte? la notte, che tornerà tra dodici ore! Oh la notte! no, no, la notte!» (Ivi, cap. XXI, p. 506).

Questo il nucleo di una messa in scena fedele al testo del romanzo e capace di rinnovarne la lettura tramite dipinti che diventan vivi -Bosch, Antonello e altri-; mediante il trasformarsi dei terrori interiori dell’Innominato in figure orribili e potenti; attraverso quella tonalità gotica che costituisce uno dei segreti dei Promessi Sposi.
È in questa notte che Manzoni ha toccato uno dei vertici della sua arte: il tempo, la noia, il vuoto, l’essere per la morte. Sì, gli esistenziali di Essere e tempo: «Ricaduto nel vòto penoso dell’avvenire, cercava indarno un impiego del tempo, una maniera di passare i giorni, le notti» (Ibidem). Quest’ultima frase non vale soltanto per un criminale incallito, per un delinquente diventato vecchio, per un personaggio di romanzo, per una psiche ormai consunta. Questa frase suona per noi, vale per tutti; è vera per l’umano fatto di tempo, divenire, attesa; costituito di «gewesen-gegenwärtigende Zukunft», ‘avvenire essente-stato-presentante’ (Sein und Zeit, §§ 7C e 65).
Quando il tempo diventa il nemico e l’andare delle ore si trasforma nell’insostenibile itinerario dell’assurdo, vuol dire che intorno a noi si addensano le allucinazioni delle quali questo spettacolo è cosparso: nere come la notte, lugubri come il terrore, impersonali come il vuoto. Larve che scandiscono il fallimento dell’esistere e trasformano i corpi nel battere irrefrenabile dei denti, della febbre, di un’alba che è ancora notte.

La grandezza di Manzoni sta anche nel disvelamento della psiche umana ma abita soprattutto nella piena consapevolezza gnostica del male. L’Innominato è questa  psicologia, è questa conoscenza. Certo, poi tale consapevolezza si dissolve nella gloria edificante della provvidenza incarnata dal cardinale Borromeo. Ma a quel punto interviene un bisogno di superficiale redenzione morale. La sostanza profonda sta nelle altre poche pagine dalle quali l’assurdo dell’esserci, di ciò che si è fatto, del vuoto che si farà, emerge come un mostro indicibile dal lago del tempo.
«Un qualche demonio ha costei dalla sua, – pensava poi, rimasto solo, ritto, con le braccia incrociate sul petto, e con lo sguardo immobile sur una parte del pavimento, dove il raggio della luna, entrando da una finestra alta, disegnava un quadrato di luce pallida, tagliata a scacchi dalle grosse inferriate, e intagliata più minutamente dai piccoli compartimenti delle vetriate. – Un qualche demonio, o… un qualche angelo che la protegge… Compassione al Nibbio!… Domattina, domattina di buon’ora, fuor di qui costei; al suo destino, e non se ne parli più, e, – proseguiva tra sé, con quell’animo con cui si comanda a un ragazzo indocile, sapendo che non ubbidirà, – e non ci si pensi più. Quell’animale di don Rodrigo non mi venga a romper la testa con ringraziamenti; che… non voglio più sentir parlar di costei. L’ho servito perché… perché ho promesso: e ho promesso perché… è il mio destino» (ivi, cap. XXI, p. 496).
Il destino, appunto, il demone che esso è per l’umano. Ἀνάγκη, l’inevitabile. Sino a che la morte verrà a offrire a questo grumo di passioni la grazia. E allora la notte sarà solo pace.

Fame

Piccolo Teatro Strehler – Milano
Furore
Dal romanzo di John Steinbeck
Ideazione e voce Massimo Popolizio
Adattamento Emanuele Trevi
Musiche eseguite dal vivo da Giovanni Lo Cascio
Produzione Compagnia Umberto Orsini / Teatro di Roma-Teatro Nazionale
Sino al 20 giugno 2021

The Grapes of Wrath, è il titolo del romanzo di John Steinbeck (1939). Un titolo biblico, naturalmente: «L’angelo gettò la sua falce sulla terra, vendemmiò la vigna della terra e gettò l’uva nel grande tino dell’ira di Dio» (Apocalisse, 14,20; traduzione CEI).
I grappoli dell’ira, dell’odio e del furore maturavano come frutto acre della polvere e della siccità, delle alluvioni e della catastrofe che colpirono negli anni Trenta del Novecento il cuore degli Stati Uniti d’America, spingendo masse di contadini rovinate e miserabili verso il sogno della California. Dove trovarono «prima compassione, poi disgusto, infine odio», trovarono altra miseria. L’ira, l’odio, il furore furono tuttavia il frutto amaro non della natura ma del capitalismo. Furono infatti le banche ad accaparrarsi le terre espellendo i contadini; furono i mercati a distruggere quantità enormi di frutta e ortaggi in California proprio mentre i contadini morivano di fame; furono i proprietari terrieri e immobiliari a diffondere volantini invitando i contadini ad andare in California, in modo da abbattere i salari e trasformare i vecchi e nuovi lavoratori in schiavi. Non la polvere e le bufere ma l’esercito industriale di riserva produsse la rovina, l’odio, il furore. Una lezione marxiana che i sedicenti ‘progressisti’ non imparano mai, auspicando oggi l’arrivo in Europa di lavoratori dall’Africa e dal Vicino Oriente, disposti a qualunque salario pur di giungere e rimanere, rovinando in questo modo i lavoratori europei e moltiplicando i profitti delle piccole e grandi aziende. Il capitalismo è borderless, è senza patria, è senza confini. Come senza limiti è la rovina prodotta dai buoni sentimenti che ignorano la complessità delle strutture antropologiche e politiche delle società umane.
Nel caso dei contadini americani, poi, si vide all’opera anche la potenza della Nέμεσις contro i contadini bianchi e protestanti che avevano sterminato i pellerossa distruggendo le loro vite, cancellando le loro culture, appropriandosi delle terre che poi le banche sottrassero loro.
Il frutto di tutto questo male -del genocidio, dell’avidità, del capitalismo- fu la fame, semplicemente e orrendamente la fame. Che la vocalità, le posture, gli sguardi, le pause, i toni di Massimo Popolizio e le percussioni di Giovanni Lo Cascio restituiscono nelle sue radici antiche, nella sua immediata potenza, nella sua estensione a ogni attimo della vita e del tempo. La fame che arriva con la polvere; che arriva con i trattori delle banche che spianano le terre e persino le case dei contadini; che arriva con i falò delle masserizie abbandonate; che arriva con le automobili incolonnate lungo la Route 66 (Illinois, Missouri, Kansas, Oklahoma, Texas, Nuovo Messico, Arizona, California); che arriva con le stesse auto in panne, guaste, rabberciate, abbandonate; che arriva con i decreti (anche sanitari!) e i fucili delle autorità californiane; che arriva con la disperazione, come disperazione. La fame, la radice vera della storia umana come storia di mammiferi acculturati.
«How can you frighten a man whose hunger is not only in his own cramped stomach but in the wretched bellies of his children? You can’t scare him – he has known a fear beyond every other».
(The Grapes of Wrath, The Modern Library, New York 1939, cap. 19, p. 323)

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