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Fatti / Interpretazioni

Mente & cervello 108 – dicembre 2013

M&C_108Provate a guardare con attenzione la copertina qui a sinistra del numero 108 di Mente & cervello. Che cosa notate? Lo scaffale di un supermercato. Certamente. Guardate  meglio e troverete dell’altro.
In filosofia esiste un segnale quasi sempre efficace per individuare la stanchezza teoretica o la subordinazione della filosofia stessa a esigenze esterne. Questo segnale è l’approccio ingenuo che presume di poter indagare una realtà assoluta. Il realismo insomma. Basta, infatti, tener conto della grande complessità del corpomente e delle sue relazioni con la materia nella quale è immerso e in cui consiste per rendersi facilmente conto che «quello che vediamo non è un’immagine fedele della realtà, ma la ricomposizione eseguita dal cervello di molti dettagli colti dagli occhi in rapida successione. E il modo in cui il cervello crea la realtà […] è fonte di innumerevoli inganni, o per lo meno di clamorosi errori di interpretazione» (M. Cattaneo, p. 3). Il corpomente non è una videocamera che registra qualcosa a essa esterno ma costituisce piuttosto una lampada che fa essere la strada mentre la illumina percorrendola. Ecco perché da scienziati e quindi anche da filosofi si può sostenere -come fa Cattaneo citando Enrico Bellone, entrambi fisici di chiara impronta scientista- che quanto definiamo realtà è una materia grezza plasmata dalla nostra percezione e ordinata dalla nostra attività cerebrale. Si può dunque concludere con serena razionalità che fatti e interpretazioni sono tra di loro inestricabili e dalla loro convergenza deriva la complessità -e anche l’interesse- del mondo. Se, infatti, «vedessimo effettivamente ciò che incamerano i nostri occhi, il mondo sarebbe un luogo confuso», che diventa ordinato perché quella umana «è una specie di cercatori visivi, costantemente a caccia di novità, di bellezza, di compagnia, di cibo e di significato» (M.C. Hout e S.D. Goldinger, 26 e 31); un elenco che mi sembra sintetizzi bene gran parte di ciò che siamo: dispositivi semantici.
Lo dimostra anche la memoria, che è sempre dinamica, cangiante, creativa, ermeneutica per l’appunto. Lo studio delle strutture mnemoniche del cervellomente è tra gli ambiti più aperti e più difficili, nel quale le interpretazioni sono diverse e interessanti. Una di esse sostiene che «nel tempo, l’ippocampo insegnerebbe come rappresentare un ricordo alle parti circostanti del cervello: la corteccia. Quando il ricordo è maturo, l’ippocampo lo scaccia, ed esso va a risiedere nella corteccia. […] Una teoria alternativa spiega queste discrepanze proponendo che l’ippocampo immagazzini selettivamente un certo tipo di memoria -quella ‘episodica’- mentre la corteccia circostante ne immagazzinerebbe un’altra, quella ‘semantica’» (E. Reas, 102). Quando si torna a un certo ricordo esso viene trasformato, ricontestualizzato, ancora una volta interpretato. E questo è una conferma della dimensione e della funzione costruzionista, e non semplicemente rappresentativa, della vita mentale.
Una struttura così complessa non può funzionare sempre alla perfezione. Bizzarrie, errori, eccessi e tristezze sono parte ineliminabile e sana della vita. E invece la convergenza di interessi tra le case farmaceutiche e la pretesa egemonica della psichiatria sta medicalizzando la vita. L’ho scritto anche qui più volte ma adesso è uno degli stessi autori del Manuale Diagnostico Statistico -lo psichiatra Allen Frances- a denunciare tale gravissimo andazzo. Si assiste a una vera e propria «epidemia di autismo o di disturbo bipolare infantile, o nuove malattie inventate di sana pianta. La normale timidezza può essere ‘fobia sociale’, la tristezza che segue un lutto diventa depressione clinica» (M. Capocci recensendo Frances, 105)  e così via medicalizzando, prescrivendo farmaci e terapie, arricchendo gli innumerevoli avvoltoi che pretendono ci sia un solo modo di vivere una condizione mentale che dichiarano assoluta, mentre si tratta anche in questo caso e in gran parte di interpretazioni. Lo dimostra la diversa reazione che si può avere di fronte agli stessi eventi: «Chi non rumina e non si rimprovera per le difficoltà che deve fronteggiare presenta minori livelli di ansia e va meno incontro alla depressione, anche quando nella sua vita si sono verificati eventi negativi» (A. Oliviero, 18). Nei termini come di consueto chiarissimi di Schopenhauer: «Il mondo in cui un uomo vive dipende anzitutto dal suo modo di concepirlo. […] Quando ad esempio degli uomini invidiano altri per gli avvenimenti interessanti in cui si è imbattuta la loro vita, dovrebbero piuttosto invidiarli per la dote interpretativa che ha riempito siffatte vicende del significato, quale si rivela attraverso la loro descrizione» (Parerga e Paralipomena, tomo I, a cura di G. Colli, Adelphi 1981, p. 426). È in questa direzione semantica, prima che ermeneutica, che il mondo è un’interpretazione.

 

Pensieri, parole, memorie

Mente & cervello 105 – settembre 2013

Ha poco senso subordinare il linguaggio al pensiero o viceversa. Ha poco senso perché entrambi sono la manifestazione privata e pubblica, interiore e oggettiva, della potenza semantica che caratterizza la nostra specie. Il linguaggio è scandito nel tempo, le parole vengono pronunciate l’una dopo l’altra a formare delle frasi che compongono a loro volta una descrizione, un’analisi, delle narrazioni. Il carattere sequenziale del linguaggio è anche un dato tecnico, che però si fonda sulla struttura della mente umana, la quale non è nel tempo ma è essa stessa temporalità vivente, rammemorante, intenzionale.
Ha quindi ragione Charles Fernyhough a ritenere che il pensiero sia «fatto di parole tanto che i bambini prima di imparare a parlare non hanno veri e propri pensieri» (cfr. R. Fulci, p. 21). Il pensare  è un fatto intrinsecamente linguistico, che produce sia le percezioni sia la memoria. Lo dimostra anche il celebre esperimento del “gorilla invisibile” che passa in mezzo a dei giocatori di basket e che pochi spettatori vedono, poiché «le nostre intenzioni, i bisogni e le aspettative influenzano ciò che percepiamo. […] Il cervello è tutt’altro che passivo nei confronti dell’ambiente: seleziona, sceglie e rinforza solo quello che vuole vedere» (D. Ovadia, 81-83). Non esiste insomma alcuna «immacolata percezione», per ricordare la battuta di Robert Kaplan, nonostante l’imperversare mediatico di realismi vecchi e nuovi.

Per un continuista come me è sempre una soddisfazione trovare conferme ai nessi profondi tra l’animale umano e gli altri. In questo numero di Mente & cervello ce ne sono due piuttosto significative, che riguardano entrambe la memoria, persino quella “involontaria” analizzata da Bergson e Proust. Scimpanzé e orangutan sembrano in grado di «ricordare immediatamente in quale scatola cercare uno strumento visto in un’unica occasione, un’esperienza ripetuta solo quattro volte e vissuta tre anni prima» Davvero «l’elenco delle straordinarie affinità con i nostri cugini primati continua ad allungarsi» (E. Melotti, 22). Se i primati sono filogeneticamente vicinissimi all’Homo sapiens, non altrettanto si può dire della planaria, un piccolo verme piatto del quale è nota da tempo la capacità di rigenerare la propria testa dopo che essa è stata tagliata, «il bello è che l’individuo con la testa nuova ricorderà le nozioni imparate prima della ghigliottina» (R. Fulci, 23). Il biologo Michael Levin, che insieme ad altri colleghi ha verificato questa capacità, afferma che «una cosa è certa: abbiamo dimostrato lo straordinario fatto che la memoria sembra essere conservata da qualche parte al di fuori del cervello» (cit. da Fulci, 23).
Gli studi di Antonio Damasio, e in generale la filosofia della mente, sanno che a pensare è l’intero organismo. La mente dipende dalle interazioni tra il cervello e il corpo e quindi è dall’intero corpo che essa scaturisce e non soltanto da un suo specifico organo. La mente, in altri termini, è pienamente e integralmente embodied, incorporata, e non costituisce solo una funzione del cervello. Di questa mentememoria corporea Nietzsche era del tutto consapevole:

Non esiste un organo specifico della “memoria”; tutti i nervi, per esempio della gamba, si ricordano di precedenti esperienze. Ogni parola, ogni numero è il risultato di un processo fisico che in qualche posto si è stabilizzato nei nervi. Tutto quello che è stato assimilato organicamente nei nervi, continua a vivere in essi. Vi sono onde condensate di eccitazione, quando questa vita ulteriore penetra nella coscienza, quando cioè ci ricordiamo di qualcosa.
(Frammenti postumi 1879-1881, in «Opere» Adelphi, vol. V/1, fr. 2 [68], p. 301)

 

Dato / Significato

Gianni Berengo Gardin. Storie di un fotografo
Palazzo Reale – Milano
A cura di Denis Curti
Sino all‘8 settembre 2013

180 fotografie scelte dall’autore tra un milione e mezzo di scatti. Immagini catalogate e divise in Gente di Milano, Morire di classe -sui manicomi che rinchiudevano i soggetti sociali più deboli-, Dentro le case, Venezia -amatissima dal fotografo-, Comunità romanì in Italia -la vita degli zingari nei loro campi-, I baciLavoro, Fede Religiosità Riti. Gli anni Settanta nella città lombarda sembrano sfilare davanti ai nostri occhi con tutta la loro ingenua radicalità; tra i ritratti sono assai espressivi quelli di Ugo Mulas e Gabriele Basilico, colleghi di Berengo Gardin; dappertutto, nei baci nelle automobili nei canti, si sente una profonda pietà per gli umani, per l’effimero triste che siamo.
In una conversazione con Giusy Randazzo (Gente di fotografia, numero 56, pp. 94-99) Berengo Gardin afferma che non si sente un artista ma un fotografo. Non per modestia ma, al contrario, perché convinto della specificità e forse della superiorità della fotografia sulle altre arti figurative. Tra i pittori, Berengo afferma di preferire gli astrattisti e in particolare Mondrian. In un’immagine della sezione della mostra dedicata al lavoro –Osaka del 1993- mi è parso di ritrovare la purezza formale di quell’artista. Di fronte alla convinzione di Berengo Gardin che «la macchina fotografica serve per fare foto di documentazione», per dare conto della “realtà”, gli si potrebbe obiettare che quando dei fotografi o non fotografi «guardano qualcosa non stanno riproducendo la realtà ma qualcosa che è sempre filtrato dalla loro mente» e che la cosiddetta realtà è a colori mentre la sua opera è rigorosamente in bianco e nero, affinché chi osserva non venga distratto da altro che non sia il contenuto dell’immagine. La verità è che il mondo è nell’occhio di chi guarda. La sensibilità di Berengo Gardin verso l’accadere è talmente alta che dal suo osservare il flusso -e fermarlo in un istante- non emerge alcuna “documentazione” ma splende, semmai, il significato delle relazioni umane. Non il dato ma proprio il significato.

 

I farmaci, l’umano gregge e la realtà

Mente & cervello 96 – Dicembre 2012

Abbiamo un problema di salute, consultiamo un medico che ci prescrive dei farmaci, andiamo a comprarli. Ma che cosa c’è dietro quel sobrio pacchetto che ci viene consegnato, dentro quelle più o meno colorate pastiglie? Ci sono pratiche molto pericolose, alle quali è bene porre attenzione. Pratiche descritte da Gabriella Rosen a proposito dell’intreccio tra la ricerca farmaceutica, i finanziamenti che crescono con il numero degli animali massacrati e dei volontari umani che provano le medicine, i risultati gravemente distorti che ne conseguono. In ambito psichiatrico, in particolare, molti volontari simulano delle sindromi che in realtà non hanno, allo scopo di farsi accettare come cavie retribuite.

Di conseguenza gli studi possono produrre risultati sospetti che a loro volta possono influenzare le decisioni dei medici sulla terapia per un numero infinito di altri pazienti. Alcuni di questi trial falliscono completamente forse proprio per il fatto che vengono arruolati i pazienti sbagliati. Il conseguente aumento del costo dello sviluppo di un farmaco, che attualmente si aggira intorno a 1,8 milioni di dollari per l’immissione sul mercato di un solo nuovo prodotto, ricade su tutti noi in quanto consumatori e contribuenti. […] Secondo McEvoy gli sperimentatori possono ricevere pagamenti diretti da 10.000 a 30.000 dollari per ogni paziente arruolato. […] Gli sperimentatori sono dunque motivati ad arruolare il maggior numero di pazienti, e non i migliori, nel minor tempo possibile. […] È stato dimostrato che i ricercatori con un interesse finanziario credono che i pazienti siano significativamente più malati rispetto agli scienziati non motivati a riempire lo studio. (pp. 32-38)

Anche Marco Ferrazzoli, in un altro articolo, conferma che la situazione è grave a causa degli enormi interessi finanziari in gioco, per i quali la salute delle persone è un mezzo e non uno scopo:

Nel 1996, dopo l’appprovazione della FDA, la Purdue Pharma aveva lanciato l’Oxycontin, un antidolorifico che raggiunse «in un anno vendite oltre 40 milioni di dollari, salite nel 2000 a un miliardo e nel 2008 a 2,5 miliardi di dollari». Ma il rischio di dipendenza, «dichiarato minore dell’1 per cento», raggiungeva invece il 50 per cento, «una probabilità analoga a quella dell’eroina». Negli Stati Uniti, la Purdue è stata condannata nel 2007 a una penale di 646 milioni di dollari per pubblicità ingannevole, «ma i proventi sono stati così elevati che permettono alla casa farmaceutica produttrice di subire qualunque class action», conclude Wagner. (48)

[Sullo stesso tema segnalo una nota pubblicata sul sito de Le Scienze]

La teoria proposta da René Girard del desiderio mimetico, come struttura dalla quale si genera la socialità umana, è al centro dell’interesse non soltanto dei filosofi ma anche dei neurologi e degli imprenditori della comunicazione. Girard ritiene infatti che «gli uomini non desiderano gli oggetti per il loro valore intrinseco, ma per quello che credono gli altri gli attribuiscano» (F. Sgorbissa, 75).
Più in generale, il desiderio mimetico starebbe a fondamento di pratiche molto diverse tra loro come l’amicizia, la creazione culturale, la maternità («Sono le espressioni della madre/modello -piacere, sorpresa, disgusto- a suggerire al bambino il valore delle cose del mondo» [80] )- e facebook.
«Una delle figure forse meno note dietro al network di tutti i network, Facebook, è infatti un fedele seguace di Girard. Peter Thiel è stato uno dei primi finanziatori di Facebook, ed è anche uno degli ideatori e il CEO di PayPal. Imprenditore della Silicon Valley di grande successo, ma anche filosofo futurista e conservatore liberista, è anche fortemente convinto che gli esseri umani tendano a comportarsi come un gregge. E a questo gregge lui vuole vendere cose» (81). Thiel ha ideato e gestisce il sito www.imitatio.org, nel quale vengono presentate le idee di Girard e la loro applicazione al marketing.

A disdoro, ancora una volta, di ogni ingenuo e antiscientifico realismo metafisico, numerose esperienze cliniche confermano che «l’occhio è un buon obiettivo, ma la fotografia che trasmette alla mente è soggetta a rimaneggiamenti. Il ruolo dell’informazione, vale a dire il messaggio visivo che proviene dall’occhio, è inferiore rispetto ai complessi processi di elaborazione compiuti dalla mente per giungere a un’interpretazione di quanto si è visto. Le neuroscienze ci dicono infatti che anche nell’ambito dell’arte la visione non è una fotografia fedele della realtà: ciò che vediamo dipende da vari fattori, legati alla struttura e alle proprietà dell’occhio, alle caratteristiche della corteccia visiva, ai processi mentali» (A. Oliverio, 18).
Recensendo un volume di David Eagleman dedicato alla Vita segreta della mente, anche Marco Motta scrive che «vedere il mondo intorno a noi ci sembra un atto semplice e naturale, invece è il frutto di un processo di costruzione della realtà molto sofisticato operato dal cervello con i dati entranti e le aspettative ereditate dal passato» (105). Aspettative rivolte al futuro e che affondano nella densità di ciò che siamo stati. È questo, assai più di qualunque sintesi passiva, a squadernare di fronte a noi il mondo, che è sempre una sola cosa con la mente.

Luoghi/Percezione

1984. Fotografie da Viaggio in Italia. Omaggio a Luigi Ghirri
Palazzo della Triennale – Milano
A cura di Roberta Valtorta
Sino al 26 agosto 2012

Anni dentro gli anni, opere dentro le opere. Nel 1984 Luigi Ghirri inventa e costruisce il paesaggio italiano contemporaneo chiedendo a venti fotografi di posare il loro sguardo sui luoghi che fanno l’Italia. Nel 2004 Maurizio Magri e Vittore Fossati girano un film che ricostruisce e fa rivivere la mostra realizzata vent’anni prima. Nel 2012 la Triennale di Milano ripropone quel film e cento delle fotografie esposte a Bari nel 1984.
Dalle parole degli artisti e dalle loro opere emerge ancora una volta la verità fenomenologica per la quale gli oggetti, i luoghi, le situazioni che vediamo sono anche il frutto dello sguardo con il quale osserviamo le cose, attraversiamo gli spazi, costruiamo i paesaggi. Il cosiddetto “realismo” è un pregiudizio, lo sguardo “puro” è un’interpretazione. L’oggetto del fotografo non è un dato empirico ma è uno stile, lo stile del suo sguardo. Lo confermano i tanti modi, i diversi approcci, i differenti risultati che questa mostra testimonia (dei quali dà conto un’ampia recensione di Giusy Randazzo). Il mondo è la sua percezione. In questo senso -gnoseologico e non ontologico- aveva proprio ragione il vescovo George Berkeley. L’esse della fotografia è la sua attiva percezione del mondo. Esemplari, in questo senso, sono le opere di Gabriele Basilico e di Olivo Barbieri. Basilico trasforma lo spazio in una forma nitida, in una geometria del silenzio. Barbieri mediante un raffinato utilizzo di luci artificiali trasfigura i luoghi anche più abituali nella gloria di pure immagini.

Vedere

L’occhio e lo spirito
(L’Œil  et l’Esprit [1960], Gallimard, Paris 1964)
di Maurice Merleau-Ponty
Trad. di Anna Sordini
Postfazione di Claude Lefort
SE, Milano 1989
Pagine 75

Che cosa significa vedere? In che cosa consiste il mondo di colori, forme, strutture che si impone appena apriamo gli occhi? L’arte, e in specie la pittura, descrivono il reale oppure lo producono? Quali saperi sono più adatti a comprendere la relazione  che intercorre tra i sensi, il cervello e l’essere? Le scienze dure manipolano il reale e rinunciano ad abitarlo, afferma Merleau-Ponty, poiché prendono in considerazione soltanto le componenti quantitative che esse stesse hanno elaborato in modo che possano essere registrate dagli apparati di cui si servono. Vale anche per esse il principio fenomenologico fondamentale secondo cui noi «vediamo solamente quel che guardiamo» (p. 17). La fenomenologia è anche un tentativo di guardare l’esterno della materia e l’interno della coscienza non come contrapposte ma in quanto generate entrambe dalla stessa matrice, che è il corpo isotropo. Il movimento di ciascuno, infatti, «è il proseguimento naturale e la maturazione di una visione» (18), la quale si struttura come un cerchio il cui centro è la materia consapevole di esistere -il corpo, appunto- e le cui onde sono la penna e il computer, il sole e le stelle, le montagne e le case, tutto ciò che la visione tocca e che noi stessi diventiamo nel tocco della visione. Vedere è dunque «la metamorfosi delle cose stesse nella loro visione», è «la doppia appartenenza delle cose al grande mondo e a un piccolo mondo privato» (31).
Per questo, secondo Merleau-Ponty, ogni teoria della pittura è sempre anche una metafisica della visione e dipingere significa comprendere in atto che «qualità, luce, colore, profondità, che sono laggiù davanti a noi, sono là soltanto perché risvegliano un’eco nel nostro corpo, perché esso li accolga» (20). È dal corpo quindi che si genera il mondo reale, inteso come mondo percepito, sentito, compreso e vissuto. In quanto si muove e vede, vede e si muove, il corpo

tiene le cose in cerchio intorno a sé, le cose sono un suo annesso o un suo prolungamento, sono incrostate nella sua carne, fanno parte della sua piena definizione, e il mondo è fatto della medesima stoffa del corpo. (19)

Al di là di soggettivismi e oggettivismi, di idealismi e di realismi vecchi e nuovi, una fenomenologia corporea  ci aiuta a penetrare nell’enigma della visione, dello spazio, della pittura, la quale non è cartesianamente disegno ma è quell’«indeciso mormorio dei colori» che ci mostra «cose, foreste, tempeste, insomma il mondo» (33).
Ultimo scritto di Merleau-Ponty -redatto in Provenza nell’estate del 1960, nel paesaggio abitato da Cézanne-, L’Œil  et l’Esprit, l’occhio e la mente, «facendo vedere con delle parole» (Lefort, p. 75) restituisce al linguaggio la sua natura ontologica e all’essere delle cose la loro scaturigine dalla materia che parla, dal corpo che vede e che guarda.

Mente & cervello 88 – Aprile 2012

È spontaneo, facile, quasi istintivo scorgere negli oggetti e nelle situazioni più diverse dei volti o dei profili umani: montagne, fette di pane, rocce, liquidi e tanto altro, diventano facilmente occhi, naso, bocca. La ragione è evidente: «I volti sono indispensabili per la nostra sopravvivenza […], una buona parte del cervello è dedicata a individuare e riconoscere facce. […] Non essere in grado di notare un ghigno poco amichevole, ci potrebbe mettere in grave pericolo» (R. Wiseman, p. 80). Qui sta anche la radice della miriade di credenze nel paranormale, la facilità con la quale suoni, forme, immagini vengono attribuiti a entità e a potenze misteriose. Siamo infatti «progettati per credere» (questo è il titolo dell’articolo di Wiseman) «ma lo stesso meccanismo che ci permette di arrivare rapidamente a conclusioni esatte a partire da pochi dati può anche generare falsi positivi, o persino portarci completamente fuori controllo» (Id., 77).

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