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Bambini

Sabato 23 novembre 2024 alle 17,00 nella Villa Di Bella di Viagrande (CT) parteciperò a un evento dal titolo Leave the Kids alone / Lasciate in pace I bambini. Sulle pedagogie transumaniste. Ne discuterò con Marialisa Granata, Davide Miccione e Luisa Ragonese.

«La questione femmine/maschi, la questione gender, va compresa in particolare nell’ambito delle tendenze transumanistiche che agitano il presente e che si implementano ogni giorno nelle pratiche della cosiddetta Intelligenza Artificiale.
Per quanto potente, raffinata e frutto di investimenti miliardari, l’Artificial Intelligence è infatti soltanto un mezzo, un assai potente mezzo, volto non agli scopi per i quali viene di solito presentata, proposta, difesa. L’obiettivo di fondo è uno dei più antichi che varie culture umane abbiano immaginato e a volte perseguito, di solito però con strumenti religiosi e non tecnologici. Tale scopo è il transumanesimo, il progressivo abbandono dei limiti somatici e temporali dell’animale umano (la sua finitudine) per attingere invece forme e comportamenti di controllo accurato e completo del mondo e, in prospettiva, per non morire più.
[…]
Condizione ulteriore di tale riduzione è lo smarrimento dell’identità anche sessuale, sostituita da una ontologia flussica, che vede nella corporeità un abito volontaristico e non una necessità materica. Da qui l’invenzione e l’imposizione di una bizzarra neolingua che partorisce di continuo nuove categorie LGBTQ, LGBTQ2S, LGBTTQQIAAPP, che affianca a termini più o meno tradizionali – come lesbiche, gay, omosessuali, queer – formule sempre nuove quali transgender, asessuali, pansessuali, intersezionali, non binari, a due spiriti, intersessuali.
Si tratta anche in questo caso di un primato della volontà individuale sulla potenza del σῶμα, prospettiva che fa parte del più generale primato del velleitarismo teorico sulle strutture del reale, degli algoritmi sul materico, di una percezione completamente deformata rispetto al principio di realtà, rispetto a un’ontologia realistica che non ritiene il mondo frutto della percezione umana, della conoscenza umana, dello spirito umano».
(Ždanov. Sul politicamente corretto, pp. 107-110)

«Chiudo questo capitolo ribadendo dunque un’evidenza che per l’ideologia woke è tabù: la differenza (non la gerarchia, che è da respingere, ma proprio la differenza) tra il maschile e il femminile. Paul B. Preciado è un militante neofemminista spagnolo, autore di un manifesto contro ogni ‘stereotipo di genere’ che costituisce un’apologia dell’ano, «zone érogène commune à tous les humains sans différence de sexe, orifice non discriminant et marqueur d’égalité; “zona erogena comune a tutti gli esseri umani senza differenza di sesso, orifizio inclusivo e indicatore di uguaglianza”», il quale «s’impose comme le nouveau ‘centre universel contrasexuel’. D’où cet éloge déconstructionniste de l’anus, socle d’un universalisme enfin libéré de l’emprise des normes hétérosexuelles. […] Se situer par-delà le pénis et le vagin, organes de la différence des sexes, dont il faut cependant souligner qu’il ne s’agit que de ‘constructions sociales’; “si afferma come il nuovo ‘centro controsessuale universale’. Da qui questo elogio decostruzionista dell’ano, fondamento di un universalismo finalmente liberato dall’influenza delle norme eterosessuali. […] Situarsi al di là del pene e della vagina, organi della differenza sessuale, dei quali bisogna in ogni caso sottolineare che non sono altro che ‘costruzioni sociali’».
Tale versione analocentrica del mondo dice davvero molto sulla totale assenza di umorismo che è un altro dei limiti della visione woke della società.
Tutto questo contraddice talmente la realtà – realtà che esiste e che accade, al di là di ogni astrattezza decostruzionistica – da risultare alla fine insostenibile.
[…]
Essere maschi ed essere femmine non per volontà ma per natura è un’espressione della potenza della materia; alla Gender Theory va quindi rivolta una critica in primo luogo materialistica e per la quale neppure la filosofia dell’ano di Preciado e di altri potrà superare la prova del tempo, fondata com’è sui sogni di un visionario che saranno decostruiti e cancellati da una metafisica capace di rispettare il reale, tutto il reale, la realtà della differenza, anche la realtà della differenza tra femmine e maschi».
(Ždanov. Sul politicamente corretto, pp. 122-124)

Il corpo nel rapporto educativo

Il «Dipartimento di Scienze Umane e dell’Innovazione per il Territorio» dell’Università dell’Insubria (Varese) prevede un corso dedicato a Scienza e fantascienza nei media e nella letteratura, tenuto dal Prof. Paolo Musso, docente di Filosofia teoretica.
Il corso organizza dei seminari che quest’anno sono collegati anche al Congresso mondiale di astronautica, che si tiene a Milano dal 14 al 18 ottobre. Nell’ambito di questo Congresso il 18 ottobre 2024 si svolgerà a Varese una giornata di studi sul «futuro della comunicazione» nella quale terrò una relazione dal titolo Il corpo nel rapporto educativo.
Sosterrò, in sintesi, che il fondamentale legame tra educazione e corporeità rende insostituibile la didattica in presenza. Docenti e studenti non costituiscono infatti dei pixel su un monitor ma sono dei corpimente che soltanto nello spaziotempo fisico possono incontrarsi, dialogare, formarsi e crescere.

 

Russia

Prima di pubblicare sul mio sito una pagina sulla Russia che ho ricevuto da un amico ho chiesto a un’altra amica che conosce bene quel Paese (e non è affatto simpatizzante del suo attuale governo) se questa descrizione della vita quotidiana in Russia corrisponda a realtà o meno.
La sua risposta, della quale le sono grato, è stata assai chiara e ha confermato ciò che ormai da anni penso dell’Occidente anglosassone (non dell’Europa, della quale la Russia è parte fondamentale), vale a dire che si tratta di una civiltà spenta, di una democrazia fasulla, di uno spazio dominato sempre più dall’ignoranza (con la dissoluzione delle scuole e delle università) e soprattutto dall’asfissia, uno spazio dove più non si respira. È quanto ho cercato di argomentare nel mio libro sul politicamente corretto e quanto discuto spesso su questo sito.
Naturalmente non condivido l’afflato natalista di queste righe; la mia amica ha inoltre precisato che il sogno dell’‘Occidente con la Mercedes’ poteva valere nei primi anni dopo la fine dell’URSS, non più oggi. Ma al di là di questi e altri elementi specifici, confido che la pagina che segnalo possa offrire una prospettiva diversa su un Paese europeo nei confronti del quale l’informazione occidentalista e atlantista risulta particolarmente tossica.

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Non sappiamo mai il valore dell’acqua finché il pozzo non è asciutto

Nel suo canale Telegram, il giornalista Mikhail Onufrienko ha pubblicato la storia raccontata dal ristoratore Maxim, un tedesco che ha vissuto in Germania, Svizzera, Francia e America e ha lavorato nei migliori ristoranti del posto. Ha avuto l’opportunità di apprezzare la vita in quei paesi e di rimanere per vivere nei migliori. Tuttavia, si è trasferito nella città di Dobrograd, in Russia.

«Quando hai figli», dice Maxim, «e io ne ho due, inizi a pensare al futuro: non al tuo futuro, ma a quello dei tuoi figli. Ho cinquant’anni, ho vissuto la mia vita. Avrei potuto restare in Germania, ho lavorato in Austria, America e in altri posti. Ma quando hai figli, inizi a pensare a loro: in quale paese vivranno? Che tipo di futuro avranno? E non vedo un futuro per i miei figli in Germania, per dirla in parole povere.
I russi non si rendono conto di quanto siano liberi. Non si rendono conto di quanto siano liberi di parlare di quasi tutto ciò che vogliono qui. La società tedesca è cambiata negli ultimi vent’anni al punto che non c’è più libertà di opinione.
I russi mi sorprendono sempre: pensano che se si trasferissero in Europa, vivrebbero esattamente come qui, solo che guiderebbero tutti una Mercedes. Cerco di spiegarglielo, dico: ‘Ragazzi, non vi rendete conto di quanto siete fortunati a vivere qui’. Il novanta per cento dei russi vive in appartamenti di loro proprietà, mentre in Germania solo il due per cento vive in case di proprietà. Tutti gli altri affittano un alloggio.
In Germania, quando la gente vede un bambino che corre, qualche vecchia signora urla sempre: ‘Porta tuo figlio al guinzaglio!’ Qui, quando esco con mio figlio, tutti mi sorridono. Il novantacinque per cento delle donne e degli uomini, giovani e anziani, mi sorridono. La gente qui ama i bambini.
Non ho mai visto così tanti parchi giochi come in Russia. Sono stato in molti paesi e non ho mai visto così tanti parchi giochi. In Germania, se cammini per la città, vedi uno o due parchi giochi ogni centomila persone, ma qui, c’è un parco giochi in ogni cortile. È incredibile.
I tedeschi vivono per lavorare. Qui, la gente vive per vivere. Vuoi goderti la vita, solo per viverla. Mia moglie ha vissuto in Cina per sette anni, ha studiato alla Shanghai University e dice: ‘Non ho mai visto niente di più noioso dell’Europa, è solo una palude. La vita è così: casa-lavoro-casa-lavoro-casa-lavoro. Tutto qui, non c’è nient’altro. È noioso’. Qui in Russia, c’è un po’ di ‘azione’, dice. La gente vive vite vibranti».

Tucidide

[Data l’ampiezza un poco inusuale del testo, e per una lettura più comoda, ne ho preparato anche una versione in pdf]

Le ragioni per le quali l’opera di Tucidide ateniese «è un possesso che vale per l’eternità»1 sono numerose e assai chiare allo stesso Tucidide. Motivi che si riassumono nella conoscenza dell’umanità, in una antropologia lucida, disincantata, amara. Lo scrittore sa che gli eventi futuri somiglieranno a quelli passati, saranno simili agli eventi che lui stesso ha visto e che appunto intende narrare. E lo saranno perché tutti gli umani, sia nella vita pubblica sia nelle esistenze private, «son portati a far male» (III, 45; p. 1112); perché «in genere l’uomo è portato dalla sua natura a disprezzare chi lo rispetta e ad aver timore di chi non cede» (III, 39; p. 1108); perché le sciagure avvengono «e sempre avverranno finché la natura umana sarà sempre la stessa, ma più gravi o più miti e differenti nell’aspetto a seconda del mutare delle circostanze» (III, 82; p. 1137). Sciagure che si moltiplicano in qualità e quantità poiché «giudicando più secondo i loro incerti desideri che secondo una sicura preveggenza […] gli uomini sono soliti affidare a una speranza sconsiderata ciò che desiderano e a respingere con incontrastabili ragioni ciò che aborrono» (IV, 108; p. 1238).

Fu anche questo diffuso wishful thinking a far transitare i Greci dal comune trionfo ‘contro il Medo’, contro i Persiani invasori, all’autodistruzione in una guerra interna, una guerra civile di Greci contro altri Greci le cui ragioni erano già implicite nella vittoria sui Persiani e che crebbero a poco a poco quando la potenza di Atene non seppe più frenare e fermare le sue sempre più evidenti tendenze imperiali. Iniziò allora un conflitto esteso di isola in isola, di terra in terra, di città in città. Conflitto nel quale le ragioni  di dissidio interne a ogni πόλις si univano al timore di essere resi schiavi da altre città o alla speranza di rendere altre città sottomesse. Uno stato di guerra feroce come sono tutte le guerre civili; scontri che «devastarono la terra» (III, 79; p. 1135) e che condussero a «ogni forma di strage; piombati su una scuola di fanciulli, la più grande del luogo, in cui i fanciulli erano entrati da poco, li fecero a pezzi tutti quanti» (VII, 29; p. 1427). Chi siano gli autori di questa specifica strage, in questo caso i Traci alleati degli Ateniesi, e chi siano le vittime, in questo caso gli abitanti di Micaleso in Beozia, ora – nel XXI secolo – non ha molta importanza. Ma cambiando i nomi e i luoghi dei massacratori e dei massacrati emerge con evidenza la costanza nel tempo del male umano.

La guerra infatti, ogni guerra, «non procede affatto secondo norme stabilite, ma da sé escogita per lo più i mezzi adatti all’occasione» (I, 122; p. 978). Guerre scatenate per conquistare città e denaro e dunque non adducendo giusti motivi dei quali non c’è bisogno ma prevedendo sicure utilità; guerre dichiarate per antichi torti subiti e vendette da ottenere; guerre spesso iniziate per impedire attacchi ritenuti sicuri, guerre dunque ‘preventive’, e guerre decise perché semplicemente ed esplicitamente si sa di essere più forti degli avversari.
Questo è il significato del celebre colloquio intercorso tra gli Ateniesi e i Meli, durante il quale i primi dichiarano con una sincerità che le potenze contemporanee non hanno (e anche questo le rende peggiori), «chi è più forte fa quello che può e chi è più debole cede» (V, 89; p. 1321). «Noi crediamo infatti che per legge di natura chi è più forte comandi: che questo lo faccia la divinità lo crediamo per convinzione, che lo facciano gli uomini, lo crediamo perché è evidente. E ci serviamo di questa legge senza averla istituita noi per primi, ma perché l’abbiamo ricevuta già esistente e la lasceremo valida per tutta l’eternità, certi che voi e altri vi sareste comportati nello stesso modo se vi foste trovati padroni della nostra stessa potenza» (V, 105; p. 1325).

I frutti di questa convinzione imperialista non tarderanno ad arrivare e saranno la rovina di Atene. I pericoli di ogni atteggiamento e pratica imperialisti sono infatti piuttosto evidenti. Atene si rese sempre più nemica dei Lacedemoni/Spartani, e di altri meno attrezzati avversari, già con il suo stesso diventare una potenza politica, strategica, militare, economica. Tale crescita mise infatti sull’avviso tutti coloro che non intendevano sottomettersi senza resistere a una potenza egemone. Si aggiungeva un disprezzo verso i non ateniesi che diventava sempre più palese e soprattutto di una ὕβρις, una tracotanza per la quale «gli Ateniesi pensavano che niente avrebbe dovuto opporsi ai loro piani, ma che avrebbero dovuto compiere le imprese possibili come quelle difficili, con preparativi sia grandi che insufficienti» (IV, 65; p. 1207). Neppure la peste ferma Atene. Una peste terribile, descritta da Tucidide con un’efficacia che fa da modello alle pagine di Lucrezio, di Boccaccio, di Manzoni: «L’aspetto della pestilenza era al di là di ogni descrizione: in tutti i casi il morbo colpiva con una violenza maggiore di quanto potesse sopportare la natura umana» (II, 50; p. 1038), tanto che «piombati in una tale sciagura, gli Ateniesi ne erano schiacciati, mentre gli uomini morivano dentro la città e fuori di essa la terra veniva devastata» (II, 54; p. 1041).

Ma neppure da tale sciagura gli Ateniesi vennero dissuasi ad aprire un nuovo fronte, che risulterà per loro fatale. Al conflitto continentale contro Sparta aggiunsero infatti una spedizione contro Siracusa e contro la Sicilia , impresa che sarà rovinosa. Nel racconto della guerra nell’Isola credo che Tucidide abbia toccato il culmine della propria sapienza antropologico-politica e dell’arte di scrittore.
«Questo esercito fu celebre non meno per lo stupore che suscitava la sua audacia e per lo splendore che suscitava alla vista, che per la superiorità delle sue forze rispetto a quelle del nemico che andava ad attaccare, e per il fatto che intraprendeva una traversata a grandissima distanza dalla patria, con la speranza di un potentissimo futuro rispetto alla condizione presente» (VI, 31; p. 1355). E però il risultato di tanta potenza, di un simile splendore politico e militare fu una serie di disastrose sconfitte, di «gemiti e grida»  mentre i soldati «ormai badavano a se stessi e a come salvarsi» (VII, 371; p. 1459), ben lontani dagli auguri e dai peana con i quali erano partiti e invece «vinti completamente in tutto, senza subire nessuna sventura di scarso rilievo in nessun campo, in una distruzione completa» (VII, 87; p. 1472).

A spingere i cittadini di Atene a tale catastrofe fu anche e specialmente il giovane Alcibiade, assai ricco e ambizioso. Venne sconfitta la saggia prudenza di Nicia che si era invece pronunciato contro l’estensione della guerra in Sicilia. Essendo stratego, Nicia partì comunque per la Sicilia, dove trovò la morte, mentre Alcibiade, partito anche lui, venne richiamato in patria con gravi accuse che non avevano a che fare con la guerra. Alcibiade passò dalla parte degli Spartani per poi tentare di rientrare incolume ad Atene. Invece di riconoscere che erano stati loro a prestar fede a un ricco e nobile avventuriero, i cittadini di Atene «si adirarono con quegli oratori che avevano consigliato di fare la spedizione, come se non l’avessero decisa loro stessi» (VIII, 1; p. 1473).

Alcibiade aveva di fatto sostituito Pericle, morto durante la peste e la cui assenza fu tra le cause del tramonto politico della città. Pericle del quale Tucidide riporta il discorso che di Atene è la descrizione più luminosa (libro II, §§ 35-46). Nel commemorare i soldati morti per la città, Pericle afferma che Atene è il luogo nel quale ciascuno emerge «non per la provenienza da una classe sociale ma più per quello che vale» (II, 37; p. 1029), un luogo nel quale la bellezza è un’esperienza quotidiana e diffusa, dove la parola e la discussione sono sempre benvenute «senza pensare che il discutere sia un danno per l’agire» (II, 40; p. 1031), dove felicità, libertà e coraggio sono i punti di riferimento dell’esistenza, suscitando anche per questo l’ammirazione degli «uomini di ora e dei posteri» (II, 41; p. 1032). Per queste e per altre ragioni «tutta la città è la scuola della Grecia» (ibidem).

Questo di Pericle è il più famoso dei discorsi che intramano l’opera di Tucidide, scandita appunto in discorsi riportati tra virgolette – degli strateghi, dei capi politici, degli ambasciatori delle diverse città in lotta tra loro – e scandita da descrizioni estremamente particolareggiate degli eventi bellici, degli scontri navali, delle battaglie, delle sconfitte e vittorie, delle fughe e trionfi. Descrizioni che lo storico ateniese fonda sui racconti di tanti e sulle proprie personali esperienze. Discorsi che sono costruiti in base alla verosimiglianza, vale a dire in base a ciò che si presume quel certo oratore abbia dovuto e potuto dire in quella determinata circostanza. Tucidide lo ammette con onestà e con chiarezza: «mi terrò il più possibile vicino al pensiero generale dei discorsi effettivamente pronunciati» (I, 22; p. 910).

Tutto questo, lo splendore e la sventura, venne vissuto da umani davvero simili a ciò che gli esemplari della nostra specie sono da sempre. Una specie aggressiva, astuta, capace di riflessione e tuttavia spesso vittima di passioni che distruggono gli altri e se stessi. Una natura che i luoghi, i popoli, le credenze, le civiltà cercano di educare nei modi più vari. I Greci vennero in generale educati così: «Non bisogna credere che un uomo sia molto diverso dagli altri, ma che è più forte chi è stato educato nelle più dure difficoltà» (I, 84; p. 951). Molti popoli e culture condividono nel nostro tempo tale criterio e pratica pedagogica. Più non lo fa l’Occidente dominato dal modo di vivere anglosassone, in mano a pedagogisti e a psicologi che impongono nelle scuole e nelle università i criteri compassionevoli, ‘inclusivi’ e irrealistici che plasmano giovani e adulti irresponsabili, incapaci, distrutti da ogni piccola e grande difficoltà che la vita inevitabilmente presenta. Scuole e università per handicappati.
Saremo spazzati via da civiltà e popoli ancora adulti. Meriteremo questa fine e allora forse la parola di Tucidide e degli altri Greci risuonerà come un avvertimento che non abbiamo ascoltato.

Nota
Tucidide, La guerra del Peloponneso, traduzione di Claudio Moreschini, revisione di Franco Ferrari, note di Giovanna Daverio Rocchi, saggio introduttivo di Domenico Musti. In: Erodoto, Storie – Tucidide, La guerra del Peloponneso, Rizzoli, Milano 2021, I, 22; p. 910.

Più bravi

Tra i numerosi saggi che i miei allievi hanno pubblicato di recente, ne segnalo alcuni che mi sembrano particolarmente significativi.

-Daria Baglieri, Una memoria pre-biografica? Ricordo e oblio come esperienze somatiche «Filosofia Morale/Moral Philosophy», n.5, 2024/1, pp. 103-113. Baglieri articola e approfondisce con particolare chiarezza il plesso essenziale e teoretico così intricato sul quale sta lavorando da anni, quello che rende inseparabili nell’animale umano la memoria e l’oblio, elementi entrambi indispensabili alla vita del corpomente.

-Sarah Dierna, Peter Wessel Zapffe. Il profeta dell’“Ultimo Messia”, «Dialoghi Mediterranei» n.68, luglio-agosto 2024, pp. 538-550. Si tratta di uno dei pochissimi contributi in lingua italiana dedicati a Zapffe, scrittore e filosofo norvegese vissuto tra il 1899 e il 1990, tra i più originali sostenitori dell’antinatalismo. Un pensatore rigoroso e insieme visionario, del quale Dierna delinea la figura e le tesi in maniera assai limpida, mettendo al centro un racconto del 1933 ma andando anche al di là di questo specifico testo.

-Lucrezia Fava, Sull’Apocrifo di Giovanni, in «Letteratura e Bibbia. Atti delle Rencontres de l’Archet Morgex, 14-19 settembre 2020», Centro di Studi storico-letterari Natalino Sapegno 2022, pp. 113-121. Studiosa delle relazioni tra filosofia contemporanea e gnosticismo antico, Fava presenta, analizza e interpreta qui uno dei testi gnostici più chiari ed emblematici, in un saggio che si pone all’incrocio tra storia delle religioni ed ermeneutica filosofica.

-Enrico Moncado, Note sulla «Einleitung in die Phänomenologie der Religion» di Martin Heidegger, in «Mondi. Movimenti sociali e simbolici dell’uomo», vol. 5/2022, pp. 45-58. Moncado ha dedicato il suo dottorato all’analisi dell’escatologia nel pensare heideggeriano. Questo saggio sul legame e sulle differenze che intercorrono tra l’escatologia paolina e quella di Heidegger conferma per intero come dalla più potente esperienza teoretica del Novecento scaturiscono di continuo elementi di grande fecondità anche nell’ambito della fenomenologia della religione. 

-Enrico Palma, «La clôture de la joue». Un’indagine metafisica sul limite tra dolore, finitudine e temporalità. «Aretè. International Journal of Philosophy, Human & Social Sciences», vol. 8/2023 [ma uscito nel 2024], pp. 223-247. Un saggio nel quale l’intersezione tra parola teoretica e parola letteraria, che segna la monografia da Palma dedicata a Proust, contribuisce a comprendere meglio alcuni degli enigmi di fondo della vita umana.

Invito a leggere, senza fretta, questi testi e a verificare di persona la loro qualità scientifica. I loro autori stanno tutti lavorando a progetti di ricerca di grande rilievo, dei quali i saggi qui segnalati sono tappe e insieme sintesi. I miei allievi stanno diventando più bravi di me. Uno degli obiettivi del mio insegnamento comincia a essere conseguito.

Università per censo

Il sintetico documento che segnalo, autorizzato dall’autrice, spiega più di molte e lunghe analisi che cosa sia diventata l’Università italiana. Si tratta di una lettera dolorosa, intrisa di lucida dignità, di capacità di pensare e di capire. Capire che cosa? Alcune caratteristiche di fondo della società italiana contemporanea, così riassumibili.

-Il tramonto dell’Università come ascensore sociale. Il ‘110 e lode’ regalato anche ai tanti che non lo meritano e, in generale, i certificati di laurea diventati la conseguenza del semplice iscriversi a un corso universitario hanno, come è ovvio, tolto valore sostanziale al titolo di studio.
-La tagliola  che immediatamente dopo il regalo avvelenato della laurea scatta e impedisce alla più parte dei laureati di proseguire il loro percorso formativo e/o professionale. Per chi è interessato all’insegnamento, il labirinto normativo ostacola in modo spesso insormontabile la realizzazione delle proprie aspirazioni.
-La tipologia di bando della quale parla questa lettera mostra con evidenza che in Italia è stato reintrodotto il criterio del censo, l’ottocentesco criterio censitario, per il quale soltanto i rampolli delle famiglie agiate possono aspirare a realizzare le proprie passioni e talenti, gli altri devono accontentarsi. La reintroduzione del criterio censitario è voluta e favorita dal decisore politico (di ogni area partitica e ideologica), dai pedagogisti e didatticisti, dalla onnipotente burocrazia ministeriale. Rettori e direttori generali applicano tali norme con più o meno zelo ai loro Atenei; in ogni caso la cifra minima da richiedere è per legge di 1500 € e il numero dei posti messi a bando da ogni Università è irrisorio rispetto a quello dei laureati.
-Il cospicuo denaro che viene chiesto ai giovani cittadini italiani e alle loro famiglie non dà alcuna garanzia sul loro futuro ma serve semplicemente ad accedere ai concorsi per l’insegnamento. Che per accedere a tali concorsi si debbano aggiungere alle competenze acquisite durante gli anni universitari sui contenuti delle proprie discipline ore e ore di indottrinamento sulle tecnologie didattiche – presentate immancabilmente come ‘nuove’ ma in realtà assai vecchie, obsolete e definite con l’asettica formula «60 CFU, Crediti Formativi Universitari» (si noti il linguaggio bancario) – è il risultato più catastrofico dell’occupazione dei ministeri della scuola e dell’università da parte della corporazione dei didatticisti, vale a dire di coloro che per lo più non sanno insegnare ma pretendono di dire agli altri come si fa (ne conosco personalmente numerosi).
-La necessità di aggiungere alle spese per l’abilitazione quelle per l’ottenimento di certificazioni linguistiche di fatto ormai obbligatorie se si vuole racimolare qualche punto in più nelle graduatorie. Il costo medio di tali certificazioni è 500 €, che possono diventare 800/1000 se si accoglie la proposta di alcuni enti certificatori di ‘certificare’ anche senza svolgere le prove previste (pratica ovviamente illegale ma diffusa).
-Il patetico nascondimento di questa sostanziale discriminazione socio-economica mediante una ultrasensibilità linguistica, che nella premessa fa dire: «Laddove in questo documento, unicamente a scopo di semplificazione, è utilizzato il genere grammaticale maschile, la forma è da intendersi riferita in maniera inclusiva a tutte le persone interessate dalla procedura di ammissione». Tipico caso, normale caso, nel quale il politicamente corretto contribuisce a giustificare l’iniquità, ne è complice attivo.

La lettera è stata spedita il 27 maggio 2024 al rettore e al Direttore generale pro tempore dell’Università di Catania. Il suo oggetto ha come titolo Percorso abilitante su posto comune, tra amarezza e rabbia.
Allego il pdf del bando oggetto della lettera.

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Gentile Professore Priolo,
sono una studentessa dell’Università di Catania che ha conseguito la laurea magistrale. Sono stata una studentessa, dovrei più correttamente dire. Le scrivo però da studente per esprimerle la mia amarezza e, se mi consente un sentimento un poco troppo umano, la mia rabbia. Stamattina ho letto il bando relativo ai Percorsi di formazione e abilitazione docenti su posto comune a.a. 2023/2024 (D.R. 2179 24/05/2024). Provo amarezza e rabbia nel leggere procedure che anziché aiutare e sostenere la formazione dei vostri studenti non fanno altro che ostacolarli, affossarli, scoraggiarli.
Vede Professore, a me che il personale di Unict ponga come premessa che il maschile utilizzato nel bando sia neutro ma che la forma è inclusiva non desta alcun sentimento di rammarico, ma che l’università di Catania – la mia casa – chieda a degli studenti il pagamento di costi così esosi a fronte di un numero di posti praticamente simbolico, ridicolo mi lasci dire, questo sì che mi suscita rammarico.
Procedure e requisiti di ammissione sono in contraddizione con il fine per cui il percorso nasce. Se lo scopo è abilitare dei giovani studenti e/o neo-laureati alla attività didattica, vale a dire a un inserimento rigoroso, serio e maturo nel mondo della scuola e dunque del lavoro, non crede che sia un ossimoro chiedere loro una somma così onerosa in partenza? Non crede che uno studente debba essere messo nelle condizioni di diventare un bravo docente e non debba invece essergli chiesto ciò che, si spera, avrà modo di guadagnare con il frutto del suo lavoro? Le graduatorie non saranno stilate sul punteggio – torno dopo sulla questione – raggiunto, mi lasci dire che la lista avverrà sulla base dei conti correnti disponibili a sostenere simili cifre, e quelli che invece dovranno rinunciarvi. E così l’università, che un tempo poteva essere per molti uno strumento di crescita sociale, diventa un luogo adatto, disponibile e ospitale solo per chi ai piani alti già ci abita.
Tralasciando la tassazione prevista e volendo sottopormi all’ennesima lista di raccolta punti da supermercato, si presenta davanti a me una situazione altrettanto sconfortante. E non soltanto per il numero di posti ma perché il punteggio viene calcolato su una conta numerica che praticamente esclude me e molti dei miei colleghi in partenza. Se, poi, posso contare sulle competenze linguistiche, anche quelle partono da un livello elevato ed escludono quindi le certificazioni ‘inferiori’. E così mi ritroverò forse, e quasi certamente, scavalcata da studenti alcuni dei quali avranno acquistato il loro C1 di inglese, e invece l’impegno e lo studio serio, nient’affatto facile, ma sempre svolto con rigore e passione rimarrà segregato nel mio cassetto o tra i miei libri. Potrebbe a questo punto venirmi in aiuto il voto di laurea ma il 110 e lode è diventato un premio donato in beneficio per il solo fatto di essersi iscritti all’università, ciò significa che avere tutti 110 e lode equivale a non possederlo, nessuno.
Questo è il modo in cui l’Università di Catania sta trattando i suoi studenti. Questa è la voce amareggiata e arrabbiata di una studentessa che si trova a non potere nemmeno pensare di presentare domanda per un percorso che dovrebbe aprire le porte del mio futuro e invece me le sbarra in partenza. Non spero di cambiare le cose, non credo che la mia voce sia sufficiente a cambiare le cose. Ma almeno saprò di non essere rimasta in silenzio e a guardare.

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Questo articolo è stato pubblicato anche su girodivite.it il 3 giugno 2024.

Educazione e dissoluzione

La sala professori
(Das Lehrerzimmer)
di Ilker Çatak
Germania, 2023
Con: Leonie Benesch (Carla Nowak), Leonard Stettnisch (Oskar Kuhn), Anne-Kathrin Gummich (Bettina Böhm)
Trailer del film

Una scuola tedesca organizzata molto bene e con la regola della ‘tolleranza zero’ verso le infrazioni più o meno gravi delle regole. Ma è una norma che si rivela un alibi, un’apparenza. Si verificano dei furti e a essere accusato è un ragazzino delle medie che in realtà non c’entra nulla e viene presto scagionato. Una giovane insegnante di matematica e di educazione fisica, Carla, comincia a sospettare di qualche collega e lascia in sala professori la propria giacca, con il portafoglio, e il computer acceso per inquadrare la scena. Rientrata dalla lezione, constata che effettivamente le mancano delle banconote e la telecamera ha ripreso un braccio. Da qui risale alla colpevole, che però nega decisamente ogni responsabilità. Nella scuola si insinua il sospetto di tutti contro tutti. Dirigente, personale tecnico-amministrativo, docenti, genitori, studenti hanno tutti voce in capitolo e questo moltiplica le tensioni, accentuate da un  articolo sul giornalino della scuola nel quale i giornalisti in erba dimostrano di avere già la vocazione verso questa professione, attribuendo con cinismo e spregiudicatezza a Carla parole che la professoressa non ha mai pronunciato.
Un film tragico nel raccontare l’implacabile piano inclinato della fine dell’educazione in Europa. È infatti la Germania ma potrebbe essere, con piccole e secondarie modifiche, l’Italia o peggio ancora la Francia o qualunque altro Paese dell’Europa yankee, sottoposta alla pedagogia e alle tecniche didattiche importate/imposte dagli USA. Assai diverse sono le azioni e i principi educativi in India, in Russia, in Cina e in molte altre zone del pianeta.
So per testimonianza diretta, ad esempio, che dei ragazzini di origine egiziana quando trascorrono qualche settimana nelle scuole del loro Paese sono impazienti di rientrare in quelle italiane, perché nella scuole islamiche la disciplina è ferrea e comprende l’utilizzo di pene corporali. Quando tornano in Italia, invece, quegli stessi alunni diventano i bulli padroni delle classi poiché psicologi, dirigenti, genitori e altre figure sciorinano tutto l’armamentario delle giustificazioni psico-pedagogiche-ambientali che non permettono ai bambini e agli adolescenti di incontrare ostacoli alla loro aggressività esplorativa. Aggressività che è fisiologica e naturale proprio perché rivolta a trovare un freno, una barriera, un limite, e in questo modo permettere al cucciolo di crescere. Quando tali limiti non esistono, il fatto educativo è fallito, interamente fallito.

«διδάσκαλός τε ἐν τῷ τοιούτῳ φοιτητὰς φοβεῖται καὶ θωπεύει, φοιτηταί τε διδασκάλων ὀλιγωροῦσιν, οὕτω δὲ καὶ παιδαγωγῶν: καὶ ὅλως οἱ μὲν νέοι πρεσβυτέροις ἀπεικάζονται καὶ διαμιλλῶνται καὶ ἐν λόγοις καὶ ἐν ἔργοις, οἱ δὲ γέροντες συγκαθιέντες τοῖς νέοις εὐτραπελίας τε καὶ χαριεντισμοῦ ἐμπίμπλανται, μιμούμενοι τοὺς νέους, ἵνα δὴ μὴ δοκῶσιν ἀηδεῖς εἶναι μηδὲ δεσποτικοί»
«In un tale ambiente il maestro ha paura degli studenti e se li tiene buoni. Da parte loro gli scolari non tengono in nessun conto i maestri, e così pure i pedagoghi. Insomma, i giovani si danno le arie da uomini maturi e han sempre da ridire a parole e a fatti. Gli uomini maturi, invece, vogliono portarsi al livello dei giovani e così fanno sfoggio di atteggiamenti spigliati e scherzosi, per imitarli e per non passare per scorbutici e autoritari»
(Platone, Repubblica, VIII libro, 563a, trad. di Roberto Radice).

Così Platone descrive la pedagogia occidentale contemporanea, le nostre scuole e i nostri luoghi di formazione. Una società che confonde il ruolo del docente con quello dell’amico; la figura dei genitori con quella di avvocati dei figli; l’educatore con il «facilitatore» del quale – sulla scorta delle tesi del pedagogista statunitense Carl Rogers – parlano i documenti ministeriali italiani contemporanei (e quelli dei singoli istituti, compresa Unict), una società siffatta è una società finita, senza futuro. Sta qui una delle radici e delle forme della dissoluzione dell’Europa.
Ne ho discusso ampiamente in Contro il Sessantotto. Saggio di antropologia e in vari contributi successivi, ad esempio: Per la παιδεία (2018). Di quelle analisi La sala professori costituisce un’efficace conferma narrativa.

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