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Lombarda lingua

Piccolo Teatro Grassi – Milano
Passione
da Giovanni Testori
un progetto di Daniela Nicosia
Con Maddalena e Giovanni Crippa
Produzione Tib Teatro – I Teatri del Sacro – Fondazione Teatri delle Dolomiti
Sino al 2 novembre 2014

passione

Passio Laetitiae et Felicitatis si intitola il romanzo di Testori dal quale è tratto il testo. La passione di Felicita per Letizia, giunta dopo l’affetto di ragazzina verso il fratello Dorigo, schiantatosi con la moto contro il muro di una chiesa; dopo la violenza subita da un uomo sorto dalla malvagità delle tenebre; dopo l’incantamento per il Crocifisso, per la sua eterna giovinezza, per le sue piaghe sensuali, per il suo sangue, per le sue braccia spalancate; dopo il convento e l’amore con la ragazzina dentro le sue mura. Scoperte, aggredite, punite e cacciate, Felicita e Letizia muoiono in un ultimo amplesso tenero e sensuale.
Carna è parola che ricorre nel testo e tra la bocca dei due attori che raccontano e che diventano ciò che narrano. Lo diventano avendo tra le mani la lingua potente di Testori. Lingua impastata, raffinata, plebea, sacra, mistica e pornografica. Una mescolanza di lombardo, di latino, di francese, di italiano arcaico e contemporaneo. È la potenza del significante e del corpo a rendere accoglibile un significato invece radicalmente cristiano. Questa di Passione è infatti la rappresentazione più cristiana alla quale abbia forse mai assistito. Soltanto coloro che credono davvero nel Crocifisso possono bestemmiare come fa Testori, possono inutilmente reclamare da questo dio sofferente una qualche ragione delle sofferenze del mondo, possono essere così intimamente coinvolti nell’evidente masochismo del suo mito. Sembra infatti che l’autore provi soddisfazione a penetrare negli avelli del dolore di Felicita e a confrontarli con quelli del suo dio. La regia conferma tutto questo riempiendo la scena di corde e crocifissi.
Ma la musica -la musica di questo linguaggio espressionistico, inventato e antico- riscatta ogni dolore nello splendore del verbo che si fa carna, che si fa poesia, epica, nike.

«Tu sei maledetta!»

Piccolo Teatro Grassi – Milano
Quando il tiro si alza / When the barrage lifts
Il sangue d’Europa: 1914-1918
Scritto, diretto e interpretato da Guido Ceronetti e dagli attori del Teatro dei Sensibili
Con: Luca Mauceri (Baruk), Eléni Molos (Dianira), Valeria Sacco (Egeria), Filippo Usellini (Nicolas)
e con la partecipazione di Elisa Bartoli (Durga, la ballerina ignota)
Produzione Piccolo Teatro di Milano – Teatro d’Europa
3-5 ottobre 2014

Prima che il sipario si apra campeggia La Guerre di Henri Rousseau (1893). Poi sta e rimane sullo sfondo  una scritta: «1914-1918. La storia dal volto inumano». È vero, certo. Quell’evento terrificante, la cui responsabilità a Versailles venne attribuita alla sola Germania, ha avuto una molteplicità di cause complesse e intricate tra di loro. In ogni caso, ha rappresentato l’avvenimento sinora più importante della contemporaneità. La Prima Guerra Mondiale pose fine non soltanto a un periodo di 44 anni di pace in Europa, non soltanto alla lievità della Belle Époque e alla fiducia del positivismo nelle sorti umane. Pose fine soprattutto all’Europa, per mezzo di quel «suicidio obbligatorio di massa» (così lo definì Guido Piovene, qui ricordato) nel quale vennero massacrate dieci milioni di persone e altre venti furono ferite, storpiate, infollite. Fu il suicidio dell’Europa a favore dell’oriente russo e dell’occidente americano. Ne seguirono la rivoluzione bolscevica, il fascismo, il nazionalsocialismo, la Seconda Guerra Mondiale, Hiroshima e Nagasaki, la Guerra Fredda, il dominio attuale della finanza criminale. Tutto partì da lì, da quello sparo di Sarajevo che in realtà era stato preparato da lungi e nel quale si condensò qualcosa che va oltre le volontà le strutture le cause.
È per questo che quella scritta non è del tutto corretta. Tra il 1914 e il 1918 la storia svelò anche uno dei volti umani più profondi: quello della ferocia. Svelò il volto del Leviatano, di una struttura costruita per evitare la distruzione e che invece della distruzione diventa la causa determinante. Ferocia che arrivò al suo culmine negli Stati Maggiori di tutti gli eserciti, in quell’atteggiamento folle, incompetente e fanatico che accomunò Cadorna ai suoi colleghi di tutti i fronti e che viene descritto in modo perfetto da Kubrick in Orizzonti di gloria.
Guido Ceronetti ha scritto e costruito un cammino lucido, poetico e doloroso dentro il massacro. Lo ha fatto dando voce a testimoni e narratori -Apollinaire, Bloy, Jünger, Döblin, Remarque, Zweig, Lavedan, Ungaretti, Céline- e soprattutto dando carne e movimento ai suoi attori, tutti giovani, intensi, tragici. Il cammino si conclude con un soldato «crocifisso al legno della vostra demenza sadica».
A distanza di un secolo dall’inizio della fine, su quella Guerra sono state pronunciate infinite parole ma essa rimane qualcosa che va oltre le parole.

Theorein / Kairós

Piccolo Teatro Grassi – Milano
Pornografia
(1960)
di Witold Gombrowicz
Con: Riccardo Bini (Witold), Paolo Pierobon (Federico), Ivan Alovisio, Jacopo Crovella, Loris Fabiani, Lucia Marinsalta, Michele Nani, Franca Penone, Valentina Picello, Francesco Rossini
Traduzione di Vera Verdiani
Scene di Marco Rossi
Regia di Luca Ronconi
Sino al 5 aprile 2014

 

Pornografia_3Un romanzo, Pornografia di Gombrowicz, dai molti strati, dai numerosi enigmi. Ronconi lo trasforma in un’azione teatrale nella quale gli attori raccontano i personaggi, descrivono quello che fanno mentre lo fanno. Non soltanto Witold, colui che nel romanzo dice ‘io’, ma anche tutti gli altri. Si raccontano mentre «si comportano» per «non fare altro», mentre parlano allo scopo quasi sempre «di non dire qualcos’altro», mentre sono spesso a terra, striscianti come il verme protagonista di una scena chiave dove amore e morte ancora una volta si accompagnano e si fondono.
I due protagonisti -Witold e Federico- vivono un soggiorno nella campagna polacca mentre intorno infuria la guerra. Loro sono concentrati sulla figlia dell’amico che li ospita e sul ragazzo al loro servizio. Vorrebbero che i due si amassero, si unissero, copulassero. E invece Enrichetta e Carlo mostrano reciproca indifferenza. Il parossismo del desiderio induce Federico e Witold non soltanto a guardare ma anche a costruire situazioni che favoriscano il loro obiettivo. Non li ferma l’arrivo di Venceslao, fidanzato di Enrichetta, di Amelia -madre di lui e donna «cattolica e di alti sentimenti morali»- di un partigiano in crisi, di un giovane ladro che uccide Amelia. Anzi. Ogni evento è inserito in una trama nella quale i due vivono e proiettano la loro potenziale ma evidente omosessualità. Si sentono gli echi del desiderio che muove von Aschenbach in Morte a Venezia, la frenesia che anima Bouvard e Pécuchet, la guerra antieroica e grottesca della Trilogia del Nord celiniana, il modello classico di Aminta.
Il semplice vedere, l’aprire gli occhi e guardare, è in sé pornografico perché l’umano (come ogni altro animale) è una macchina del desiderio che trova nell’eros il culmine del tempo destinato alla vita di ciascuno. In una pagina del suo Diario Gombrowicz scrisse che il vero problema della nostra specie non è la morte ma è «l’invecchiare, questa forma di morte che sperimentiamo ogni giorno. E non tanto l’invecchiare in sé, quanto il fatto di essere così completamente, così terribilmente tagliati fuori dalla bellezza. Quello che ci disturba non è che stiamo morendo, ma che il fascino della vita ci diventi inaccessibile. Al cimitero ho visto un ragazzo che camminava fra le tombe come una creatura di un altro mondo, misteriosa, rigogliosamente in fiore, mentre noi sembravano dei mendicanti» (1953; cit. nel Programma di sala, p. 23). Creatura intessuta di un tempo che appare infinito ma che può anche di botto sparire non nella morte ma nella trasformazione del desiderio in vita, in generazione, in figli. Gombrowicz lo dice con chiarezza: «La bellezza e la gioventù non dovrebbero essere qualcosa di gratuito e di fine a se stesso, un meraviglioso dono della natura, una specie di coronamento? E invece, nella donna, il fascino serve a generare, è foderato di gravidanze e pannolini e la sua massima realizzazione comporta un figlio che segna la fine del poema. Un ragazzo, incantato da una ragazza e da se stesso con lei, non fa in tempo a toccarla che è già padre e lei -madre; quindi la ragazza è una creatura che sembra praticare la gioventù, ma in realtà serve solo a liquidarla» (1954; ivi, p. 25). È la verità. È la negazione del presente in vista di un futuro altrui. È la «liquidazione» della bellezza a favore della generazione di qualcosa che a sua volta diventerà funzionale ad altra carne senza senso.
La corporeità metafisica che intesse Pornografia è anche un modo di affrancamento dal ciclo del nascere e del morire, per diventare il presente nel quale converge il tempo/ora, il Καιρός.

 

Il manierismo di Pirandello

Piccolo Teatro Grassi – Milano
Non si sa come
(1934)
di Luigi Pirandello
Con: Sandro Lombardi (Romeo Daddi), Pia Lanciotti (Bice Daddi), Francesco Colella (Giorgio Vanzi), Elena Ghiaurov (Ginevra Vanzi), Marco Brinzi (Nicola Respi)
Scene di Pier Paolo Bisleri
Costumi di Giovanna Buzzi
Regia di Federico Tiezzi
Sino al 2 febbraio 2014

pirandelloIl consueto interno (o terrazzo) borghese, la consueta duplice coppia, con un quinto personaggio funzionale alla consueta follia di uno dei quattro. Stavolta si tratta della pazzia di Romeo Daddi, il quale non si sa come si prende per una volta la moglie del suo amico Giorgio Vanzi, senza che i due capiscano -per l’appunto- come sia potuto accadere. Tutto finirebbe lì (Einmal ist keinmal) se tale «delitto» non ricordasse a Daddi un lontano e più consistente crimine che aveva commesso da ragazzo. Questo innesca la consueta lacerazione interiore del protagonista, il suo consueto bisogno di rifletterci sopra nella maniera più sottile e più pedante con l’inevitabile esigenza di esternare le proprie riflessioni, il consueto disordine che tale pensiero ad alta voce genera nelle consuetudini e nelle forme ordinate della vita sociale. E infine la consueta rivelazione e il conclusivo dramma.
Se tutto ciò ha avuto un grande significato dentro le forme sociali e drammaturgiche della prima metà del secolo scorso, oggi è diventato una consuetudine banale a sua volta. Un modo di fare teatro e di pensare la vita del tutto oltrepassato dal cinismo individuale e collettivo che vede nei sentimenti o degli strumenti per qualche altro scopo o delle improvvise e temporanee eruzioni della psiche. Sono sin troppo morigerati, ormai, gli scandali che costellano il teatro pirandelliano. Per tacere, poi, dell’«identità», questione che si è rivelata ben più ordinaria e insieme assai più complessa di come lo scrittore l’avesse pensata.
Pirandello vuole dire troppo mentre il miglior teatro contemporaneo esprime piuttosto la rarefazione della parola. Pirandello non ha un briciolo di ironia; in questo è un siciliano atipico, che non a caso sottovaluta il comico a favore dell’umoristico mentre la tragedia è inseparabile dal comico. Pirandello sente il bisogno di emulare la filosofia ma sapendo di non essere filosofo costruisce testi nei quali per un bel pezzo i protagonisti conducono una mascherata lezione di filosofia morale. Tutto questo, insomma, ha poco da dire. È consegnato alla storia del teatro con la sua grandezza e il suo significato ma più passa il tempo più mostra i suoi limiti, non riuscendo Pirandello ad andare oltre l’epoca per la quale ha scritto.
Interpreti e regista qui fanno molto per rendere vivo un testo così segnato dal suo mondo ma il problema non sono loro, il problema è Pirandello.

Appendice didattica
La galleria del Piccolo Teatro Grassi era occupata quasi per intero da studenti dell’ultimo anno di un liceo classico di Milano. I poveretti non ne potevano più (ho dovuto pure richiamarli) e qualcuno ha trascorso le due ore dello spettacolo occupato per intero in un videogioco al cellulare. Mi chiedo, e soprattutto chiedo ai loro insegnanti pur zelanti, che senso abbia portare studenti così fatti a teatro. Non sarebbe meglio dire: «Sentite, ragazzi, c’è questo spettacolo che secondo me potrebbe essere interessante (o didatticamente utile). Se volete, andateci». Invece li intruppano e li portano a vedere qualcosa per la quale, nonostante decenni di scuola e quinquenni liceali, costoro non hanno né voglia né linguaggio. Così è ridotta l’Italica Patria e sarebbe di gran lunga meglio lasciare tali studenti alla televisione e ai videogiochi, alla loro volontaria o involontaria servitù.

 

Un'immobilità senza requie

Piccolo Teatro Grassi – Milano
Il ritorno a casa
(The Homecoming, 1964)
di Harold Pinter
Traduzione di Alessandra Serra
Con: Paolo Graziosi, Alessandro Averone, Elia Schilton, Rosario Lisma, Andrea Nicolini, Arianna Scommegna
Regia di Peter Stein
Sino all’1 dicembre 2013

Il vecchio Max vive in un sobborgo di Londra con i suoi due figli, uno aspirante pugile e l’altro magnaccia, e con il fratello, che fa lo chauffeur. I rapporti tra di loro sono sprezzanti, rancorosi, verbalmente violenti. Una notte torna dopo sei anni dagli Stati Uniti il figlio maggiore, professore di filosofia, con la moglie. Al mattino si scatena la misoginia di questi soggetti dalle vite piatte e senza luce. Ruth sembra la vittima, consenziente ma anche in grado di capovolgere la situazione a proprio vantaggio.
Ancora la famiglia, la sua perversione. Ma l’elemento decisivo è un altro. È una scrittura drammaturgica capace di dire tutto sin dalle prime battute e insieme di svolgere nel tempo il viluppo iniziale di solitudine e di ferocia. I personaggi rimangono sempre gli stessi, nell’immobilità delle loro nature e della loro storia, e però scopriamo sempre qualcosa di nuovo. Personaggi monocordi e schizofrenici, convenzionali e volgari, indifferenti a tutto ciò che non siano i propri bisogni. Nel teatro di Pinter emerge la particolarissima animalità dell’umano. Noi, infatti, non potremo mai possedere l’innocenza degli altri animali, il loro essere d’emblée al di là del bene e del male. Possiamo, invece, situarci al di là del bene e del male, nella sfera dell’oggettività filosofica o in quella del sadismo e del cinismo esclusivamente umani.
Si fa fatica a capire che cosa il pubblico mediamente borghese possa applaudire di una commedia così immorale, che per quasi tre ore conduce lo spettatore dentro i meandri della degradazione. L’abitudine, forse, le convenzioni teatrali. E certamente l’apprezzamento verso una regia capace di porsi al servizio di un’immobilità senza requie.

 

Medea

di Seneca
Piccolo Teatro Grassi – Milano
Traduzione e adattamento di Francesca Manieri
Con: Maria Paiato, Max Malatesta, Orlando Cinque, Giulia Galiani, Diego Sepe
Regia di Pierpaolo Sepe
Sino al 3 novembre 2013

Come un gorgoglio immane della Terra, il rancore la vendetta e l’odio di Medea si scatenano tra le mura di Corinto. La straniera che ha permesso a Giasone di non solcare vanamente il mare, agli Argonauti di raggiungere il vello d’oro, all’umano di aprire lo spazio nuovo delle acque, ora è disprezzata, temuta, radiata. Deve andare via perché Giasone ha una nuova moglie, la figlia di Creonte, re della città. Ma Medea non è nata per subire. Dopo aver donato agli umani le acque, regala loro il fuoco che distrugge Corinto. E a Giasone offre i corpi senza vita dei loro due figli. La passione umana per il possesso totale dell’Altro ha in Medea una delle sue più terribili figure.
Il corpomente di Maria Paiato diventa una Medea terrificante, tenera, disperata, tenace. Diventa parte di una rete simbolica che trasforma la tragedia di Seneca in un testo politico. Al centro della scena c’è infatti un grande e scolorito simbolo degli United States of America; Creonte, Giasone, il coro sono vestiti al modo dei cow-boys; Creusa/Glauce si fa più volte il segno della croce; Medea in certi momenti si copre il viso con un velo. La metafora mi è parsa dunque evidente: la donna straniera e barbara è il mondo islamico irretito e poi ripudiato dall’Occidente, un mondo che si vendica con il terrore.
Una lettura inconsueta e certo forse troppo attualizzante ma che ha il merito di non indulgere in intimismi psicologici che con il mito nulla hanno a che vedere. E che dà alla potente interpretazione della protagonista l’inesorabilità degli eventi che nessuno vuole ma che debbono accadere.

Diversa, diffusa, molteplice

Piccolo Teatro Grassi – Milano
Un amore di Swann
di Marcel Proust
Traduzione di Giovanni Raboni
Drammaturgia di Sandro Lombardi
Con: Sandro Lombardi (Charles Swann), Elena Ghiaurov (Odette de Crécy), Iaia Forte (Madame Verdurin)
Regia di Federico Tiezzi
Sino al 19 maggio 2013

La volgarità è uno dei temi della Recherche du temps perdu.
Volgarità dei salotti, di una società che vive di snobismo, di pettegolezzi, di meschinità elevate al rango di significati. Madame Verdurin ne costituisce l’emblema. Charles Swann la descrive come un uccello le cui piume sono state bagnate nel vino caldo. Questa donna spregevole articola con i suoni appunto di un uccello il proprio odio per tutto ciò che non riesce a comprendere e che la supera.
Volgarità della seduzione. Della finzione d’amore volta soltanto al dominio sull’altro. Di dolci parole vibrate come pietre a colpire il cuore di chi le ascolta. E sottometterlo. Per poi -una volta ottenuto l’obiettivo di farsi sposare o mantenere- volgere la seduzione in insulto, tradimento, ironia. Odette de Crécy -prostituta d’alto bordo, ignorantella e fasulla- conquista in questo modo il tempo e il rango di Charles Swann.
Volgarità del desiderio. Che non si accorge di come stiano arrivando tempeste di sabbia nella vita, onde di polvere, a intasare la lucidità dei neuroni e la calma dei sentimenti. Charles Swann in verità se ne accorge, tanto da rispondere ai primi gesti seduttivi di Odette dicendole che non vuole conoscerla meglio “per non diventare infelice”. Ma cede poi alla menzogna di una donna della quale, molti anni dopo, dirà «j’ai gâché des années de ma vie, j’ai voulu mourir, j’ai eu mon plus grand amour, pour une femme qui ne me plaisait pas, qui n’était pas mon genre!» (À la recherche du temps perdu, “Du côté de chez Swann”, Gallimard 1999, p. 305).
I tre attori che danno vita a questa fenomenologia della ferocia alternano la voce del Narratore con quella dei personaggi, riuscendo in tal modo a trasmettere almeno un’idea della magnifica ricchezza del testo proustiano. Esso ci mostra che L’Altro è un pericolo, l’Altro è un concorrente, l’Altro è un fastidio, l’Altro è anche “l’enfer” (Sartre) ma questa differenza dell’Altro è così drammatica perché l’Altro è la nostra identità, l’Altro siamo noi. L’alterità è costitutiva della vita mentale. Un’alterità che nella vita amorosa diventa  identità. Il soggetto amoroso è un soggetto nichilistico in quanto vorrebbe eliminare la differenza duale a favore dell’identità unica. Ma l’altro rimane irriducibile. È altro perché non è io, è un io che non è me e che non potrà mai diventare me come io non potrò diventare lui. Se lo diventassi, lo annullerei. Se lo diventassimo, ci annulleremmo come alterità. Se infatti l’Altro fosse raggiunto, esso sarebbe negato in quanto Altro. Anche per questo, dato che la ripetizione amorosa è una ripetizione seriale (Deleuze), l’innamorato è un serial killer che opera in base ai due principi della ripetizione e della differenza.
Insignificanza, volgarità, nullità costituiscono la condizione naturale dell’Altro. È soltanto il desiderio di possedere il suo corpotempo -fatto di eventi e di memorie, assai più che il corpo fatto di organi e tessuti- a trasfigurare l’oggetto amoroso nella favolosa e asintotica meta della nostra passione. L’oggetto amoroso è dunque un segno. Un segno dell’intero al quale vogliamo pervenire, là dove la scissione tra il tempo che siamo e il tempo che è possa finalmente annullarsi nella totalità. «Di per sé lei è meno di niente, ma nel suo essere niente c’è, attiva, misteriosa e  invisibile, una corrente che lo costringe a inginocchiarsi e ad adorare una oscura e implacabile Dea, e a fare sacrificio davanti a lei. E la Dea che esige questo sacrificio e questa umiliazione, la cui unica condizione di patrocinio è la corruttibilità, e nella cui fede e adorazione è nata tutta l’umanità, è la Dea del Tempo» (Beckett, Proust, SE 2004, p. 41).
La dea del tempo innamorato è una sorta di Madonna del Desiderio. Appare con volti diversi, abita istanti diffusi, occupa luoghi molteplici. Swann la incontra sotto le specie di una cortigiana bella e feroce. È per Swann e tramite Swann che Odette assume la figura di una Dea sotto il cui incedere “si volgono i mondi”: «Tout d’un coup, sur la sable de l’allée, tardive, alentie et luxuriant comme la plus belle fleur et qui ne s’ouvrirait qu’à midi, Mme Swann apparaissait. […] Or, autant que du faîte de sa noble richesse, c’était du comble glorieux de son été mûr et si savoureux encore, que Mme Swann, majestueuse, souriant et bonne, s’avançant dans l’avenue du Bois, voyait comme Hypatie, sous la lente marche de ses pieds, rouler les mondes» (À la recherche du temps perdu, “À l’ombre des jeunes filles en fleurs”, Gallimard 1999, pp. 503 e 506).

 

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