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Just a shining artefact of the past

Leonard Cohen
Everybody Knows (mp3)
(Da I’ m Your Man, 1988)

Versione video

And everybody knows that the dice are loaded
everybody rolls with their fingers crossed
everybody knows that the war is over
everybody knows the good guys lost
everybody knows the fight was fixed
the poor stay poor, the rich get rich
that’s how it goes
and everybody knows

And everybody knows that the boat is leaking
everybody knows that the captain lied
everybody got this broken feeling
like their father or their dog just died
everybody talking to their pockets
and everybody wants a box of chocolates
and a long stem rose
and everybody knows.

And everybody knows that you love me baby
everybody knows that you really do
everybody knows that you’ve been faithful
ah give or take a night or two
everybody knows you’ve been discreet
but there were so many people you just had to meet
without your clothes
and everybody knows

and everybody knows, everybody knows
that’s how it goes
everybody knows
everybody knows, everybody knows
that’s how it goes
everybody knows.

And everybody knows that it’s now or never
everybody knows that it’s me or you
and everybody knows that you live forever
ah when you’ve done a line or two
everybody knows the deal is rotten
old Black Joe’s still pickin’ cotton
for your ribbons and bows
and everybody knows

and everybody knows that the plague is coming
everybody knows that it’s moving fast
everybody knows that the naked man and woman
are just a shining artefact of the past
everybody knows the scene is dead
but there’s gonna be a meter on your bed
that will disclose
what everybody knows.

And everybody knows that you’re in trouble
everybody knows what you’ve been through
from the bloody cross on top of Calvary
to the beach of Malibu
everybody knows it’s coming apart
take one last look at this Sacred Heart
before it blows…

…e così via.
Tutti sanno che il tempo volge alla fine
Che la luce che è stata più non torna
Che il sorriso ci rimane di una sera.
That’s how it goes.

«T’ho colpito al cuore»

Selvaggia, totale, cieca e illuminata, feroce, sapiente delle passioni che per gli umani costituiscono «cagione dei mali più tremendi»1. Pervasa e fatta di passione anche lei, soprattutto lei. Questo è Medea. Intrisa di un sentimento potente, la vendetta. Passione che anche altri illuminati -come Platone e Aristotele- giudicano del tutto legittima, una passione che per i Greci è naturale, persino doverosa. La passione che fa dire a Medea «e adesso spero che paghi il fio chi m’odia» (p. 86), la passione che vuole fare di se stessa un’entità «benigna ai cari e ai miei nemici cruda. A persone così ride la gloria» (p. 87).
Medea è tale passione fatta carne, intelligenza, azione. Fatta gioia pur nel gorgo di azioni inconsulte e folli, quali il trasformare in veleno e torcia umana una giovane sposa e poi uccidere i propri figli avuti da Giasone, in modo che quest’uomo non abbia più figli e non abbia più compagna. Al servo che le annuncia la fine della giovane Glauce -sposa di Giasone-, Medea chiede di parlare a lungo, di descriverle nei dettagli l’accaduto «ché la mia gioia sarà doppia, se mi dirai che la morte è stata orrenda» (p. 96).
Di fronte a un simile oltre dell’umano, Giasone si mostra in tutti i suoi limiti di politico, di piccolo calcolatore destinato al fallimento. Ed è Giasone, non certo uno qualsiasi, Giasone che fu il primo ad aver sottomesso il mare navigandolo, colui che ha conquistato il Vello d’oro, un’impresa ricordata persino da Dante al culmine del suo viaggio: «Un punto solo m’è maggior letargo / che venticinque secoli a la ’mpresa / che fé Nettuno ammirar l’ombra d’Argo» (Paradiso, XXXIII, 94-96).
A un tale eroe il coro dice però «oh quanto sei cieco al tuo destino!» (p. 92), cecità che presto si trasforma in una visione che lo acceca dei figli, del futuro, di ogni possibile ulteriore soddisfazione nella vita.
E questo sancisce che, sì, «guaio [è] per gli uomini l’amore!» (p. 72). Sancisce che l’umano è un’ombra, «che quanti fra gli uomini sembrano saggi e acuti pensatori sono votati alle pene più gravi. Ché nessuno è felice tra i mortali» (p. 98). Se la verità di tali parole è evidente, allora ha ragione il Coro quando afferma «che, fra gli uomini chi / non sa nulla di figli, chi non seminò, / di gran lunga supera chi generò, / per felicità» (καί φημι βροτῶν οἵτινές εἰσιν / πάμπαν ἄπειροι μηδ᾽ ἐφύτευσαν / παῖδας προφέρειν εἰς εὐτυχίαν /τῶν γειναμένων, vv. 1090-1093). Lo confermo, a ragion veduta.
Rivolgendosi a Giasone, Medea conclude -malvagia e raggiante- «τῆς σῆς γὰρ ὡς χρῆν καρδίας ἀνθηψάμην» (v.1360), «in ogni caso t’ho colpito al cuore». Magnifico.

1. Euripide, Medea, in «Le tragedie», trad. di Filippo Maria Pontani, Einaudi 2002, p. 94

Una lettura

Ringrazio l’équipe del fotografo Franco Carlisi che ha ripreso e montato con rigore ed empatia la lettura del racconto Di stelle e di buio, in occasione della presentazione del volume di Carlisi ll valzer di un giorno al Dipartimento di Scienze Umanistiche di Catania il 9 novembre 2018. L’elemento per me più interessante è costituito -oltre che dalle immagini iniziali dello splendido Monastero dove lavoro- dai volti degli ascoltatori, con le loro espressioni sorprese, attonite, divertite, attente. Tra questi volti, numerosi miei studenti che ringrazio ancora una volta per la presenza affettuosa e partecipe.

 

Amleto

Piccolo Teatro Strehler – Milano
Concerto per Amleto
da The Tragedy of Hamlet, Prince of Denmark (1600-1601)
di William Shakespeare
Drammaturgia Fabrizio Gifuni, con la consulenza musicale di Rino Marrone
Voce Fabrizio Gifuni
Direttore dell’Orchestra Sinfonica Giuseppe Verdi di Milano: Rino Marrone
Musiche di Dmitrij Šostakovič: da Op. 32,  musiche di scena per l’Amleto di Nikolai Akimov e Op. 116, musiche per il film Hamlet di Grigori Kozintsev

La voce di Fabrizio Gifuni si fa anch’essa strumento, diventa solista che si staglia dentro le note ilari e tragiche di Šostakovič. Una voce capace di essere i personaggi della tragedia paradigma, dell’Orestiade rivisitata da Shakespeare con tutta l’interiorità e l’autocoscienza che i Greci per loro fortuna non avevano.
Il nichilismo che pervade Amleto non è infatti soltanto la sapienza che ben sa come «ogni cosa vivente è dovuta alla morte» (trad. di Luigi Squarzina, atto I scena II) ma è anche l’incertezza su cosa sia meglio, se l’esserci o il suo contrario, è il bisogno di una «felicità» capace di affrancarsi dal doloroso respiro «di questo mondo acre» (V, II).
Acre è infatti la vita. E non l’addolciscono né la vendetta né il perdono. La consola, alla fine, soltanto il silenzio sul quale Amleto si chiude senza potersi chiudere, rimanendo aperto al tempo fuori dai cardini, all’imprevedibile che sempre scompagina i piani degli umani, li ferma, li capovolge, li nega e li compie.
Ma c’è una potenza che tutta attraversa la vita, anche per Shakespeare, la potenza «capace di annientare se stessa e di condurre la volontà ad atti disperati, come nessun’altra passione umana» (II, I); la potenza che è la stessa in Medea come in Proust, al di là dell’abisso dei secoli; la potenza dell’amore e del desiderio dell’Altro che appare come promessa di luce e però come ombra svanisce nei sentieri del divenire.
Il concerto di Gifuni comincia premettendo qualcosa che nel testo shakespeariano non c’è ma che ben contribuisce a spiegarlo. Comincia con le parole di Eraclito sul tempo come αἰὼν παῖς ἐστι παίζων πεσσεύων· παιδὸς ἡ βασιληίη (detto 52), sull’umano come un giocattolo in mano al tempo/bambino, il quale si trastulla sulla scacchiera del mondo, dandogli ordine, senso, divenire e disfatta.
L’umano, «questa quintessenza di polvere», non piace al Principe di Danimarca (II, II). Se a ciascuno si desse secondo il suo valore, le frustate sarebbero secondo Amleto la ricompensa da ognuno meritata. Soltanto chi è in grado di porsi l’enigma e di non cercare illusioni, soltanto questi -forse- merita qualche luce. Il «dolce principe» (V, II), sin dall’inizio morente, ci ricorda ciò che siamo, ci canta la musica disumana del mondo.

La gioia

Johann Sebastian Bach
Grosser Herr, o starker König
Dall’Oratorio di Natale (Weihnachtsoratorium BWV 248)
per soli, coro e orchestra
Diego Fasolis & I Barocchisti

Versione in html

Versione video (con altri esecutori)

Tripudio, ritmo, dinamismo, potenza delle voci strumentali e delle voci umane. La musica insomma. La musica di Johann Sebastian Bach, la musica dunque in se stessa, la musica in quanto tale, la musica totale, la musica come «exemple unique de ce qu’aurait pu être -s’il n’y avait pas eu l’invention du langage, la formation des mots, l’analyse des idées – la communication des âmes» (Proust, La Prisonnière, in À la recherche du temps perdu, Gallimard 1999, p. 1797), unico esempio di ciò che sarebbe potuta essere la comunicazione tra le anime se non ci fossero stati linguaggio, parole, analisi delle idee.
La musica è immediatezza ed è insieme complessità, la musica è fluire ed è esultanza, la musica è suono ed è visione. La musica è relazione matematica. La musica è gioia, come si vede anche da un concerto dell’ensemble L’Arpeggiata di Christina Pluhar, capace di trasformare la Pizzica di San Vito in un  irresistibile rap [minuti 53.40 -57.00 del video].
Una gioia straripante. La gioia che auguro in questo nuovo anno ai miei amici.

 

Miraggio riflesso ombra

Cold War
di Pawel Pawlikowski
Polonia, 2018
Con Joanna Kulig  (Zula), Tomasz Kot (Wiktor)
Trailer del film

Non sono le parole a narrare questa storia ma è la cinepresa. Tale è il cinema quando è cinema. Lo sguardo gira intorno alla giovane cantante Zula e a poco a poco appare Wiktor, i suoi occhi che la scrutano, il suo sorriso che la desidera. E poi gli altri, a poco a poco e sullo sfondo. Così deve essere quando il legame è forte più della morte e la morte lo attraversa nelle figure del distacco, dell’assenza, del mistico, del canto.
Dentro la costrizione è naturale che stia questo legame. La costrizione del formato quadrato dello schermo, la costrizione della dittatura sovietica in Polonia, la costrizione del timore di liberarsi, la costrizione del Verlust, della perdita che la vita intera è, per tutti. Ma Wiktor non rinuncia. Non rinuncia alla «donna della sua vita». E anche lei lo cerca. Attraversando confini nazioni treni polizie orchestre teatri. Sino a tornare a guardare entrambi un affresco che raffigura gli occhi di una dea, a stare davanti a un altare con una candela sola, a vivere e a morire sotto una cupola aperta verso il cielo dell’αἰών.
Come un pilastro crollato, la colonna di una chiesa inclinata, l’acciaio ferito. Così è l’abbandono. Perché niente dura nei frammenti nomadi del tempo. Come una catastrofe che generi uno spazio vuoto che attende di riempirsi ancora, di nuovo, nell’ennesimo tentativo di dare torto a Marcel Proust e alla verità per la quale essere amati è un’illusione e l’oggetto amoroso è miraggio riflesso ombra. Luce che si plasma e che ritorna dopo che la torcia della passione ne ha modellato i contorni. Ma dentro quella forma, nulla. Nulla al di fuori dei pensieri che il sentimento crea. Che crea questo bisogno tutto umano di essere amati. Una maledizione, come sanno Lucrezio: «Sic in amore Venus simulacris ludit amantis» (‘così in amore Venere con simulacri illude gli amanti’, De rerum natura, Liber IV, 1101) e, appunto, Proust: «Aimer est un mauvais sort comme qu’il y a dans les contes contre quoi on ne peut rien jusqu’à ce que l’enchantement ait cessé» (nella splendida traduzione di Giorgio Caproni: ‘Amare è una malasorte come nelle fiabe, contro cui nulla si può finché l’incantesimo non è finito’ [Il tempo ritrovato, Einaudi 1978, p. 19]).
È un dipinto ogni inquadratura di questo film. Dall’iniziale melodia dei contadini alla campagna vuota della fine. Un’eleganza semplice e raffinata, un’eleganza immediata nel dire il canto dell’abbandono che sono i legami umani, i loro sentimenti, quando hanno il torto di diventare profondi e dunque dolorosi, di farsi solitudine che tasta il letto accanto a sé senza trovare altro che silenzio.
Il film si chiude sulle Variazioni Goldberg di Bach eseguite da Glenn Gould, una musica inevitabile e struggente come struggente e inevitabile è l’abbandono. «Vieni dall’altra parte, è più bello». 

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