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Mente & cervello 72 – Dicembre 2010

La sensazione di essere liberi è tra le più belle e gratificanti che si possano provare. Liberi dal dolore e dalle angosce, prima di tutto. Liberi anche dalla dipendenza verso le persone e le cose. Se la prima però -quella dalle persone- è di fatto illusoria poiché siamo animali sociali e strutture comunitarie, anche la seconda -quella dalle cose- è continuamente sottoposta alle più diverse forme di dipendenza.
Non soltanto le vecchie dipendenze dall’alcol e da altre droghe ma anche dal gioco, dallo shopping compulsivo, da Internet (e da Facebook in particolare). Dipendenze ancora più profonde sono quelle dall’età, dalla memoria, dalla sua ricostruzione attiva di significati, dalla sua perdita. Dipendenze dalle sindromi più diverse, come quella “dell’impostore”, le cui vittime «non credono che i propri successi siano dovuti alle loro capacità. Sono invece convinte di dover ringraziare, per il buon giudizio ricevuto dalle loro performance, il proprio fascino, le proprie conoscenze o semplicemente la fortuna» (B.Spinath, p. 81). Dipendenze dall’intreccio profondo di biologia e cultura, come si vede dal disagio e dai tabù che tuttora vigono intorno al menarca, alle mestruazioni, a quel ciclo femminile nel quale si incontrano riferimenti cosmici (alla Luna) e repulsioni fisiologiche. Nonostante laicizzazioni, liberazioni sessuali, uguaglianze di genere, «basta un “promemoria” dell’esistenza del ciclo, atavico richiamo alla condizione di inferiorità fisica, per far prevalere l’istinto», fino al punto che la pubblicità riguardante il ciclo «per vendere i propri prodotti sempre più sicuri e a prova di “incidente”, abbia rinforzato l’idea che l’appalesarsi del sangue mestruale o dell’assorbente costituiscono un evento disastroso, da evitare in tutti i modi» (D.Ovadia, 56 e 58). Dipendenze da psicologi e psicoterapie, le quali «non [sono] sempre utili e, anzi, in alcuni casi [possono] persino far male», tanto che «chi si sottopone a psicoterapia dovrebbe quindi essere informato dei possibili effetti collaterali, proprio come succede quando vengono somministrati nuovi farmaci» (C.Spitzer, R.Richter, B.Löwe, H.Freyberger, 72 e 74). Dipendenze da superstizioni, amuleti, gesti scaramantici che spesso producono reali effetti positivi per la ragione che «credere nei portafortuna aumenterebbe il senso di “auto-efficacia” delle persone, e sarebbe questo sentimento di “posso farcela” a predire il successo, non certo qualche magica proprietà dell’oggetto in sé», poiché «l’influenza degli oggetti portafortuna e dei rituali propiziatori dipende strettamente dalla nostra fede nei loro poteri intrinseci» (P.Valdesolo, 103).

La mente è davvero «in qualche modo, tutto», come sostiene Aristotele (De anima, Γ, 431b) e come si vede anche nell’ampio, interessante e divertente dossier di questo numero, dedicato alle illusioni ottiche più diverse e stupefacenti, che inducono a porre ancora una volta l’antica domanda metafisica su che cosa sia davvero la realtà: «quando sperimentiamo la sensazione della “rossezza”, o l’apparenza della “quadratezza” di una cosa, ma anche quando viviamo emozioni come l’amore e l’odio, questi non sono che i risultati dell’attività elettrica dei neuroni del nostro cervello […]. Tutti noi, insomma, in un certo senso, viviamo nella “matrice” di illusioni creata dal nostro cervello» (S.L.Macknik e S.Martinez-Conde, 30). Esemplare il caso delle figure ambigue -come quella, celebre, del vaso e dei due profili- nel quale «l’oggetto fisico non cambia affatto, eppure la nostra percezione oscilla fra due o più interpretazioni possibili. Per questo motivo, le immagini ambigue sono usate in molti laboratori nella ricerca dei correlati neurali della coscienza» (Id., 26).
Dipendenza dai meccanismi profondi delle cellule che ci costituiscono, e in particolare delle loro terminazioni, quei telomeri che la biologa e premio Nobel Elizabeth Blackburn ha paragonato in modo efficace «ai cilindretti di plastica che circondano le estremità dei lacci da scarpe, impedendo ai fili di separarsi» (A.Kortrscal, 98) e che si accorciano un poco a ogni divisione cellulare, sino a consumarsi del tutto e a far morire la cellula. È questa una delle cause conosciute dell’invecchiamento, i cui processi sono comunque «complessi e non dipendono da un solo enzima. Fra l’altro l’accorciamento dei telomeri che fa invecchiare e morire le cellule protegge anche l’organismo dai tumori aggressivi, che si alimentano proprio grazie all’attività della telomerasi» (Id., 100). Ebbene, la lunghezza dei telomeri dipende molto dallo stress della persona, dalle sue condizioni sociali, ambientali, esistenziali: «diversi fattori, come quelli riguardanti il comfort dell’abitazione, o esperienze difficili vissute nell’infanzia, sembrano influire sulla lunghezza dei telomeri» (Ididem). E a loro volta stress e malattie possono costituire la conseguenza della lunghezza dei telomeri. Il condizionamento è dunque bidirezionale e molteplice toccando sfere apparentemente assai diverse come i cromosomi, le memorie, le attese, i contatti sociali, i luoghi che abitiamo. E tutto questo conferma ancora una volta l’unità radicale e profonda del corpomente.

La sensazione di essere liberi è tra le più belle e gratificanti che si possano provare. Lo siamo davvero? Al di là della questione -pur fondamentale- del libero arbitrio, per quanto riguarda le libertà quotidiane, soltanto se diventiamo consapevoli della forza di ciò da cui dipendiamo potremo cercare di essere un po’ più liberi.

Yayoi Kusama. I want to live forever

Milano – Padiglione d’Arte Contemporanea
Sino al 14 febbraio 2010

Un mondo fatto di colori intensi, di zucche gigantesche, di pois che riempiono oggetti e spazi, di luci psichedeliche, di ambienti ricoperti da reti. E soprattutto gli Infinity Nets, installazioni semplici e straordinarie, nelle quali si guarda dentro una scatola e si vede la propria immagine moltiplicata in strutture tridimensionali, all’infinito; nelle quali si entra in una stanza -dal titolo Aftermath of Obliteration of Eternity– fatta di specchi, lampade e acqua e non si ha più la percezione delle pareti, dell’alto o del basso, del limite e dell’intorno e si ha invece la sensazione che altre dimensioni siano possibili alla percezione e alla mente.
Un inesausto creare, quello di Yayoi Kusama, venato di sottile angoscia ma salvato dall’intuizione del sempre e dell’ovunque che intesse la nostra ambizione di viventi.

Alessandro Papetti. Il ciclo del tempo

Milano – Cortile di Palazzo Reale
Sino al 20 settembre 2009

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Esplicitamente ispirata alle grandi tele che Claude Monet costruì a Giverny, l’opera di Papetti è composta di tre grandi installazioni a spirale, dedicate rispettivamente all’acqua, all’aria, al bosco.
Il ciclo dell’acqua è abitato da numerosi personaggi immersi in un colore dantesco, come se dalla nera pioggia si aspettassero una qualche disperata e necessaria purificazione. Nel ciclo del vento una sola donna costituisce il fuoco del vortice orizzontale che la investe. Il bosco diventa la corsa verticale dello spaziotempo e dello sguardo umano che lo coglie.
Quello di Papetti è un figurativismo denso di materia, di percezione estrema che continuamente rinvia alle sensazioni interiori dei paesaggi, delle situazioni, degli enigmi. Anche tale complessità è il tempo, il suo ciclo.

Monet. Il tempo delle ninfee

Milano – Palazzo Reale
Sino al 27 settembre 2009

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Il giardino di Claude Monet a Giverny, le stampe giapponesi delle quali fu appassionato collezionista, le fotografie quasi indistinguibili dalle stampe, la foto di Nadar che ritrae lo sguardo dell’artista come fosse scolpito, un filmato che lo vede al lavoro. E ovunque, nelle sale di Palazzo Reale, la vibrazione delle forme e dei colori, le ninfee come segno e promessa di un segreto che sta nella luce e nell’occhio che la assorbe. L’artista scrisse che «tutti i miei sforzi sono volti a realizzare il maggior numero possibile di immagini intimamente collegate a realtà sconosciute». Un dipinto dal titolo Glicine (1919-20) sembra finalmente cogliere e restituire le sfumature più intime della realtà e dello sguardo, della sintesi attiva che la mente compie sul mondo.

E sono soprattutto le quattro versioni qui presenti del Ponte giapponese a esprimere l’identità profonda della materia con la percezione/visione. In questi dipinti la figura si frantuma e si dissolve progressivamente in impressione pura del colore. A proposito delle sue ninfee, Monet disse una volta a Thiébault-Sisson che «l’effet, d’ailleurs, varie incessamment. Non seulement d’une saison à l’autre, mais d’une minute a l’autre, car ces fleurs d’eau sont loin d’être tout le spectacle; elles n’en sont, à vrai dire, que l’accompagnement. L’essentiel du motif est le miroir d’eau dont l’aspect, à tout instant, se modifie grâce aux pans de ciel qui s’y reflètent, et qui y répandent la vie et le mouvement. Le nuage qui passe, la brise qui fraîchit, le grain qui menace et qui tombe, le vent qui souffle et s’abat brusquement, la lumière qui décroît et qui renaît, autant de causes, insaisissables pour l’œil des profanes, qui transforment la teinte et défigurent les plans d’eau» («Les Nymphéas de Claude Monet», Revue de l’Art, luglio 1927, p. 44).





Mente & Cervello 53 – Maggio 2009

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L’utilizzo del lettino sul quale far stendere i pazienti fu suggerito a Freud non da un’esigenza intrinseca all’analisi ma solo dal fatto -assai più banale- che «non sopportava di dover guardare in faccia il paziente e di essere osservato per tante ore al giorno»; e anche questo conferma il sostanziale disinteresse del fondatore della psicoanalisi «per gli aspetti specificamente terapeutici, a fronte di un’attrazione per le questioni teoriche» (A. Castiello d’Antonio, pp. 46-47).

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Inis Mor

 Catania – Ex Monastero dei Benedettini 
Sino al 25 aprile 2009

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La pittura è sguardo, è vibrazione della mente sul mondo. È una poiesi che a volte intende riflettere ciò che l’occhio percepisce, altre vuole -invece- inventare forme. Ma non si dà contrasto tra realismo e astrattismo perché la bellezza -come sapeva il Kant della terza Critica– sta nell’occhio di chi guarda. Sta nello sguardo di chi crea. È anche per questo che l’artista irlandese Jane Proctor può dipingere e descrivere l’isola Inis Mor senza che sulla carta appaiano onde e prati. Del mare e dei campi, infatti, si distilla la serialità, la ripetuta potenza della natura, la ricerca umana di regolarità nel mondo.

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