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Sulla filosofia

Aristotele
I Dialoghi
Introduzione, traduzione e commento di Marcello Zanatta
Biblioteca Universale Rizzoli – Classici Greci e Latini
Rizzoli, Milano 2018
Pagine 742

La costellazione teoretica fondamentale del cielo mediterraneo ed europeo è quella che ha le proprie stelle α e α1 in Platone e Aristotele. Il loro legame anche personale è indissolubile:

Dalla stima che Platone ebbe per Aristotele, come può evincersi dalla tradizione secondo cui lo avrebbe soprannominato ‘la mente’ e, per converso, dal modo non soltanto rispettoso ma anche emotivamente partecipato col quale Aristotele dichiara in alcune circostanze in cui critica Platone, il proprio dispiacere di doverlo fare, ci si può ragionevolmente convincere che i rapporti tra il maestro e il discepolo dovevano essere ottimi, sia sotto il profilo scientifico che personale. Anzi […] si può ragionevolmente parlare di autentica devozione del discepolo nei riguardi del maestro, perpetratasi al di là dei dissensi dottrinali e mantenuta viva nel tempo. Persino molti anni dopo la morte di Platone (p. 11).

A dimostrarlo è tutto, compresi i Dialoghi composti da Aristotele in gran parte durante la sua ventennale presenza nell’Accademica platonica. Di essi ci sono rimasti in genere pochi frammenti ma sufficienti  a testimoniare la completa adesione dello Stagirita al programma filosofico della scuola platonica, come mostrano in particolare i Dialoghi dei quali sono rimaste più ampie pagine, come il Protrettico – l’invito a filosofare – e il Sulla filosofia.
In questi e negli altri testi rivolti al più ampio pubblico, e quindi ‘essoterici’, lo stile è «pien[o] di luce e trasparent[e]» (Them., Orat., 319c; p. 59) e i contenuti sono intramati di φρόνησις e di σοφία, di saggezza nell’esistenza e di sapienza nella comprensione. Quello di Aristotele è infatti, come afferma Cicerone, un «ingenio singulari et paene divino», una intelligenza unica e quasi divina (Eudemo, 1 Cic., Div. ad Brut., I, 25, 53; p. 153).
Questa intelligenza era molto selettiva nell’accogliere allievi dentro la propria scuola. Entrare nel Liceo richiedeva infatti un talento naturale che niente può far acquisire se non lo si possiede alla nascita; era poi richiesta una base di conoscenze pregresse e soprattutto la tenace passione verso l’apprendimento. Aristotele sa infatti che non esiste lavoro filosofico senza una massa imponente di conoscenze, di nozioni, di cose sapute, di erudizione nei campi più diversi dell’esistere e del pensare; ma sa anche che tali conoscenze sono necessarie e non sufficienti, da esse la filosofia prende avvio per metabolizzarle e trasformarle in uno sguardo universale e totale sul mondo.

Uno sguardo che si applica pertanto ai campi più diversi, tra i quali nei Dialoghi vengono discussi: 

  • l’amore, che ben prima di Proust Aristotele sa essere apportatore di «dolore conturbante, continue insonnie, passioni disperate, tristezza e follia» (Erotico, 4 Al Dailami; p. 205); 
  • l’educazione (Sull’educazione) come struttura rigorosa e volta all’eccellenza (i Greci non avrebbero neppure compreso espressioni barbariche quali ‘successo formativo’, ‘inclusione degli ultimi’, ‘prove intermedie’ et similia). A testimoniarlo sono anche alcune massime riportate da Diogene Laerzio, quali:

    Interrogato in che modo differissero gli educati [coloro che possiedono la παιδεία, la cultura] dagli ineducati, rispose: ‘quanto i vivi dai morti’.
    I genitori che educano i figli sono molto più venerandi di quelli che li mettono al mondo soltanto, perché questi li fanno vivere, quelli li fanno vivere bene.
    Interrogato in che modo i ragazzi possano fare progressi, rispose: ‘se si mettono sulle orme dei primi senza attardarsi con i più lenti’ (D.L., V, 19-20; p. 408);

  • la conseguente necessità di una solida formazione filosofica per «avere correttamente parte della polis» (Protrettico, 4 Iambl., Protr., 6; p. 237); 
  • il disprezzo verso il desiderio di semplicemente vivere, che è cosa da schiavi, e non di vivere bene, che  è quanto dà senso all’esistenza; 
  • il convergere nella vita umana individuale e collettiva di intelligenza e tecnica, di leggi naturali e di potenza dell’imprevedibile, del caso; 
  • l’identità tra la ϑεωρία (riflessione, contemplazione, pensiero) e l’ἐνέργεια (attività, azione, fare); 
  • l’intellettualismo etico, che non è elemento socratico ma struttura caratterizzante l’intera filosofia greca e che in Aristotele diventa la παιδεία (conoscenza, formazione) come contenuto primario dell’ἀρετή (virtù, comportamento buono); 
  • la potenza ovunque del divenire e del tempo rispetto alle tesi eleatiche di Parmenide, di Melisso e di altri, che Aristotele definisce ἀφυσίκους, afisici, «perché la natura è principio di movimento, ed essi, dicendo che nulla si muove, la sopprimono» (Sulla filosofia , 9 Sext. Emp., Adv. Math., X, 45; p. 591).

Oltre ad accennare a queste tematiche, tutte fondamentali, vorrei dire qualcosa di più su tre questioni che contribuiscono in modo costante all’identità dell’aristotelismo come filosofia universale, vale a dire possibile e praticabile in ogni luogo e in ogni tempo.
La prima è la sostanziale identità di teoresi e studio dei cieli, di filosofia e di astronomia. E questo sia perché l’umano è una parte del cosmo sia perché il cosmo stesso è la vera divinità. Già Anassagora e Pitagora ritennero che la ragione ultima dell’esistenza umana, quella che costituisce la sua dignità, sia la contemplazione del cielo e degli astri intorno alla luna e al sole. E questo anche perché, molto al di là di ogni semplice ‘utilità’ empirica, niente come la distanza, lo splendore, la costanza dei cieli, la loro superiore ontologia, riconduce l’umano e la vita alle loro reali misure. Aristotele concorda con loro e, anche discostandosi dalla potenza argomentativa del Timeo, sostiene che non si dà alcun tempo nel quale il cosmo è stato prodotto ma «che il mondo è ingenerato e incorruttibile» (Sulla filosofia, 18 Philo, De aetern. mundi, III, 10-11; p 615), tanto che gli astri che vediamo durante la notte, i cinque pianeti, le stelle, sono loro le vere divinità.

Il secondo elemento di perenne sapienza scaturisce anche da questa potenza dei cieli, dalle conoscenze astronomiche, ed è la consapevolezza e l’accettazione del limite umano dentro il cosmo, della nostra finitudine. Nei brani del Protrettico riportati da Giamblico, Aristotele afferma che:

tutte le cose che agli uomini sembrano essere grandi sono un adombramento (skiographia). Dal che si dice giustamente che l’uomo è un niente e che nessuna delle cose umane è sicura. […] Se infatti si potesse guardare acutamente come si dice che guardasse Linceo […] sembrerebbe forse che qualcuno può sopportare la vista, scorgendo da quali mali è costituito? […] Quale delle cose umane è grande o di lunga durata?
(10 Iambl., Protr., 8; p. 271).

È quindi del tutto coerente che nel dialogo dal titolo Eudemo, o dell’anima Aristotele racconti per intero il noto dialogo tra il saggio Sileno e lo stolto re Mida, al quale – visto che insisteva nel voler sapere che cosa per l’umano fosse meglio – Sileno rispose:

non nascere è la cosa migliore di tutte (ἄριστον πάντων) […]; voi, effimero seme di un demone carico di fatiche e di una sorte gravosa,. […] Per gli uomini non è assolutamente possibile che si verifichi la cosa migliore di tutte né partecipare della natura dell’ottimo. Infatti, per tutti gli uomini e per tutte le donne è ottimo non essere nati; tuttavia ciò che viene dopo di questo, ossia la prima delle cose possibili per gli uomini è che, essendo nati, muoiano il più presto possibile (6 Plut., Mor., Consol. ad Apoll., p. 115, b-e; pp. 159-161).

Ma, ed è questo il terzo e ultimo elemento: da tale consapevolezza lucida e disincantata deve sgorgare non una tonalità rassegnata e triste ma, al contrario, la ricerca della gioia come dovere proprio dell’umano: «Ma quelle feste che il Dio organizza per noi [lo spettacolo del mondo] e alle quali c’inizia come ai misteri, <gli uomini> rendono vergognose, trascorrendo per lo più la vita tra manifestazioni di dolore, stati d’animo pesante e debilitanti affanni» (Sulla filosofia, 14 Plut., Mor., De tranquill., p. 477; p. 609).
Anche Aristotele insegna dunque che se le lacrime sono un diritto della condizione umana, sorridere è proprio un dovere ‘etico e dianoetico’ (per usare il suo linguaggio), sorridere è una necessità sia dell’agire sia del pensare. Rispetto ad altre attività umane, infatti, la filosofia trova nel suo stesso esercizio il significato, il piacere, la pienezza.

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Le scuole occidentali

Armand
di Halfdan Ullmann Tøndel
Norvegia, 2024
Con: Renate Reinsve (Elisabeth), Ellen Dorrit Petersen (Sarah), Endre Hellestveit (Anders)
Trailer del film

I fenomeni sociali, che siano spontanei o che vengano costruiti da una volontà di controllo sui corpi collettivi, alla fine si incontrano e scontrano con le strutture antropologiche, con ciò che l’umano è per natura al di là del costruzionismo politico che pure molta influenza esercita sulla vita degli individui e delle collettività.
Un ambito nel quale tale dinamica è particolarmente evidente, delicata e quindi anche distruttiva, è la formazione, è la scuola. Da alcuni decenni, e in modo sempre più accelerato, la scuola permeata dai principi pedagogici dell’occidente anglosassone – e quindi sostanzialmente dal behaviorismo coniugato con il moralismo – vede al centro alcuni fenomeni, quali:
-la presenza sempre più ossessiva dei genitori nelle scuole, con il conseguente primato della componente emotiva e privata a danno della componente professionale e oggettiva, vale a dire gli educatori, i maestri, i professori;
-la conseguente perdita di identità e sicurezza da parte dei docenti, ridotti o a burocrati o a domestici delle famiglie, e affetti in modo ormai preoccupante dalla sindrome da burnout;
-una ossessione iperprotettiva rivolta ai bambini e agli adolescenti, che si presume dover salvaguardare da ogni più piccola difficoltà, dispiacere e soprattutto conflitto. Risultano evidenti non soltanto l’impossibilità empirica di un simile programma – l’esistenza è attrito e conflitto – ma anche la distruttiva conseguenza del non far crescere le persone, lasciandole in una condizione di infantilismo e di perenne dipendenza che chi insegna all’università – e dunque si occupa della formazione in una fase nella quale le persone dovrebbero essere ormai autonome e adulte – percepisce in modo evidente (a volte anche con sgomento).

Questo è lo sfondo educativo nel quale prende corpo la vicenda di Armand. Che accade in una scuola  norvegese, vale a dire in quella Scandinavia che ha accolto da tempo e in modo acritico i dogmi della pedagogia anglosassone e della società del controllo nella quale l’individuo è seguito in modo occhiuto e alla fine tirannico ‘dalla culla alla tomba’.
Accade quindi che un bambino di sei anni – Jong – venga trovato piangente in bagno e risponda che il suo compagno – Armand,  anche lui di sei anni – ha cercato di violentarlo nell’ano. La implausibilità di una simile eventualità, a sei anni il pene umano non è capace di una erezione tanto potente, viene quasi scartata. Vengono convocati i genitori dei bambini. Elisabeth, la madre di Armand, è presto sottoposta a un processo che attinge alla sua vita privata e che nulla ha a che fare con l’episodio oggetto della convocazione. Di fronte ai genitori stanno una maestra giovane, onesta e volenterosa ma la cui presenza viene annullata da quella di un preside tanto vigliacco quanto instabile e incompetente (tre caratteristiche che descrivono ottimamente la più parte dei ‘dirigenti scolastici’ italiani) e da una psicologa del tutto inconcludente e afflitta da continue perdite di sangue dal naso.

Ma il significato e il valore di questo film stanno nello scarto rispetto a una trama che così raccontata sembra quella di un film sociologico. No, si tratta si un’opera antropologico-simbolica nella quale alcuni eventi, la loro collocazione spaziotemporale, i diversi colori delle stanze acquisiscono una funzione primaria. Una funzione particolarmente e densamente fisica. Il film si allontana infatti da ogni semplice verosimiglianza almeno in tre scene: il sorridere e ridere di Elisabeth durante il colloquio con i genitori e i docenti; il danzare di questa madre insieme a un inserviente della scuola; il passaggio dell’odio degli altri genitori verso Elisabeth da una dimensione interiore e psicologica a una del tutto fisica nella quale i molti si avventano a poco a poco contro uno. Tranne poi capovolgere l’esito quando i fatti vengono chiariti nel loro reale accadere.
Ogni elemento di questo film è pensato e meditato con attenzione. Il significato del racconto è reso evidente sin dall’inizio mediante un elemento che non descrivo qui per lasciare a chi vedrà Armand di scoprirlo da sé, ma è un elemento ‘tecnico’ assai chiaro.

Il regista, trentenne, è stato un maestro elementare. Una condizione forse necessaria per pensare, progettare e realizzare un film così corrispondente a quanto di assurdo accade oggi nelle scuole dell’occidente anglosassone e che era stato con la consueta lucidità prefigurato da Ivan Illich in Tools for Conviviality (in italiano Convivialità, 1973): «The inevitable catastrophic event could be either a crisis in  end: end by annihilation or end in B. F. Skinner’s world – wide concentration camp run by a T. E. Frazier» (p.120 dell’edizione Fontana del 1975).
Illich aveva ben compreso, ma non era difficile per gli spiriti liberi, che di fronte alla dismisura della crescita infinita postulata dal capitalismo, una delle possibili conseguenze sarebbe stata la società del controllo. Controllo che già Hannah Arendt aveva intuito che sarebbe stato totalitario, portando al collasso le società liberali, che erano nate come ‘open society’. Illich analizza dunque e critica la «Skinner Box», una società guidata da algoritmi mediante l’utilizzo sistematico del protocollo stimolo/risposta che per Skinner – rispetto a Watson – non deve essere passivo ma richiede l’attiva e positiva adesione del controllato. In questo modo il comportamentismo appare per quello che è sempre stato: una pratica rivolta all’obbedienza interiore e a un pervasivo controllo. È ovviamente emblematico che uno dei libri più importanti dello psicologo statunitense Burrhus Frederic Skinner si intitoli Beyond Freedom and Dignity (1971). Tale è la tendenza dell’occidente contemporaneo e dunque delle sue scuole e università. Armand parla anche di questo.

Bambini

Sabato 23 novembre 2024 alle 17,00 nella Villa Di Bella di Viagrande (CT) parteciperò a un evento dal titolo Leave the Kids alone / Lasciate in pace I bambini. Sulle pedagogie transumaniste. Ne discuterò con Marialisa Granata, Davide Miccione e Luisa Ragonese.

«La questione femmine/maschi, la questione gender, va compresa in particolare nell’ambito delle tendenze transumanistiche che agitano il presente e che si implementano ogni giorno nelle pratiche della cosiddetta Intelligenza Artificiale.
Per quanto potente, raffinata e frutto di investimenti miliardari, l’Artificial Intelligence è infatti soltanto un mezzo, un assai potente mezzo, volto non agli scopi per i quali viene di solito presentata, proposta, difesa. L’obiettivo di fondo è uno dei più antichi che varie culture umane abbiano immaginato e a volte perseguito, di solito però con strumenti religiosi e non tecnologici. Tale scopo è il transumanesimo, il progressivo abbandono dei limiti somatici e temporali dell’animale umano (la sua finitudine) per attingere invece forme e comportamenti di controllo accurato e completo del mondo e, in prospettiva, per non morire più.
[…]
Condizione ulteriore di tale riduzione è lo smarrimento dell’identità anche sessuale, sostituita da una ontologia flussica, che vede nella corporeità un abito volontaristico e non una necessità materica. Da qui l’invenzione e l’imposizione di una bizzarra neolingua che partorisce di continuo nuove categorie LGBTQ, LGBTQ2S, LGBTTQQIAAPP, che affianca a termini più o meno tradizionali – come lesbiche, gay, omosessuali, queer – formule sempre nuove quali transgender, asessuali, pansessuali, intersezionali, non binari, a due spiriti, intersessuali.
Si tratta anche in questo caso di un primato della volontà individuale sulla potenza del σῶμα, prospettiva che fa parte del più generale primato del velleitarismo teorico sulle strutture del reale, degli algoritmi sul materico, di una percezione completamente deformata rispetto al principio di realtà, rispetto a un’ontologia realistica che non ritiene il mondo frutto della percezione umana, della conoscenza umana, dello spirito umano».
(Ždanov. Sul politicamente corretto, pp. 107-110)

«Chiudo questo capitolo ribadendo dunque un’evidenza che per l’ideologia woke è tabù: la differenza (non la gerarchia, che è da respingere, ma proprio la differenza) tra il maschile e il femminile. Paul B. Preciado è un militante neofemminista spagnolo, autore di un manifesto contro ogni ‘stereotipo di genere’ che costituisce un’apologia dell’ano, «zone érogène commune à tous les humains sans différence de sexe, orifice non discriminant et marqueur d’égalité; “zona erogena comune a tutti gli esseri umani senza differenza di sesso, orifizio inclusivo e indicatore di uguaglianza”», il quale «s’impose comme le nouveau ‘centre universel contrasexuel’. D’où cet éloge déconstructionniste de l’anus, socle d’un universalisme enfin libéré de l’emprise des normes hétérosexuelles. […] Se situer par-delà le pénis et le vagin, organes de la différence des sexes, dont il faut cependant souligner qu’il ne s’agit que de ‘constructions sociales’; “si afferma come il nuovo ‘centro controsessuale universale’. Da qui questo elogio decostruzionista dell’ano, fondamento di un universalismo finalmente liberato dall’influenza delle norme eterosessuali. […] Situarsi al di là del pene e della vagina, organi della differenza sessuale, dei quali bisogna in ogni caso sottolineare che non sono altro che ‘costruzioni sociali’».
Tale versione analocentrica del mondo dice davvero molto sulla totale assenza di umorismo che è un altro dei limiti della visione woke della società.
Tutto questo contraddice talmente la realtà – realtà che esiste e che accade, al di là di ogni astrattezza decostruzionistica – da risultare alla fine insostenibile.
[…]
Essere maschi ed essere femmine non per volontà ma per natura è un’espressione della potenza della materia; alla Gender Theory va quindi rivolta una critica in primo luogo materialistica e per la quale neppure la filosofia dell’ano di Preciado e di altri potrà superare la prova del tempo, fondata com’è sui sogni di un visionario che saranno decostruiti e cancellati da una metafisica capace di rispettare il reale, tutto il reale, la realtà della differenza, anche la realtà della differenza tra femmine e maschi».
(Ždanov. Sul politicamente corretto, pp. 122-124)

Il corpo nel rapporto educativo

Il «Dipartimento di Scienze Umane e dell’Innovazione per il Territorio» dell’Università dell’Insubria (Varese) prevede un corso dedicato a Scienza e fantascienza nei media e nella letteratura, tenuto dal Prof. Paolo Musso, docente di Filosofia teoretica.
Il corso organizza dei seminari che quest’anno sono collegati anche al Congresso mondiale di astronautica, che si tiene a Milano dal 14 al 18 ottobre. Nell’ambito di questo Congresso il 18 ottobre 2024 si svolgerà a Varese una giornata di studi sul «futuro della comunicazione» nella quale terrò una relazione dal titolo Il corpo nel rapporto educativo.
Sosterrò, in sintesi, che il fondamentale legame tra educazione e corporeità rende insostituibile la didattica in presenza. Docenti e studenti non costituiscono infatti dei pixel su un monitor ma sono dei corpimente che soltanto nello spaziotempo fisico possono incontrarsi, dialogare, formarsi e crescere.

 

Russia

Prima di pubblicare sul mio sito una pagina sulla Russia che ho ricevuto da un amico ho chiesto a un’altra amica che conosce bene quel Paese (e non è affatto simpatizzante del suo attuale governo) se questa descrizione della vita quotidiana in Russia corrisponda a realtà o meno.
La sua risposta, della quale le sono grato, è stata assai chiara e ha confermato ciò che ormai da anni penso dell’Occidente anglosassone (non dell’Europa, della quale la Russia è parte fondamentale), vale a dire che si tratta di una civiltà spenta, di una democrazia fasulla, di uno spazio dominato sempre più dall’ignoranza (con la dissoluzione delle scuole e delle università) e soprattutto dall’asfissia, uno spazio dove più non si respira. È quanto ho cercato di argomentare nel mio libro sul politicamente corretto e quanto discuto spesso su questo sito.
Naturalmente non condivido l’afflato natalista di queste righe; la mia amica ha inoltre precisato che il sogno dell’‘Occidente con la Mercedes’ poteva valere nei primi anni dopo la fine dell’URSS, non più oggi. Ma al di là di questi e altri elementi specifici, confido che la pagina che segnalo possa offrire una prospettiva diversa su un Paese europeo nei confronti del quale l’informazione occidentalista e atlantista risulta particolarmente tossica.

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Non sappiamo mai il valore dell’acqua finché il pozzo non è asciutto

Nel suo canale Telegram, il giornalista Mikhail Onufrienko ha pubblicato la storia raccontata dal ristoratore Maxim, un tedesco che ha vissuto in Germania, Svizzera, Francia e America e ha lavorato nei migliori ristoranti del posto. Ha avuto l’opportunità di apprezzare la vita in quei paesi e di rimanere per vivere nei migliori. Tuttavia, si è trasferito nella città di Dobrograd, in Russia.

«Quando hai figli», dice Maxim, «e io ne ho due, inizi a pensare al futuro: non al tuo futuro, ma a quello dei tuoi figli. Ho cinquant’anni, ho vissuto la mia vita. Avrei potuto restare in Germania, ho lavorato in Austria, America e in altri posti. Ma quando hai figli, inizi a pensare a loro: in quale paese vivranno? Che tipo di futuro avranno? E non vedo un futuro per i miei figli in Germania, per dirla in parole povere.
I russi non si rendono conto di quanto siano liberi. Non si rendono conto di quanto siano liberi di parlare di quasi tutto ciò che vogliono qui. La società tedesca è cambiata negli ultimi vent’anni al punto che non c’è più libertà di opinione.
I russi mi sorprendono sempre: pensano che se si trasferissero in Europa, vivrebbero esattamente come qui, solo che guiderebbero tutti una Mercedes. Cerco di spiegarglielo, dico: ‘Ragazzi, non vi rendete conto di quanto siete fortunati a vivere qui’. Il novanta per cento dei russi vive in appartamenti di loro proprietà, mentre in Germania solo il due per cento vive in case di proprietà. Tutti gli altri affittano un alloggio.
In Germania, quando la gente vede un bambino che corre, qualche vecchia signora urla sempre: ‘Porta tuo figlio al guinzaglio!’ Qui, quando esco con mio figlio, tutti mi sorridono. Il novantacinque per cento delle donne e degli uomini, giovani e anziani, mi sorridono. La gente qui ama i bambini.
Non ho mai visto così tanti parchi giochi come in Russia. Sono stato in molti paesi e non ho mai visto così tanti parchi giochi. In Germania, se cammini per la città, vedi uno o due parchi giochi ogni centomila persone, ma qui, c’è un parco giochi in ogni cortile. È incredibile.
I tedeschi vivono per lavorare. Qui, la gente vive per vivere. Vuoi goderti la vita, solo per viverla. Mia moglie ha vissuto in Cina per sette anni, ha studiato alla Shanghai University e dice: ‘Non ho mai visto niente di più noioso dell’Europa, è solo una palude. La vita è così: casa-lavoro-casa-lavoro-casa-lavoro. Tutto qui, non c’è nient’altro. È noioso’. Qui in Russia, c’è un po’ di ‘azione’, dice. La gente vive vite vibranti».

Tucidide

[Data l’ampiezza un poco inusuale del testo, e per una lettura più comoda, ne ho preparato anche una versione in pdf]

Le ragioni per le quali l’opera di Tucidide ateniese «è un possesso che vale per l’eternità»1 sono numerose e assai chiare allo stesso Tucidide. Motivi che si riassumono nella conoscenza dell’umanità, in una antropologia lucida, disincantata, amara. Lo scrittore sa che gli eventi futuri somiglieranno a quelli passati, saranno simili agli eventi che lui stesso ha visto e che appunto intende narrare. E lo saranno perché tutti gli umani, sia nella vita pubblica sia nelle esistenze private, «son portati a far male» (III, 45; p. 1112); perché «in genere l’uomo è portato dalla sua natura a disprezzare chi lo rispetta e ad aver timore di chi non cede» (III, 39; p. 1108); perché le sciagure avvengono «e sempre avverranno finché la natura umana sarà sempre la stessa, ma più gravi o più miti e differenti nell’aspetto a seconda del mutare delle circostanze» (III, 82; p. 1137). Sciagure che si moltiplicano in qualità e quantità poiché «giudicando più secondo i loro incerti desideri che secondo una sicura preveggenza […] gli uomini sono soliti affidare a una speranza sconsiderata ciò che desiderano e a respingere con incontrastabili ragioni ciò che aborrono» (IV, 108; p. 1238).

Fu anche questo diffuso wishful thinking a far transitare i Greci dal comune trionfo ‘contro il Medo’, contro i Persiani invasori, all’autodistruzione in una guerra interna, una guerra civile di Greci contro altri Greci le cui ragioni erano già implicite nella vittoria sui Persiani e che crebbero a poco a poco quando la potenza di Atene non seppe più frenare e fermare le sue sempre più evidenti tendenze imperiali. Iniziò allora un conflitto esteso di isola in isola, di terra in terra, di città in città. Conflitto nel quale le ragioni  di dissidio interne a ogni πόλις si univano al timore di essere resi schiavi da altre città o alla speranza di rendere altre città sottomesse. Uno stato di guerra feroce come sono tutte le guerre civili; scontri che «devastarono la terra» (III, 79; p. 1135) e che condussero a «ogni forma di strage; piombati su una scuola di fanciulli, la più grande del luogo, in cui i fanciulli erano entrati da poco, li fecero a pezzi tutti quanti» (VII, 29; p. 1427). Chi siano gli autori di questa specifica strage, in questo caso i Traci alleati degli Ateniesi, e chi siano le vittime, in questo caso gli abitanti di Micaleso in Beozia, ora – nel XXI secolo – non ha molta importanza. Ma cambiando i nomi e i luoghi dei massacratori e dei massacrati emerge con evidenza la costanza nel tempo del male umano.

La guerra infatti, ogni guerra, «non procede affatto secondo norme stabilite, ma da sé escogita per lo più i mezzi adatti all’occasione» (I, 122; p. 978). Guerre scatenate per conquistare città e denaro e dunque non adducendo giusti motivi dei quali non c’è bisogno ma prevedendo sicure utilità; guerre dichiarate per antichi torti subiti e vendette da ottenere; guerre spesso iniziate per impedire attacchi ritenuti sicuri, guerre dunque ‘preventive’, e guerre decise perché semplicemente ed esplicitamente si sa di essere più forti degli avversari.
Questo è il significato del celebre colloquio intercorso tra gli Ateniesi e i Meli, durante il quale i primi dichiarano con una sincerità che le potenze contemporanee non hanno (e anche questo le rende peggiori), «chi è più forte fa quello che può e chi è più debole cede» (V, 89; p. 1321). «Noi crediamo infatti che per legge di natura chi è più forte comandi: che questo lo faccia la divinità lo crediamo per convinzione, che lo facciano gli uomini, lo crediamo perché è evidente. E ci serviamo di questa legge senza averla istituita noi per primi, ma perché l’abbiamo ricevuta già esistente e la lasceremo valida per tutta l’eternità, certi che voi e altri vi sareste comportati nello stesso modo se vi foste trovati padroni della nostra stessa potenza» (V, 105; p. 1325).

I frutti di questa convinzione imperialista non tarderanno ad arrivare e saranno la rovina di Atene. I pericoli di ogni atteggiamento e pratica imperialisti sono infatti piuttosto evidenti. Atene si rese sempre più nemica dei Lacedemoni/Spartani, e di altri meno attrezzati avversari, già con il suo stesso diventare una potenza politica, strategica, militare, economica. Tale crescita mise infatti sull’avviso tutti coloro che non intendevano sottomettersi senza resistere a una potenza egemone. Si aggiungeva un disprezzo verso i non ateniesi che diventava sempre più palese e soprattutto di una ὕβρις, una tracotanza per la quale «gli Ateniesi pensavano che niente avrebbe dovuto opporsi ai loro piani, ma che avrebbero dovuto compiere le imprese possibili come quelle difficili, con preparativi sia grandi che insufficienti» (IV, 65; p. 1207). Neppure la peste ferma Atene. Una peste terribile, descritta da Tucidide con un’efficacia che fa da modello alle pagine di Lucrezio, di Boccaccio, di Manzoni: «L’aspetto della pestilenza era al di là di ogni descrizione: in tutti i casi il morbo colpiva con una violenza maggiore di quanto potesse sopportare la natura umana» (II, 50; p. 1038), tanto che «piombati in una tale sciagura, gli Ateniesi ne erano schiacciati, mentre gli uomini morivano dentro la città e fuori di essa la terra veniva devastata» (II, 54; p. 1041).

Ma neppure da tale sciagura gli Ateniesi vennero dissuasi ad aprire un nuovo fronte, che risulterà per loro fatale. Al conflitto continentale contro Sparta aggiunsero infatti una spedizione contro Siracusa e contro la Sicilia , impresa che sarà rovinosa. Nel racconto della guerra nell’Isola credo che Tucidide abbia toccato il culmine della propria sapienza antropologico-politica e dell’arte di scrittore.
«Questo esercito fu celebre non meno per lo stupore che suscitava la sua audacia e per lo splendore che suscitava alla vista, che per la superiorità delle sue forze rispetto a quelle del nemico che andava ad attaccare, e per il fatto che intraprendeva una traversata a grandissima distanza dalla patria, con la speranza di un potentissimo futuro rispetto alla condizione presente» (VI, 31; p. 1355). E però il risultato di tanta potenza, di un simile splendore politico e militare fu una serie di disastrose sconfitte, di «gemiti e grida»  mentre i soldati «ormai badavano a se stessi e a come salvarsi» (VII, 371; p. 1459), ben lontani dagli auguri e dai peana con i quali erano partiti e invece «vinti completamente in tutto, senza subire nessuna sventura di scarso rilievo in nessun campo, in una distruzione completa» (VII, 87; p. 1472).

A spingere i cittadini di Atene a tale catastrofe fu anche e specialmente il giovane Alcibiade, assai ricco e ambizioso. Venne sconfitta la saggia prudenza di Nicia che si era invece pronunciato contro l’estensione della guerra in Sicilia. Essendo stratego, Nicia partì comunque per la Sicilia, dove trovò la morte, mentre Alcibiade, partito anche lui, venne richiamato in patria con gravi accuse che non avevano a che fare con la guerra. Alcibiade passò dalla parte degli Spartani per poi tentare di rientrare incolume ad Atene. Invece di riconoscere che erano stati loro a prestar fede a un ricco e nobile avventuriero, i cittadini di Atene «si adirarono con quegli oratori che avevano consigliato di fare la spedizione, come se non l’avessero decisa loro stessi» (VIII, 1; p. 1473).

Alcibiade aveva di fatto sostituito Pericle, morto durante la peste e la cui assenza fu tra le cause del tramonto politico della città. Pericle del quale Tucidide riporta il discorso che di Atene è la descrizione più luminosa (libro II, §§ 35-46). Nel commemorare i soldati morti per la città, Pericle afferma che Atene è il luogo nel quale ciascuno emerge «non per la provenienza da una classe sociale ma più per quello che vale» (II, 37; p. 1029), un luogo nel quale la bellezza è un’esperienza quotidiana e diffusa, dove la parola e la discussione sono sempre benvenute «senza pensare che il discutere sia un danno per l’agire» (II, 40; p. 1031), dove felicità, libertà e coraggio sono i punti di riferimento dell’esistenza, suscitando anche per questo l’ammirazione degli «uomini di ora e dei posteri» (II, 41; p. 1032). Per queste e per altre ragioni «tutta la città è la scuola della Grecia» (ibidem).

Questo di Pericle è il più famoso dei discorsi che intramano l’opera di Tucidide, scandita appunto in discorsi riportati tra virgolette – degli strateghi, dei capi politici, degli ambasciatori delle diverse città in lotta tra loro – e scandita da descrizioni estremamente particolareggiate degli eventi bellici, degli scontri navali, delle battaglie, delle sconfitte e vittorie, delle fughe e trionfi. Descrizioni che lo storico ateniese fonda sui racconti di tanti e sulle proprie personali esperienze. Discorsi che sono costruiti in base alla verosimiglianza, vale a dire in base a ciò che si presume quel certo oratore abbia dovuto e potuto dire in quella determinata circostanza. Tucidide lo ammette con onestà e con chiarezza: «mi terrò il più possibile vicino al pensiero generale dei discorsi effettivamente pronunciati» (I, 22; p. 910).

Tutto questo, lo splendore e la sventura, venne vissuto da umani davvero simili a ciò che gli esemplari della nostra specie sono da sempre. Una specie aggressiva, astuta, capace di riflessione e tuttavia spesso vittima di passioni che distruggono gli altri e se stessi. Una natura che i luoghi, i popoli, le credenze, le civiltà cercano di educare nei modi più vari. I Greci vennero in generale educati così: «Non bisogna credere che un uomo sia molto diverso dagli altri, ma che è più forte chi è stato educato nelle più dure difficoltà» (I, 84; p. 951). Molti popoli e culture condividono nel nostro tempo tale criterio e pratica pedagogica. Più non lo fa l’Occidente dominato dal modo di vivere anglosassone, in mano a pedagogisti e a psicologi che impongono nelle scuole e nelle università i criteri compassionevoli, ‘inclusivi’ e irrealistici che plasmano giovani e adulti irresponsabili, incapaci, distrutti da ogni piccola e grande difficoltà che la vita inevitabilmente presenta. Scuole e università per handicappati.
Saremo spazzati via da civiltà e popoli ancora adulti. Meriteremo questa fine e allora forse la parola di Tucidide e degli altri Greci risuonerà come un avvertimento che non abbiamo ascoltato.

Nota
Tucidide, La guerra del Peloponneso, traduzione di Claudio Moreschini, revisione di Franco Ferrari, note di Giovanna Daverio Rocchi, saggio introduttivo di Domenico Musti. In: Erodoto, Storie – Tucidide, La guerra del Peloponneso, Rizzoli, Milano 2021, I, 22; p. 910.

Più bravi

Tra i numerosi saggi che i miei allievi hanno pubblicato di recente, ne segnalo alcuni che mi sembrano particolarmente significativi.

-Daria Baglieri, Una memoria pre-biografica? Ricordo e oblio come esperienze somatiche «Filosofia Morale/Moral Philosophy», n.5, 2024/1, pp. 103-113. Baglieri articola e approfondisce con particolare chiarezza il plesso essenziale e teoretico così intricato sul quale sta lavorando da anni, quello che rende inseparabili nell’animale umano la memoria e l’oblio, elementi entrambi indispensabili alla vita del corpomente.

-Sarah Dierna, Peter Wessel Zapffe. Il profeta dell’“Ultimo Messia”, «Dialoghi Mediterranei» n.68, luglio-agosto 2024, pp. 538-550. Si tratta di uno dei pochissimi contributi in lingua italiana dedicati a Zapffe, scrittore e filosofo norvegese vissuto tra il 1899 e il 1990, tra i più originali sostenitori dell’antinatalismo. Un pensatore rigoroso e insieme visionario, del quale Dierna delinea la figura e le tesi in maniera assai limpida, mettendo al centro un racconto del 1933 ma andando anche al di là di questo specifico testo.

-Lucrezia Fava, Sull’Apocrifo di Giovanni, in «Letteratura e Bibbia. Atti delle Rencontres de l’Archet Morgex, 14-19 settembre 2020», Centro di Studi storico-letterari Natalino Sapegno 2022, pp. 113-121. Studiosa delle relazioni tra filosofia contemporanea e gnosticismo antico, Fava presenta, analizza e interpreta qui uno dei testi gnostici più chiari ed emblematici, in un saggio che si pone all’incrocio tra storia delle religioni ed ermeneutica filosofica.

-Enrico Moncado, Note sulla «Einleitung in die Phänomenologie der Religion» di Martin Heidegger, in «Mondi. Movimenti sociali e simbolici dell’uomo», vol. 5/2022, pp. 45-58. Moncado ha dedicato il suo dottorato all’analisi dell’escatologia nel pensare heideggeriano. Questo saggio sul legame e sulle differenze che intercorrono tra l’escatologia paolina e quella di Heidegger conferma per intero come dalla più potente esperienza teoretica del Novecento scaturiscono di continuo elementi di grande fecondità anche nell’ambito della fenomenologia della religione. 

-Enrico Palma, «La clôture de la joue». Un’indagine metafisica sul limite tra dolore, finitudine e temporalità. «Aretè. International Journal of Philosophy, Human & Social Sciences», vol. 8/2023 [ma uscito nel 2024], pp. 223-247. Un saggio nel quale l’intersezione tra parola teoretica e parola letteraria, che segna la monografia da Palma dedicata a Proust, contribuisce a comprendere meglio alcuni degli enigmi di fondo della vita umana.

Invito a leggere, senza fretta, questi testi e a verificare di persona la loro qualità scientifica. I loro autori stanno tutti lavorando a progetti di ricerca di grande rilievo, dei quali i saggi qui segnalati sono tappe e insieme sintesi. I miei allievi stanno diventando più bravi di me. Uno degli obiettivi del mio insegnamento comincia a essere conseguito.

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