Skip to content


Forma Quartetto

Piccolo Teatro Grassi – Milano – 7 settembre 2018
Kronos
MI-TO Settembre Musica 2018

Kronos Quartet
David Harrington
John Sherba
violini
Hank Dutt, viola
Sunny Yang, violoncello

Programma
Islam Chipsy, Zaghlala – Dan Becker, Carrying the Past – Fodé Lassana Diabaté, Sunjata’s Time: 5. Bara kala ta – Laurie Anderson, Flow – Michael Gordon, Clouded Yellow – Konono N°1, Kule Kule – Abel Meeropol, Strange Fruit – Terry Riley, One Earth, One People, One Love – Omar Souleyman, La Sidounak Sayyada I – Pete Townshend, Baba O’Riley – George Gershwin, Summertime – Steve Reich, Different Trains

Il Quartetto d’archi è una delle forme più tradizionali della musica classica. Sia come formazione -due violini, viola e violoncello- sia come composizione. Una forma che con il Kronos Quartet è esplosa. Fondato nel 1973, il Quartetto di San Francisco esegue musiche che vanno dal Rinascimento al rock, dal romanticismo a brani di autori contemporanei pensati per questa formazione. Che non si limita a suonare i quattro strumenti ma aggiunge percussioni, utilizza l’amplificazione elettronica, innesta l’esecuzione dal vivo su basi registrate sia strumentali sia vocali. A esplodere è la bellezza, la potenza, l’universalità della musica. E lo fa in un modo assai particolare perché questa universalità -la grande varietà delle epoche, degli stili, dei compositori- viene sempre ricondotta alla forma quartetto, che ne viene dunque trasformata mentre essa trasforma in se stessa tutto ciò che tocca.
A Milano il Kronos ha eseguito un repertorio che ben restituisce il suo eclettico rigore. Da Laurie Anderson a Steve Reich, da Gershwin agli Who, da musiche africane e siriane alla molteplicità del minimalismo.
Una delle iniziative più feconde -tra le tante- del quartetto si chiama Fifty for the Future: The Kronos Learning Repertoire e consiste nella commissione, esecuzione e distribuzione gratuita di cinquanta nuove composizioni in cinque anni. Uno di questi brani è del compositore egiziano Islam Chipsy, si intitola Zaghlala (2017) ed è stato arrangiato da Jacob Garchik. È una musica che coniuga ritmi orientali, raffinatezze elettroniche, danze ancestrali, stridori antichi e resurrezioni nel tempo. Una musica magnificamente eseguita dal Kronos Quartet.
Si può scaricare lo spartito ed ascoltare questa e altre composizioni dal sito Kronos Quartet.

Nonostante

Piccolo Teatro Grassi – Milano
Il teatro comico
di Carlo Goldoni
adattamento e regia di Roberto Latini
con Elena Bucci, Roberto Latini, Marco Manchisi, Savino Paparella, Francesco Pennacchia, Stella Piccioni, Marco Sgrosso, Marco Vergani
produzione Piccolo Teatro di Milano – Teatro d’Europa
Sino al 25 marzo 2018

In pieno Illuminismo, a metà del secolo, nel 1749-1750, Carlo Goldoni compone una commedia che è un manifesto della propria poetica, una dichiarazione di drammaturgia nella quale spiega -non in modo teorico ma dal di dentro stesso del fare teatrale- in che cosa consista la progressiva ma definitiva rivoluzione con la quale sostituisce al teatro dell’arte -e quindi all’improvvisazione degli attori saltimbanchi- il teatro di carattere, e quindi un testo scritto da mandare per intero a memoria e mediante il quale restituire potenza alla parola pensata. Ci furono resistenze, certo, da parte degli attori e del pubblico, entrambi abituati alla sicurezza ripetitiva -si potrebbe dire ‘televisiva’- di battute e lazzi che erano diventati sempre uguali, di maschere fisse. E invece la vita è divenire, trasformazione e incertezza. Aver reso teatro tale divenire, anche questo fa la grandezza di Goldoni.
Il teatro comico è tra le meno rappresentate fra le sue opere. E si capisce perché. Non è facile mettere in scena una teoria. Roberto Latini lo fa con molteplici strumenti: trasforma il testo in un’occasione di riflessione sul teatro contemporaneo, citando esplicitamente le messe in scena di Giorgio Strehler e facendosi permeare da quelle di Leo de Berardinis; raccoglie una tradizione che va da Alighieri -il capocomico Orazio invita i suoi attori ad attraversare l’ignoto recitando il Canto di Ulisse- a Pirandello, come se i personaggi cercassero il loro autore; fa delle luci una forma di scrittura e pone a destra della scena una statua di Arlecchino che in vari momenti precipita, come a segnare la fine del teatro di maschera; utilizza musiche contemporanee quali il Requiem di Preisner.
E tuttavia lo spettacolo rimane freddo. Gli attori -soprattutto nella prima parte- muovono in modo frenetico gli arti, non stanno mai fermi, come se ci fosse un’intima sfiducia nelle parole di Goldoni, come se esse non bastassero. E soprattutto manca unità di stile. Sembra di assistere a diverse prove di modi in cui potrebbe essere messa in scena la commedia. Può sembrare un apprezzamento, questo, vista la natura del testo goldoniano ma invece è un limite. Perché tutto e in tutti i modi si può scrivere, musicare, dipingere e realizzare ma l’unità del pensiero che intrama questo fare deve sempre esserci e apparire.
Bella e profonda è comunque l’intuizione di fondo di Latini, che fa di questa commedia programmatica un’espressione tragica. Gli attori si muovono in gran parte come marionette e sulla scena appaiono dei veri manichini, il corpo di Arlecchino viene fatto letteralmente a pezzi, come a pezzi e a marionette spesso la vita ci riduce. Ci sono delle regole in essa, nella vita, che si possono formulare in equazioni persino quando riguardano l’imponderabile e l’irrazionale. I sentimenti, ad esempio. Nulla c’è di veramente imprevedibile nella traiettoria dei sentimenti. Basta avere i dati e il risultato fuoriesce. Dati che nessuno può conoscere per intero, certo. E questo dà l’illusione dell’imprevisto. Tenera, comica e tragica è l’esistenza. Non possiamo farci nulla, se non benedirla nonostante.

Don Giovanni / Il teatro

Piccolo Teatro Grassi – Milano
Elvira
(Elvire Jouvet 40)
di Brigitte Jaques – da Molière e la commedia classica di Louis Jouvet
Traduzione: Giuseppe Montesano
Con: Toni Servillo, Petra Valentini, Francesco Marino, Davide Cirri
Regia di Toni Servillo
Coproduzione Piccolo Teatro di Milano – Teatro d’Europa, Teatri Uniti
Sino al 18 dicembre 2016

Il legame di Toni Servillo con Louis Jouvet è fatto di ammirazione, gratitudine, continuità. Ammirazione per il modo assoluto con cui questo attore, vissuto tra il 1887 e il 1951, intende il recitare; gratitudine per ciò che da lui ha imparato; continuità per la presenza costante dei suoi insegnamenti in ogni battuta e in ogni gesto di Servillo.
Per Jouvet e Servillo gli attori devono sapere «che quando si misurano con un testo si confrontano con un materiale poetico, che essi stessi devono diventare poesia vivente» (Programma di sala, p. 10). E poesia sono anche le lezioni che Jouvet impartì a una giovane attrice tra il 14 febbraio e il 21 settembre del 1940 a Parigi. Lezioni dedicate all’atto IV, scena 6 del Don Giovanni di Molière, nel quale Elvira incontra per l’ultima volta Don Giovanni, chiedendogli di redimersi, di salvarsi. Queste lezioni vennero stenografate da Charlotte Delbo e trasformate nel 1986 da Brigitte Jacques in un testo che Servillo ha messo in scena con la dedizione e la stupefacente bravura di chi abbandona totalmente i personaggi cinematografici che gli hanno dato fama, per concentrarsi in modo direi ascetico sull’essenza del teatro.
Nelle sue lezioni Jouvet rimprovera l’allieva per il suo ‘sentirsi bene’, dicendole: «Ogni volta che avete la sensazione che una cosa vi viene facile, parlo di una cosa ottenuta senza sforzo, questo non è bene. L’esecuzione di una parte, quale che sia, comporta sempre qualcosa di difficile, di doloroso, qualcosa a cui deve prendere parte uno sforzo» (p. 46). Una riflessione drammaturgica che in Servillo diventa anche meditazione civile: «Siamo vittime, in questo Paese, negli ultimi trent’anni, di una cultura che ha messo al centro il modello della mediocrità. Si crede che tutto sia facilmente raggiungibile» (p. 14).
Ma più a fondo, più a fondo si pone il teatro rispetto a ogni contingenza storica. Il teatro è da sempre una struttura asintotica, che si avvicina all’infinito al suo obiettivo senza mai riuscire a coglierlo. Una frase detta da Jouvet all’attrice ne è segno: «In questo passo c’è qualcosa di sconvolgente, a cui non arrivi» (p, 51). Nella vita c’è qualcosa di sconvolgente, di antico, di enigmatico, a cui non arriviamo. La cultura è un tentativo di venirne a capo, un tentativo di comprendere nel duplice senso del capire e del portar dentro.
«Jouvet ha messo in parallelo il mistero di Don Giovanni col mistero della recitazione» (p. 11), afferma ancora Servillo. Don Giovanni è l’asintoto, è la metafora, è il sogno, è l’abbandono, è la pienezza, è la menzogna, è la verità. Don Giovanni è il teatro.

Un oggetto estremo

Piccolo Teatro Grassi – Milano
Natura morta con attori
di Fabrizio Sinisi
Con: Alessandro Averone, Federica Sandrini
Regia di Alessandro Machìa
Rassegna Trame d’autore 2016

Matteo contatta Marta su Internet. Si incontrano a casa di lui. A poco a poco si ricordano di essersi già visti a Venezia, alcuni anni prima, durante una manifestazione studentesca alla quale entrambi erano indifferenti: lei perché immersa nella lettura della Bibbia, lui intento a scrivere poesie.
Un dialogo serrato, tragico, feroce intrama questo spettacolo fatto di pochi gesti e di molte parole. All’inizio i due attori recitano e commentano ciò che dicono, parlano dei propri personaggi. E questo rende tutto assai intrigante. Poi però la densità filosofica del dialogo e la trasformazione del dire in un poetare rendono ciò che si vede e che accade in scena una pura espressione linguistica, adatta più alla lettura che al palco di un teatro.
Natura morta con attori è un oggetto estremo, che punta dritto allo splendore accecante della verità attraverso il deserto della finzione, attraverso la potenza della rappresentazione. Un oggetto reso ancora più arduo dalle metafore che i due personaggi incarnano: Marta è una prostituta votata alla santità; Matteo è un poeta, killer seriale di altri poeti.
Forse è troppo per un testo solo. Il «silenzio pieno di gioia» che conclude la rappresentazione è qualcosa che ascoltiamo senza percepirlo, qualcosa che non si dà.

Dal fondo

Piccolo Teatro Grassi – Milano
Lourdes
Libero adattamento da Lourdes di Rosa Matteucci (Adelphi, 1998)
Collaborazione alla scrittura scenica di Andrea Cosentino
Con: Andrea Cosentino
Musiche originali eseguite dal vivo da Danila Massimi
Adattamento e regia di Luca Ricci
Rassegna Trame d’autore 2016

Maria Angulema, non più giovane, mai bella, va a Lourdes per chiedere conto a divinità e madonne della morte del padre, di una vita solitaria, dell’angoscia che pervade la propria esistenza e probabilmente quella di tutti gli umani, va a Lourdes per avere «formale spiegazione e magari soddisfazione di tanta sofferenza al Padreterno». Bardata da improbabile dama di carità, Maria è angariata da finte malate, da superiori inflessibili, è immersa nel puzzo e nello schifo. Delusa e rassegnata, trova tuttavia un qualche senso in quel luogo liquido e magico.
Andrea Cosentino dà corpo e voce a questa donna e ai personaggi che incontra. Corpo e voce mobili, teneri, disgustosi, ironici, perduti, redenti. Anche dal fondo della miseria umana può tralucere una qualche scintilla del sacro.

«Perché ci siamo?»

Piccolo Teatro Grassi – Milano
Dipartita finale
di Franco Branciaroli
Con: Gianrico Tedeschi (Pol), Ugo Pagliai (Pot), Franco Branciaroli (Toto, la morte), Maurizio Donadoni (il Supino)
Regia di Franco Branciaroli 
Sino al 14 giugno 2015

Dipartita_finalePol e Pot sono forse gli ultimi due mortali rimasti sulla Terra ormai incandescente. Sono vecchissimi, sono oltre ogni età. Uno rimane sempre a letto e per lo più dorme, l’altro lo sostiene. Con loro sta il Supino, un immortale che però ha deciso di non seguire tutti gli altri Ricchi nella colonizzazione di nuovi pianeti. Tra dialoghi chiaramente beckettiani e situazioni da commedia surreale, arriva la Morte. La quale però non vuole più prendersi nessuno ma soltanto starsene tranquilla. Anzi, si sente pure male e alla fine è lei a morire. Il Supino si alza -era rimasto per l’appunto disteso lungo tutto il tempo- e fa un lungo discorso nel quale pone molte domande tra le quali quella fondamentale: «Perché ci siamo?».
Il cosiddetto Teatro dell’Assurdo è in realtà un Teatro Gnostico e questa inversione del titolo beckettiano ne costituisce una prova ulteriore. Dipartita finale è una ironica, divertente, radicale riflessione sul morire e sull’essere stati, sull’eternità e sul tempo. «Perché ci siamo?» è la domanda alla quale il testo/spettacolo risponde in modo pirotecnico e pieno di energia, disperazione e umorismo. Una risposta precisa e netta alla domanda sull’essere stati non c’è. Il significato ultimo è suggerito da una trama di linguaggio allusivo, amaro, ultraironico, in ogni caso dolente verso tutto ciò che è umano. La forma è spettacolare perché è intessuta di umorismo, di gaio turpiloquio anche, di una modalità vicina all’invito nietzscheano a ridere. A farlo in ogni caso, anche nel caso della più totale insensatezza. Dipartita finale è quindi anche un compendio di un corso di filosofia, o almeno di un seminario sull’esistenzialismo, tenuto da un teatrante -come Branciaroli- esperto e gigione, carnale e metafisico.

Mammona

Piccolo Teatro Grassi – Milano
Lehman Trilogy
di Stefano Massini
Regia di Luca Ronconi
Con: Massimo De Francovich (Henry Lehman), Fabrizio Gifuni (Emanuel Lehman), Massimo Popolizio (Mayer Lehman), Paolo Pierobon (Philip Lehman), Roberto Zibetti (Herbert Lehman), Fausto Cabra (Robert Lehman), Martin llunga Chishimba (Testatonda Deggoo), Fabrizio Falco (Salomon Paprinskij), Raffaele Esposito (Pete Peterson), Denis Fasolo (Lewis Glucksman), Francesca Ciocchetti, Laila Maria Fernandez
Scene di Marco Rossi
Produzione Piccolo Teatro di Milano – Teatro d’Europa
Sino al 15 marzo 2015

Henry, Emanuel e Mayer Lehman provenivano da Rimpar, un paesino della Baviera. Nel 1850 fondano a Montgomery (Alabama) la loro società. Da commercianti di tessuti che erano si sono inventati un nuovo mestiere, quello di mediatori. Comprano il cotone dalle piantagioni e lo rivendono agli industriali che lo trasformano in tessuti. Dopo la Guerra di Secessione si trasformano in banchieri, oltre che in commercianti di caffè. Finanziano le ferrovie attraverso le obbligazioni, con le quali diventano ricchi, molto ricchi. Poi il petrolio, l’impegno in politica di uno dei loro figli come governatore di New York e senatore. Sopravvivono al crollo del 1929. Durante e dopo la Seconda guerra mondiale estendono i loro affari in tutti i continenti. Finanziano l’industria dello spettacolo, la televisione, i prodotti di consumo. Negli anni Ottanta e Novanta del Novecento la Lehman Brothers giunge al culmine del suo Beruf, della vocazione-professione a «comprare soldi per vendere soldi, per prestare soldi, per scambiare soldi», come afferma Philip Lehman già alla fine dell’Ottocento. Il core business della Lehman Brothers diventa quindi il trading, la pura speculazione sui prodotti finanziari più rischiosi, sui titoli spazzatura, sui mutui subprime, sui derivati, sulle truffe più legali che esistano. Sino al crollo finale. Il 15 settembre del 2008 la Banca dei fratelli Lehman cessa di esistere.
Centosessanta anni di storia del capitalismo ebraico-statunitense narrati in modo calmo, lucido, onirico, interiore e oggettivo dalle voci dei Lehman, dalle loro azioni, dai loro entusiasmi, dalla loro abilità, dalla loro spregiudicatezza, dai loro sogni e incubi, dai loro matrimoni, dalle loro mogli, dai loro figli, dalle loro morti. All’inizio veniva rispettato lo Shivà, i sette giorni di lutto alla morte di un membro della famiglia, poi gli affari non potranno più aspettare, la Borsa non chiude mai.

La componente religiosa emerge in tutta la sua forza da questo testo e dalla sua messinscena. Una componente identitaria, dove la struttura fondamentale è sempre il danaro. Produzione di danaro per mezzo di danaro, Baruch Aschem, benedetto il Signore. Una produzione infinita che causa una rovina determinata non «da fenomeni di corruzione o di malaffare, quanto invece da un insieme, verrebbe da dire, di patologie sistemiche» (Stefano Massini, Programma di sala, p. 14). Sistemica perché a un certo punto della storia europea prima e mondiale poi, il danaro non è stato più cercato per ottenere qualcosa ma è stato cercato per se stesso. Una differenza fondamentale rispetto al millenario desiderio di essere ricchi e di vivere più agiatamente. Una patologia che non è rimasta limitata a cerchie ristrette di banchieri, usurai, avari, paperon de’ paperoni nuotanti nell’oro, ma è diventata la frenesia di milioni di persone che affidano i loro risparmi e le loro speranze a una finanza molto più rischiosa del gratta e vinci o del gioco delle tre carte negli angoli più nascosti delle città perdute. Massini ricorda che il vicepresidente di Lehman «al momento del crollo non ebbe problemi a dichiarare che nessuno di loro aveva idea di quanti e quali fossero i debiti della banca» (p. 19).
Ma davvero tali patologie non hanno nulla di corrotto o di malaffare? «Le agenzie di rating  nel 2007, alla vigilia di una nuova crisi, promuovevano ancora con ottimi voti alcune banche virtualmente fallite» (Sergio Romano, p. 25). Solo incompetenza? Non lo credo possibile. «Richard Fuld, l’amministratore della banca, aveva da tempo presentato dei falsi bilanci e negli ultimi dieci anni aveva versato 300 mila dollari a deputati e senatori del congresso americano per corromperli, è stato messo sotto inchiesta da altri membri del congresso stesso» (Wikipedia). Complicità, dunque, e conflitti di interesse: «Il valore teorico di tutte le categorie di derivati è aumentato negli ultimi vent’anni di venti volte ed è oggi calcolato in 600 trilioni di dollari, vale a dire 10 volte il prodotto interno lordo mondiale» (S. Romano, pp. 25-26).

I Lehman Brothers attinsero alla volontà di ricchezza di milioni di persone e ne fecero il fondamento del loro desiderio di non morire, di diventare immortali, come dichiara Robert Lehman. Il modo in cui Massini, Ronconi e i magnifici attori che interpretano Lehman Trilogy mettono in scena tutto questo è coinvolgente sino all’immedesimazione e al divertimento. Il ritmo variabile della scrittura e del testo raggiunge un vertice e un vortice durante una delle scene finali, quando Robert Lehman, dopo aver creato una specifica Divisione Trading nella Banca assumendo a questo scopo i più spregiudicati finanzieri, comincia a ballare insieme a due di loro il twist. In quel tremare e godere di tutto il corpo dei tre attori sembra di toccare e sentire la follia più fonda, la ὕβρις.
Cinque ore di teatro, di affabulazione, di passioni, di epica vissuta su un palcoscenico assai semplice, nel quale ogni oggetto, ogni insegna, ogni sedia, ogni movimento dice una cosa sola: Mammona. «Nessun servo può servire a due padroni: o odierà l’uno e amerà l’altro oppure si affezionerà all’uno e disprezzerà l’altro. Non potete servire a Dio e a mammona» (Lc. 16,13). Ma c’è chi ci riesce benissimo.

Vai alla barra degli strumenti