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Emergenze

Il Prontuario per le emergenze ad uso dei governanti a firma di Davide Miccione, pubblicato su Aldous il 13 marzo 2025, è un testo che coniuga implacabilità logica, realismo politico, ironia espressiva.
Lo riporto qui integralmente poiché condivido per intero l’analisi che da esso emerge del nostro tempo, della sua sostanziale natura servile, la quale rende molte persone semplicemente incapaci di vedere ciò che accade.

Testo sul sito della rivista
Pdf del testo

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Quella venuta meglio resta il covid, senza alcun dubbio. Quella venuta peggio la guerra Israele-Palestina. Ancora più improbabile sembra la chiamata al riarmo immediato europeo. In mezzo abbiamo il patriarcato, l’omofobia, la guerra russo-ucraina, l’immigrazione, l’apocalisse climatica, il ritorno del fascismo. La velocità di sostituzione delle emergenze segue la crescente velocità di sostituzione delle merci, però funziona sempre peggio. Ogni sostituzione di emergenza si fa disvelamento progressivo per qualcuno e, sebbene alcuni di loro finiscano poi prigionieri di fantasiose e altrettanto dogmatiche contronarrazioni, il lavoro di convincimento delle masse sembra farsi sempre più faticoso per quel povero clero intellettuale (giornalisti, showrunner, sceneggiatori, romanzieri light, ghost writers dei politici ecc) cui è demandato tutto il peso delle narrazioni sul mondo.

Da aspiranti “emergenzologi” vorremmo provare a fare un po’ di chiarezza sui prerequisiti necessari per una buona emergenza anche ad uso dei sempre più stanchi governanti. In verità l’asset di potere su cui quasi tutte le costruzioni delle emergenze si sono basate appare in via di disarticolazione e il nuovo potere ascendente sembra voler sostituire la costruzione delle emergenze facendosi emergenza esso stesso. Trump sembra dire: posso fare di tutto, non ho limiti, sono imprevedibile: “l’emergenza c’est moi”. Quest’ultimo passaggio spiazza la nascente scienza dell’emergenzologia che avrà bisogno di più tempo per processare questi ultimi eventi ma vi è comunque la certezza che il vecchio sistema tradizionale di costruzione delle emergenze che ha i suoi prodromi in Italia già con l’entrata nell’Euro (l’emergenza di un treno che non poteva essere perso) e ancor prima in tangentopoli (l’emergenza corruzione) e nella strategia della tensione e che tante soddisfazioni ha dato nell’esercizio del potere, non verrà messo né del tutto né per molto in cantina.

Ecco dunque il prontuario per una buona emergenza. In primis l’emergenza deve essere vera. Ci deve essere davvero un virus, una guerra, dei morti, un cambiamento climatico, un atroce atto terroristico eccetera. Non bisogna farsi prendere dalla hybris e costruire sul nulla, sebbene in alcuni casi (l’emergenza antrace irakeno) anche la “fake emergenza” possa funzionare in assenza di significativi gruppi simpatizzanti con la controparte. Se però l’emergenza è vera in che senso parlare di emergenza e non della “cosa” stessa che ci impone la sua realtà? Per rispondere vanno analizzati con cura i parametri.

In primo luogo l’emergenza è caratterizzata dall’essere in parte causata, nel suo reale rischio collettivo, da quelle stesse forze che la sbandierano come ragione sociale del proprio intervento politico. Così, ad esempio, in quella riuscita meglio, una classe politica che aveva disinvestito sugli ospedali e le terapie intensive ci spiegava che ogni disposizione di legge era permessa perché in caso contrario i posti in ospedale non sarebbero stati sufficienti oppure, in altre emergenze, una classe politica che non ha investito nel welfare, nella scuola e nel controllo del territorio lancia l’emergenza della mancata integrazione degli immigrati. O ancora, una classe imprenditoriale malata di sviluppismo e vissuta sul consumismo scopre il tema dell’inquinamento e dell’ambiente.

In secondo luogo, oltre ad aver parte nel rendere l’emergenza più grave di quanto sarebbe potuta essere a causa di scelte precedenti, chi la cavalca ne acuisce gli effetti anche in atto. Ad esempio, nella nostra best practice di studio, lo fa impedendo alla medicina di prossimità di intervenire (i medici non visitino i malati!) o evitando siano prescritti farmaci adeguati e sostituendoli con vigili attese.

E poi necessario bloccare la linea temporale. Ogni buona emergenza nasce dall’istituzione di un limite temporale di partenza che non può essere violato senza incappare nella stigmatizzazione sociale. La guerra russa-ucraina va pensata dal 24 febbraio 2022 e non prima, l’attacco israeliano a Gaza dal 7 ottobre 2023. Il clima va analizzato senza andare troppo indietro nei secoli, il covid non ha predecessori e, senza vaccino, è un ufo contro cui si può solo fare vigile attesa eliminando anche la vecchia priorità dell’immunità naturale. Ancora, i dati sui delitti degli anni passati sulle donne non esistono eccetera.

L’emergenza va ritagliata anche nella sua possibilità di pensarla. Si esprime solo in un modo e si può lottare in essa solo in un modo. Dunque solo la Co2 conta per l’emergenza clima (le decine di altre questioni, ad esempio il consumo di suolo, diventano improvvisamente irrilevanti), solo l’immunizzazione dal covid conta (e, qualsiasi altra patologia le scelte politiche anticovid facciano aumentare, è fuori dal cono di luce dell’emergenza e quindi trascurabile); solo i morti israeliani, solo l’autonomia ucraina vale ma non quella dei russofoni ucraini, e così via. L’emergenzialismo, come Figaro, canticchia perennemente “uno alla volta, uno alla volta per carità”.

Un buon consiglio per una buona emergenza è di non far coincidere i cattivi della vicenda con una minoranza organizzata (errore fatto con i pro-palestinesi) ma di ritagliarla nella carne viva della società, tra gente che non sa ancora di essere il chiodo che sporge. Inquinatori con l’Hammer in garage e tizi che coltivano bio, se non hanno avuto fede nel verbo emergenziale climatico, si sono trovati incasellati nella medesima casella del negazionismo. Fascisti, comunisti, liberali, conservatori e progressisti, se hanno visto con perplessità le politiche pandemiche, si sono ritrovati nella casella dei no vax e cosi via.  L’emergenza infatti va fatta coincidere, dopo averla ritagliata tematicamente e temporalmente, con il bene assoluto e tanto colui che non crede, quanto colui che non ritiene sia perimetrabile come ha deciso la macchina informativa, quanto infine colui che pensa di risolverla diversamente, si trovano allocati nel male e vengono costituiti dall’esterno e omogeneizzati come una specifica classe di malvagi in quanto avversari del bene. La specificità del sistema è quella di accorpare posizioni diverse e definibili solo ex contrario dalla mancata adesione alla “brutta novella” causando una orribile stenosi del pensiero e del principio di realtà. Diventano così putiniani tanto coloro che apprezzano Putin quanto chi non l’apprezza ma ne capisce le ragioni e perfino chi non l’apprezza, non ne capisce le ragioni ma ritiene che si debba cercare la pace. Diventa antisemita sia chi odia gli ebrei e sia chi ama gli ebrei ma pensa che gli israeliani stiano esagerando. Diventa no vax sia chi teme tutti i vaccini, sia chi teme i soli vaccini anticovid e persino chi (ho conosciuto personalmente un caso) stando all’estero ha fatto senza problema i vaccini anticovid tradizionali (cinesi o cubani ad esempio) ma tornando in Europa non era disposto a fare quelli a mRNA.

Una lettura totalitaria del mondo è dunque strutturale al sistema emergenza. A fronte di questa, la barbarie della verità che ci mostra l’amministrazione Trump, così chiara nel mostrare i rapporti di forza e la solita natura predatoria umana squadernata in bella vista, appare come l’ultima tappa di un progressivo disvelamento del reale che il ventunesimo secolo ci sta regalando. Che poi le masse sappiano approfittare di questa opportunità di comprensione è un altro discorso.

Schiave e carnefici

In Italia, che io sappia, è un silenzio quasi assoluto, in particolare da parte delle grandi reti televisive (un silenzio casuale? Improbabile). Altrove, e non soltanto ovviamente in Gran Bretagna, se ne parla da tempo, soprattutto dopo che alcuni dei responsabili sono stati portati a giudizio. Qui segnalo un resoconto sintetico e molto chiaro uscito sul quotidiano francese Le Figaro lo scorso 3 gennaio 2025. Ad averlo scritto è Mathieu Bock-Côté e si intitola «Dietro gli stupri delle bande pakistane l’imbarazzato silenzio delle élites». Invito a leggerlo  per intero (se necessario a tradurlo in automatico; qui sotto c’è il pdf).
Ne riporto alcuni brani tradotti da me.

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Il caso degli stupri di ragazze bianche della classe operaia britannica per mano delle bande pakistane ritorna in una misura inattesa e domina di nuovo la politica e la stampa inglese.

La vicenda risale al 2017. Allora si parlò degli stupri di Telford. In Inghilterra hanno scoperto che per molti anni 1400 ragazze britanniche bianche della classe operaia erano state ridotte in una condizione di schiavitù sessuale da parte di bande pakistane.
[…]
Le bande avrebbero in effetti agito nella maggior parte delle città inglesi. Si parla di decine di migliaia di ragazze coinvolte, forse anche più.
[…]
Dopo le aggressioni sessuali a Colonia, nel 2016, ogni società occidentale avrebbe potuto e dovuto esserne consapevole, dato che ciascuna lo aveva in modi diversi vissuto. Ma nonostante questo le autorità inglesi hanno distolto lo sguardo, quando non hanno persino cercato di insabbiare i fatti: esse temevano, se il fenomeno si fosse venuto a sapere, di suscitare odio razziale.
[…]
Le società occidentali intendono presentarsi come particolarmente sensibili alle violenze sessuali, ma esse lo sono veramente soltanto quando di tratta di mettere sotto accusa il «patriarcato». Le violenze frutto di differenza [etnica] sono invece nascoste, o persino apertamente negate, poiché esse svelano che la sicurezza e la libertà delle donne costituiscono il prezzo da pagare per l’avventura multiculturale. L’estremismo ideologico fa sì che il regime globalista si scagli contro quanti lanciano l’allarme e, ancor di più, contro chi subisce personalmente la violenza, non accettando di fare da vittima sacrificale.

[pdf: Mathieu Bock-Côté : «Derrière les viols des gangs pakistanais, le silence gêné des élites»]
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In molte città europee e italiane, compresa Milano nella sua piazza del Duomo, la notte di Capodanno del 2025 si sono verificate violenze e aggressioni contro le ragazze bianche da parte di persone nordafricane. Quanti lo sanno? Televisione e stampa ne hanno parlato?
Per alcune culture non europee (oltre che per non pochi europei) le ragazze libere, sole, disinibite sono soltanto delle «puttane» e come tali vengono trattate dai maschi di quelle culture. Qui non scatta l’accusa di «patriarcato»? E questo solo perché i suoi responsabili non sono europei o di origine europea?
Valutare un comportamento e un reato su base etnica, valutare su base etnica un gravissimo crimine contro le persone, ecco questa è una chiara espressione di razzismo, in questo caso razzismo contro le donne bianche. Un razzismo ancora più odioso in quanto esercitato su ragazze che, in Gran Bretagna, vivono in condizioni sociali ed economiche di grande difficoltà; proletarie e sottoproletarie con famiglie spesso inesistenti o deboli.
Un caso dunque di razzismo etnico e sociale. Ma è inevitabile che l’estremismo inclusivista, globalista e politicamente corretto pervenga a tale spregevole esito. Un esito violento e suicida.

La Madre

Mother, Couch
(Divano di famiglia)
di Niklas Larsson
USA, Danimarca, Svezia 2023
Con: Ewan McGregor (David), Ellen Burstyn (la madre), Rhys Ifans (Guffrud), Taylor Russell (Bella), Lara Flynn Boyle (Linda), F. Murray Abraham (Markus / Marco)
Trailer del film

Per dei mammiferi la madre è tutto. E non soltanto per i cuccioli di Homo sapiens che nascono in una cultura mediterranea, dove la Grande Madre è la vera divinità (la Madonna cattolica è questo) e dove, all’opposto di quanto affermano tesi che rimangono alla superficie delle dinamiche sociali, la struttura delle comunità è sostanzialmente matriarcale (la più parte dei figli di origine siciliana potrà darne conferma). La questione è più profonda: la madre è il legame con la vita stessa (come è ovvio), con il clan, con la casa, con la filogenesi. La madre è tutto.
E lo è anche e soprattutto quando il suo comportamento risulta scostante e l’atteggiamento poco affettuoso, come per la madre di questo film, la quale non aveva desiderato i suoi figli – e apertamente glielo comunica –  e non nutre affetto neppure verso i nipotini. Una madre che ha avuto i suoi tre figli da tre uomini diversi. Il figlio più giovane, David, è il più dedito a lei. E lo rimane anche quando, imprevedibilmente, la signora ultraottantenne non intende alzarsi dal divano di un negozio di arredamento. I figli, uno dopo l’altro, cercano di convincerla ad alzarsi e a tornare a casa. Ma non c’è niente da fare. Prima per delle ore e poi giorno e notte la madre rimane lì, reagendo con furore a ogni tentativo di condurla via. In un momento di quiete, consegna a David la chiave di una cassettiera dicendogli che è giusto che sia lui ad averla e ad aprirla. Questo mobile contiene la spiegazione di molti eventi, di molto dolore. A poco a poco tutta la vicenda assume una dimensione onirica che è l’espressione della interiorità di David. Lo è anche la madre. Il negozio si trasforma in un luogo di passaggio dalla solidità della terra al mistero delle acque, dalla vita alla morte, dal presente alla memoria.
È un film plurale, questo di Niklas Larsson. Un film che è commedia ed è dramma, che è la desolazione di un negozio sperduto nelle lande statunitensi ed è però anche un luogo sacro, i cui proprietari, due fratelli gemelli e la bella figlia di uno di loro, si rivelano assai più che dei commercianti essendo invece figure del destino. Il sogno, l’incubo e la pace mi hanno ricordato Una pura formalità (1994), il capolavoro di Giuseppe Tornatore.
Protagonista di Mother, Couch è il figlio, il quale però vive dentro l’anima della madre. Come molte delle sue simili, essa non tollera concorrenza, competizione, collaborazione. I figli sono suoi, frutto delle sue viscere, portati per mesi nel ventre, dati con dolore alla luce, specchio riflesso della sua natura.
E invece la Madre va uccisa, se vogliamo vivere. Essa deve diventare una persona qualsiasi della famiglia. Non bisogna permetterle di raggiungere il suo scopo: essere la Grande Madre che controlla i tempi, gli affetti, i progetti degli altri. La Grande Madre è la Gorgone che paralizza, è la Vergine Maria che rende ogni Giuseppe un individuo ridicolo e patetico, è l’Angelo del focolare che brucia le anime dei figli, è la Potenza della Terra che si apre a inghiottire nel proprio utero i corpi che da esso sono usciti. Che stritoli i nati nel proprio affetto o che dia loro l’angoscia dell’abbandono, la Grande Madre è la Morte.
Come la madre di Citizen Kane, la Signora di questo film ha abbandonato la prole, anche se lo ha fatto in modo diverso. La dimensione tragica, greca e gnostica del capolavoro di Orson Welles diventa qui una commedia nera. Ma in ogni caso ha ragione Baudrillard: «Fallo vivente della madre, tutto il lavoro del soggetto perverso consiste nell’installarsi in questo miraggio di se stesso e trovarvi l’appagamento del suo desiderio – in realtà appagamento del desiderio della madre. […] Processo identico a quello dell’incesto: non si esce più dalla famiglia» (Lo scambio simbolico e la morte [1976], Feltrinelli 2007, p. 127). Uscire, affrancarsi da lei, dalla Madre, è dunque liberarsi dalla perversione, è vivere. Finalmente lontani dal grembo di tenebra che anche questo film intuisce e comunica.

Universalismo

Universalismo
Aldous, 5 gennaio 2024
Pagine 1-3

L’universalismo liberale dell’Occidente non si fa scrupoli ad agire in base a principi etnocentrici e razziali quando essi diventano funzionali alla sua politica di potenza. Conseguenza di tale universalismo etnocentrico è un sempre più esteso e capillare controllo delle opinioni critiche rispetto agli eventi (che si tratti di epidemia, di Ucraina, di Palestina), una sempre più chiara imposizione di slogan autoritari, un pericoloso tramonto della libertà di espressione.
In questo modo l’universalismo liberale si mostra in realtà per quello che è, una forma della volontà di potenza, un’espressione del rifiuto delle differenze e della molteplicità a favore di un’identità imperiale.

[L’articolo è uscito anche su Sinistrainrete]

Patriarcato

La lettera che qualche giorno fa ho ricevuto da Dario Generali, uno dei massimi studiosi europei di Storia della scienza, è un esempio di come vadano letti i fatti collettivi, sottraendosi al massiccio condizionamento dell’informazione dominante, alla retorica più penosa, ai valori diventati strumento di una società ossessionata e fragile. La limpidezza, coerenza e plausibilità di quanto scrive Generali è una lucida alternativa al desolato paesaggio mediatico e sociologico nel quale siamo da tempo immersi. Riproduco con la sua autorizzazione il testo.

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Sono rimasto colpito dall’insistenza delle proposte di corsi di educazione all’affettività a scuola, che sarebbero, secondo me, le solite inutili perdite di tempo a scapito dell’insegnamento. A mio parere, detta in breve, servirebbe piuttosto una formazione seria che metta gli studenti nelle condizioni di affrontare ogni loro problema con razionalità, senza farsi travolgere da fragilità psicologiche ed emotività surriscaldate. Anche l’insistenza sul paternalismo e sul maschilismo mi sembra fuori luogo. In primo luogo è difficile definire il nostro paese, almeno sul piano istituzionale, paternalista. Il presidente del Consiglio è donna, donna è il ministro dell’Università e della ricerca, donna è la presidente del CNR. Anche l’ultimo vestigio del maschilismo è stato superato con l’attribuzione ai figli anche del cognome della madre. Un maschilista, poi, non insisterebbe mai per tenersi una ragazza o una donna che se ne vuole andare, perché la sostituirebbe subito con altre. Quando mai un maschilista pietirebbe con una donna per non essere lasciato? Che vada pure dove vuole, ne troverebbe subito altre. Quando un uomo passa alla violenza sulle donne in realtà ha una psicologia malata e lo è tanto più quanto quella violenza, per non parlare di quando giunge a ucciderle, si ritorcerà poi pesantemente su di lui, rovinandogli la vita o anche inducendolo poi a suicidarsi per sfuggire alle conseguenze del suo gesto folle.
Capirei di più se queste azioni avvenissero a seguito di azioni persecutorie da parte di donne. Come far togliere ingiustamente l’affido dei figli, cacciare il marito di casa, farsi pagare gli alimenti e ospitarci invece un amante, con i figli piccoli che finissero per identificarlo come il loro padre, ecc. Ma prendersela con una fidanzata che se ne vuole andare è chiaro segno di follia e di patologica debolezza. Paternalismo e maschilismo c’entrano secondo me ben poco.
Come sempre, in queste discussioni, quella che latita è la razionalità.
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A conferma delle riflessioni di Generali segnalo un mio breve intervento pubblicato più di dieci anni fa, il 20.10.2012, riferito anch’esso all’assassinio di una ragazza da parte del suo ex fidanzato.
Ne riporto qui il contenuto.

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Un uomo di 23 anni, Samuele Caruso, ha ferito a Palermo con un centinaio di coltellate la ragazza di diciotto anni che lo aveva lasciato e ha ucciso la sorella di lei, diciassettenne, che cercava di difenderla.
Eventi di questo tipo si ripetono con regolarità. Quali le ragioni? Possono essere numerose e diverse. Lo psichiatra Vittorino Andreoli parla di maschi insicuri e di gelosia patologica. Vero. Maschi resi tali – soprattutto nel Sud mediterraneo – anche dal mancato affrancamento dalla figura della madre. Molti sociologi e donne parlano di femminicidio. Vero anche questo.
Ma credo ci sia anche una motivazione di tipo educativo. Uno straordinario racconto di Friedrich DürrenmattIl figlio – narra di un padre che aveva allevato il figlio in solitudine «esaudendogli ogni desiderio». Quando il ragazzo quindicenne esce dalla villa dove aveva sino ad allora vissuto, torna «ventiquattro ore dopo a rifugiarsi dal padre, avendo brutalmente ucciso una persona che si era rifiutata di dargli da mangiare senza pagare» (Racconti, Feltrinelli 1996, pp. 13-14). La responsabilità è anche e soprattutto dei genitori, dei nonni, dei maestri, dei professori. Di tutti quegli adulti che, rispetto alla fatica che ogni negazione argomentata comporta, preferiscono la facile strada dell’accondiscendenza a ogni volontà e capriccio degli adolescenti. Quando un bambino e ragazzo riceve sempre da coloro che dovrebbero educarlo dei “sì” (non sia mai che il pargolo subisca dei “traumi”), è chiaro che poi non comprende come sia possibile che qualcuno, una coetanea ad esempio, gli possa dire di no. E scatta la reazione del bambino che pesta i piedi per ottenere il suo giocattolo.
Aveva e ha perfettamente ragione Giuliana Ukmar nel coniare la formula «Se mi vuoi bene, dimmi di no». Aveva ragione a stigmatizzare il «permissivismo esasperato» che induce a ritenere che « “volere” una cosa significa, automaticamente, averla. […] Se il risultato più patologico che emergeva dal rapporto con un padre-padrone era un figlio dalla personalità nevrotica, piena di fobie, il traguardo finale di una educazione di stampo permissivo è, invece, una personalità che sfocia nella psicosi. Gravissima, difficile da curare. Un ragazzo cresciuto senza regole, è in preda a quel delirio d’onnipotenza che lo indurrà a crearsi una realtà su misura». Un delirio che fa dei propri desideri il criterio assoluto del mondo e che quindi non tollera che una donna possa lasciarti.
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Avevo dunque accennato ai professori che «preferiscono la facile strada dell’accondiscendenza a ogni volontà e capriccio degli adolescenti», atteggiamento che in ambito universitario diventa anche il distribuire esami e lauree in modo del tutto arbitrario e fuori legge, come nel caso che ho documentato qui: Lauree. Sempre nel testo del 2012 rinviavo a una riflessione ancora precedente, del 2007, intitolata Contro la madre, che chiudevo ricordando le parole di Baudrillard: 

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«Fallo vivente della madre, tutto il lavoro del soggetto perverso consiste nell’installarsi in questo miraggio di se stesso e trovarvi l’appagamento del suo desiderio –in realtà appagamento del desiderio della madre. […] Processo identico a quello dell’incesto: non si esce più dalla famiglia» (Lo scambio simbolico e la morte [1976], Feltrinelli 2007, pag. 127). Uscire, affrancarsi da lei, dalla Madre, è dunque liberarsi dalla perversione, è vivere. Finalmente lontani dal suo grembo di tenebra.
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Parole di sedici e di tredici anni fa, dunque, che oggi confermo pienamente anche alla luce di ciò che da allora va accadendo; parole con le quali tento una lettura un poco meno omologata e per la quale – senza che ci sia da sorprendersi – è in realtà una mancata emancipazione dalla madre, è un eccesso di matriarcato a rendere alcuni maschi affettivamente dipendenti dalle donne che desiderano e patologici sino all’orrore.

Allah

La cospirazione del Cairo
(ولد من أل جنة, Walad Min Al Janna)
di Tarik Saleh
Svezia, 2022
Con: Tawfeek Barhom (Adam), Fares Fares (Ibrahim), Makram Khoury (il maestro cieco), Sherwan Haji (Soliman)
Trailer del film

Yahweh (Yaldabaoth) e Allah (اَلله) sono i due nomi fondamentali dei monoteismi mediterranei. Nomi dentro, attraverso e per conto dei quali si commettono da due millenni delle nefandezze estreme. E questo accade sia perché la logica dell’Uno che estirpa il Molteplice è di per sé portatrice di violenza sia perché questi nomi contribuiscono ad ammantare di ragioni assolute e di valori morali i consueti comportamenti degli umani. Consueti, vale a dire distruttivi. Yahweh e Allah aggiungono dunque l’elemento dell’ipocrisia al dispositivo di per sé violento dell’umano.
Il thriller teologico di Tarik Saleh narra infatti una storia improntata all’assassinio commesso anche nel nome della pace di Allah. Racconta di un giovane pescatore di un villaggio egiziano dotato di un’intelligenza non comune e che per questo viene accolto nell’Università Al-Azhar del Cairo, uno dei luoghi e delle istituzioni fondamentali della cultura islamica. Questo spazio è architettonicamente armonioso, pulito, pieno di libri e di shaykh (maestri) che insegnano il Corano ciascuno con una sensibilità diversa. Il Grande Imam che dirige Al-Azhar muore e il governo dell’Egitto intende imporre a tutti i costi il nome del successore poiché, afferma un generale, «il controllo di Al-Azhar è una questione di sicurezza nazionale». Ed è così che l’ingenuo, onesto, studioso Adam si trova gettato in un vortice di spionaggio, omicidi, minacce, torture, iniquità. Dentro il quale cerca di mantenersi nonostante tutto  puro. E forse a questo allude il titolo originale: Venuto dal cielo.
Anche l’Islam è un effetto del principio teologico razziale che sta a fondamento dell’ebraismo e che si dirama nel Cristianesimo e appunto nel Corano, il principio enunciato nell’Esodo, vale a dire il dispositivo mosaico dell’esclusione, del primato di una forma religiosa su tutte le altre. Tale principio si è incarnato in una forma divina esclusiva, escludente e ‘gelosa’, che non ammette nessun’altra divinità accanto a sé. Se il mondo antico, se le civiltà politeistiche conobbero certamente violenza e guerre non lo fecero però mai in nome e per motivazioni di carattere religioso, che sono motivazioni assolute e dunque implacabili. Il carattere intrinsecamente plurale della divinità impedisce di considerare gli dèi altrui ‘falsi, bugiardi, demoniaci’, spingendo invece a una reciproca assimilazione, la quale produce delle identità del tutto rispettose della differenza, poiché sono identità che senza la differenza non potrebbero né esistere (ontologia) né essere pensate (epistemologia).
Bibbia e Corano costituiscono invece la radice della desacralizzazione del mondo e della sua distruzione per opera di una parte che si è proclamata signora e padrona del mondo, portavoce dell’unico Dio. Ebraismo, Cristianesimo e Islam sono intrinsecamente aggressivi – la loro storia lo dimostra ampiamente – proprio perché il loro comune nucleo è la riconduzione e riduzione del Molteplice all’Uno.
La cospirazione del Cairo intende essere e rimanere un thriller politico ma la teologia non ne costituisce soltanto uno sfondo, anzi ne è il vero motore, per quanto appaia chiaro che i capi ed esecutori politico-militari siano piuttosto scettici in tema di religione. Tutti però si salutano sempre nel nome di «Allah il misericordioso». Una delle ultime battute del film, pronunciata dalla suprema autorità militare, è questa: «Il potere è un’arma a doppio taglio. Può ferire chi la utilizza». Anche il potere della parola divina.
Sul mare si apre e sul mare si chiude questa storia di menzogna e di assassinio. Il mare, che esisteva prima di tutto questo e che ci sarà ancora quando le «verità assolute» degli umani saranno diventate polvere del tempo.

P.S.
In un film permeato di cultura islamica le donne naturalmente non compaiono (esclusa una scena di pochi minuti), né possono frequentare l’Università Al-Azhar o avere una qualche parte nelle decisioni politiche. Nessuna, ovviamente, in quelle teologiche. Si ripropone dunque in maniera lampante la schizofrenia di non pochi dei politicamente corretti, i quali lottano per l’accoglienza del mondo islamico in Europa e pensano contemporaneamente di poter condurre una lotta senza quartiere al patriarcato maschile; due ingiunzioni evidentemente tra di loro incompatibili. Cfr. Wokismo e Decostruzione.

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