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Animalità / Luce

Corpo e anima
(A teströl és a lélekröl)
di Ildikò Enyedi
Ungheria, 2017
Con: Alexandra Borbély (Mária), Morcsányi Géza (Endre), Ervin Nagy (Sanyi)
Orso d’Oro al Festival di Berlino 2017
Trailer del film

L’animalità è la calunnia che l’umano esprime in forme molteplici. L’animalità è la paura di vedere ciò che siamo e sempre rimarremo, al di là delle distopie transumaniste, fondate sul volontarismo della psiche e sulle tecnologie al servizio dell’individualismo liberista. L’animalità è la potenza della materia organica che ci costituisce. L’animalità è il desiderio, il timore, l’amore.
È la dolorosa e invincibile ricchezza dell’animalità umana che questo film racconta nella forma di una singolare storia d’amore ambientata in un macello di Budapest. Il maturo direttore Endre e la giovane dottoressa Mária – incaricata del controllo di qualità sulle carni – sono entrambi solitari e riservati, pur se in modi diversi. Mária è silenziosa, precisissima sul lavoro e – si scopre a poco a poco – dotata di una memoria formidabile che declina in modi infantili. La distanza di lei da ogni altro collega di lavoro sembra inoltrepassabile sino a quando Endre e Mária scoprono di fare tutte le notti lo stesso sogno, di essere due cervi che in un paesaggio innevato e solitario si incontrano, si annusano, si toccano, insieme corrono. Una scoperta che cambierà a fondo le loro vite.
Gli animali nella solitudine arcaica del loro mondo fatto di betulle, di laghi, di foglie, i cervi. Gli animali nella solitudine tecnologica di un mattatoio che in pochi minuti trasforma delle pulsanti vite in carne per i supermercati, le mucche. Cervi, mucche, umani sono la stessa animalità libera e oppressa, sovrana e schiava, sacra e squartata. Un’animalità fatta di desiderio, clamori, silenzio, morire.
Corpo e anima racconta e descrive tutto questo attraverso la poesia dei particolari, dei riflessi, degli occhi delle mucche e dei cervi, delle scarpe di Mária, degli sguardi umani, delle lampadine al soffitto, del cibo continuamente assunto e toccato. Lo racconta attraverso un eros intenso e delicato. Dal quale emerge la luce della materia, la luce che la materia è: E=mc2. L’animalità è parte di questa energia, materia, luce.

Figlia / Lacrima

Antonio Vivaldi
Cum dederit – RV 608 IV
Largo – Andante (sol minore)
Voce: Andreas Scholl

[audio:https://www.biuso.eu/wp-content/uploads/2020/06/Vivaldi_Scholl_-RV-608_-4.-_Cum-Dederit.mp3]

Vivaldi-Scholl, RV 608. Andreas Scholl (file audio)

Link al brano su Spotify

Sembra gorgogliare dalle lacrime la voce di Andreas Scholl che canta, sussurra, accompagna  uno dei brani più struggenti di Antonio Vivaldi. Il testo è tratto dal salmo 126 e dice:
«Cum dederit dilectis suis somnum
Ecce haereditas Domini
Filii merces
Fructus ventris»
Si può essere in molti modi frutto del grembo, si può essere in molti modi figli. E padri. Come testimonia questo intenso brano di Dietrich Biverwenden rivolto alla figlia avuta in età matura, in un momento evidentemente particolare delle loro vite. Nella traduzione ho cercato di mantenere alcune delle maiuscole del tedesco. La foto è di Franco Carlisi, splendida come sempre.
«Guardo, riguardo, guardo. Vorrei catturare il segreto del tuo pianto, vorrei diventare le tue lacrime, vorrei scorrere insieme a esse sul tuo viso. Vorrei essere la tua Sostanza stessa, vorrei fondermi con te. Vorrei conoscere tutti i tuoi dolori da quando la tua Luce è apparsa in questo mondo. Vorrei prendere queste sofferenze sulla mia carne e avere la forza di trasformarle in gaudio, in redenzione, in amicizia del mondo con se stesso. Sei un meraviglioso enigma di profondità, di fatica e di gloria. Sei la stella che il volgere della materia nell’immensità del tempo ha plasmato e ha donato all’Ora e al Qui. Sei una dolcezza senza spigoli. Sei un sorriso che ubriaca persino i campi distesi delle viti. Sei parola che comprende e che riluce. Sei ciò che attendevo da millenni. Sei la mia Lacrima più antica e il suo riscatto nella Gioia».

Dov’è il tuo tesoro

Johann Sebastian Bach
Organ Sonata No. 4, BWV 528: 2. Andante [Adagio] (Trascrizione di August Stradal)
Pianoforte: Víkingur Ólafsson

[audio:https://www.biuso.eu/wp-content/uploads/2020/05/Bach_BWV-528_Olafsson.mp3]

J.S. Bach, BWV 528. Víkingur Ólafsson (file audio)

Ma ha soltanto un nome, una parola sola che risuona negli anfratti del mondo, nelle pieghe del tempo, negli angoli del senso, nella delusione dei fessi, nella stoltezza degli ingenui. Questa parola è sacrilegio. Sacra è infatti quella perpetua adorazione di un ricordo che si chiama amore. Il ricordo dentro cui precipiti e precipiti, cadi e cadi sino a svegliarti alla coscienza o nel botto dell’angoscia solitaria che ti squarta o nelle piume profumate di un abbraccio. Da quella pazzia di dolore ci ravvediamo come ex fanatici che hanno visto cadere nel fango il loro idolo. Da quell’abbraccio ci divincoliamo come la figura tremolante del lumino finto al cimitero. E ritorniamo alla tranquilla sicurezza di chi continua a dipendere da tutto – dall’aria e dal pane, dal fisco e dal governo, dalla schiena e dai sogni – ma non dipende più da un sorriso. Non lo implora, più non supplica l’elemosina di un sì.
«Perché, dov’é il tuo tesoro, là sarà anche il tuo cuore» (Mt, 6,21; trad. CEI)

Luz y Norte

Luz y Norte (Luce e Nord) è il titolo di una raccolta di musiche rinascimentali e barocche, che comprende brani di Lucas Ruiz de Ribayaz y Fonseca, eseguite dal The Harp Consort diretto da Andrew Lawrence-King.
Musica e testi vanno al di là dei confini di luogo, di epoca, di stile e puntano dritto dritto all’emozione di un legame con le forze profonde della terra e della bellezza. E infatti uno dei brani più intensi è So ell encina, che parla di un incontro d’amore (onirico?) all’ombra di una grande quercia. La musica, assai bella, è stata composta in stile antico da John Paul Jones (1989), bassista e tastierista dei Led Zeppelin…
Qui sotto trovate il testo di autore anonimo in antico spagnolo e una traduzione in inglese contemporaneo. La voce è del tenore Rodrigo Del Pozo.

[audio:https://www.biuso.eu/wp-content/uploads/2020/04/So_Ell_Encina.mp3]

So ell encina (file audio)

So ell encina yo me iba
mi madre a la romería
por ir más devota
fui sin compañía
so ell encina.

Por ir más devota
fui sin compañía
tomé otro camino
dejé el que tenía
so ell encina.

Halleme perdida
en una montaña
hecheme a dormir
al pié del encina
so ell encina.

A la media noche
recordé, mezquina;
halléme en los brazos
fel que más quería.

Pesóme, cuitada
de que amanecía
porque yo gozaba
del que más quería
muy biendita sía
la tal romería.

So ell encina, encina,
So ell encina, encina.

———————

Beneath the holly oak, the holly oak,
beneath the holly oak.

I was going around
on pilgrimage, Mother,
and to show my full devotion,
I went alone,
beneath the holly oak.

To show my full devotion,
I went alone.
I took another road,
and left the one I was on,
beneath the holly oak.

I found I had lost my way
on the mountainside,
so I lay down to sleep
at the foot of a holly oak,
beneath the holly oak.

In the middle of the night,
I woke up, all miserable,
and found myself in the arms
of the one I love the best,
beneath the holly oak.

Poor me! I was so sorry
when morning came,
because I’d been enjoying
the one I love the best,
beneath the holly oak.

Oh blessed be
that pilgrimage
beneath the holly oak.

Дылда

Giraffa
(ДЫЛДА; titolo italiano La ragazza d’autunno)
di Kantemir Balagov
Con: Viktoria Miroshnichenko (Iya Sergueeva), Vasilisa Perelygina (Masha), Andrey Bykov (Nikolay Ivanovich), Igor Shirokov (Sasha), Konstantin Balakirev (Stepan)
Fotografia: Kseniya Sereda
Russia, 2019
Trailer del film

Il titolo italiano è tanto banale quanto significativo della difficoltà che i distributori del film hanno incontrato nel decifrare un’opera estrema. Che è tale non per quello che racconta ma per come lo fa e per ciò che emerge dalla profondità della storia umana.
La vicenda è infatti ambientata a Leningrado nell’inverno successivo alla conclusione della Seconda guerra mondiale. Le ferite della città e quelle inferte alle vite dei suoi abitanti appaiono terribili. Tutti hanno subìto dei lutti, delle menomazioni, la miseria.
Iya prestava la sua opera al fronte ma è stata congedata perché un trauma di tanto in tanto la blocca, la incanta, non le fa percepire più nulla intorno a sé. Ora svolge mansioni di infermiera in un ospedale. La ragazza ha portato a Leningrado Pashka, figlio di Masha, una sua amica anch’essa al fronte. Ma quando a guerra finita Masha torna in città, il bambino non c’è più. La madre ne vuole a tutti i costi un altro. Da tale volontà emergono l’ambiguità delle relazioni, la costanza dell’ingiustizia, la tristezza profonda. E su tutto aleggia come un senso di rassegnazione rispetto al dolore.
Una rassegnazione atavica, certo, profondamente russa. Come russa è l’imprevedibilità delle azioni, delle volontà, delle passioni. «Ma una piena, assoluta tristezza è altrettanto impossibile come una piena, assoluta gioia»1.
«Sai tu che una donna è capace di tormentare un uomo con le sue crudeltà e le sue derisioni senza provare il più piccolo rimorso, perché ogni volta che lo guarda pensa tra sé: ‘Ecco, ora lo torturo a morte, ma in cambio, poi, lo ricompenserò col mio amore…’»; «Ma l’anima altrui è tenebra, e anche l’anima russa è tenebra, per molti è tenebra»2 .
Una storia così antica –la guerra, due madri, un futuro che sembra chiuso– viene narrata in modo ellittico, spostando di continuo sia la narrazione sia lo sguardo là dove lo spettatore non si aspetta che vada. I colori sono accesi, quasi fatti d’oro e di trionfo, persino il bianco della neve si trasfigura nella pienezza dell’iride. Ma sono colori che cadono sul divenire dolente dei corpi, che sembrano avere quasi nostalgia del morire e che quando sorridono mostrano lo struggente e insieme inquietante desiderio di ciò che non è stato e non sarà.
I corpi, infatti, sono qui tutto. A partire da quello altissimo di Iya, che per questo viene chiamata Дылда, ‘giraffa’ nel senso di spilungona. Ma non è l’altezza la prima caratteristica di questo corpo bensì la distanza, la lontananza, la stranezza, il gelo. Corpi che mostrano la propria desolazione quando fanno l’amore senza trarre alcun piacere. Corpi coperti da abiti troppo grandi, corpi abbaglianti di amarezza quando sono nudi.
Il film si chiude sull’abbraccio tra due di questi corpi. Uno stringersi sincero ma il cui sorriso è consapevole che quanto quei corpi si stanno dicendo non è auspicio ma è una condivisa illusione.

Note
1. L.N. Tolstòj, Guerra e pace, trad. di E. Carafa d’Andria, Einaudi 1990, p. 1259.
2 F.M. Dostoevskij, L’idiota, trad. di A. Polledro, Einaudi 1981, pp. 361 e 227.

[Photo by Daria Gorbacheva on Unsplash]

Estasi

Recensione a:
Estasi: istruzioni per l’uso ovvero l’arte di perdere il controllo
di Jules Evans
(Carbonio Editore, 2018; pagine 320)
in Diorama Letterario – numero 351 – settembre/ottobre 2019
pagine 33-34

C’è stata, per millenni, una forma capace di coniugare la più lucida razionalità con il più gorgogliante dei pericoli. Questa forma è stata la Grecia pagana, dentro la quale «il sesso era una delle vie principali attraverso le quali il mondo degli spiriti si intersecava con le vicende umane», la corporeità era «una forza demoniaca, potente, giocosa, distruttiva, associata alla dea Afrodite e a suo figlio Eros, che ci priva della ragione», i Misteri erano l’ordine dell’imprevisto ripetuto all’infinito ma ogni volta rinnovato.
Il cristianesimo è stato una forza desacralizzante –«Chi ha visto me ha visto il Padre» (Gv., 14, 9)– che ha impoverito il cosmo della sua complessità, della sua potenza, del suo enigma. Anche da qui nasce il bisogno di un recupero della dimensione estatica della vita. Un bisogno che questo libro documenta e mostra nella varietà, curiosità, banalità e complessità delle sue espressioni contemporanee.

Specchi

Piccolo Teatro Strehler – Milano
La commedia della vanità
di Elias Canetti
Regia di Claudio Longhi
Traduzione: Bianca Zagari
Scene: Guia Buzzi
Con: Fausto Russo Alesi, Donatella Allegro, Michele Dell’Utri, Simone Francia, Diana Manea, Eugenio Papalia, Aglaia Pappas, Franca Penone, Simone Tangolo, Jacopo Trebbi
Violino: Renata Lackó – Cimbalom: Sándor Radics
Produzione Emilia Romagna Teatro Fondazione, Teatro di Roma–Teatro Nazionale, Fondazione Teatro della Toscana, LAC Lugano Arte e Cultura
Sino al 26 gennaio 2020

Un regime volto al bene dei suoi cittadini intende purificarli da uno dei vizi più fastidiosi e pericolosi per la vita collettiva: la vanità. Emana dunque decreti assai severi che impongono di bruciare tutte le fotografie e distruggere tutti gli specchi. Esaltate da questa eccitante novità, le folle accorrono al luogo dove l’Io viene in questo modo distrutto, o almeno impossibilitato a vedersi e rivedersi. La difficoltà di fare i conti con la propria immagine diffonde tuttavia nel corpo sociale una vera e propria nientità del mondo, che ha come effetto disturbi psichiatrici e rigonfiature enormi dell’invidia, dell’odio e degli altri vizi, come accade quando il venir meno di uno dei sensi rende più acuti tutti gli altri. Gli spacciatori di specchi fanno affari, vendendo la possibilità di contemplarsi per qualche minuto. Sorgono infine luoghi dove il vizio viene tollerato e venduto a prezzi di mercato, come nei bordelli. Solo che adesso a essere offerti a differenti tariffe non sono i corpi altrui ma la propria immagine. Perduta l’identità, senza la quale non è possibile alcuna vera relazione, a emergere saranno dei soggetti che ripetono ossessivamente IO mentre si sottomettono tutti al grande ego di un dittatore.
Come si vede, questa commedia giovanile di Elias Canetti (1905-1994), scritta fra il 1933 e 1934, mette in guardia da alcune delle più striscianti illusioni del nostro presente.
La prima è che si possano dichiarare fuori legge i sentimenti. Nella commedia si tratta della vanità, negli anni Venti del XXI secolo si tratta dell’odio. Le dinamiche sono analoghe e non possono che risultare distruttive e autoritarie. Le leggi possono proibire infatti delle azioni, dei comportamenti, non possono toccare i sentimenti, pena la perversione dell’intera vita collettiva. La conclusione della commedia è inevitabile: proibire i sentimenti non può che avere come esito una dittatura.
La seconda illusione consiste nell’attacco all’identità. Chi si pronuncia contro l’identità non soltanto afferma una evidente sciocchezza antropologica ma è causa di grave danno nelle relazioni private, storiche, sociali, collettive. È infatti possibile entrare in relazione con la differenza soltanto a partire da una già esistente identità. Dove non c’è identità non è possibile intrattenere alcuna relazione. È questo un dispositivo sia logico –per il quale A=A e A≠B si coappartengono, l’uno senza l’altro non si dà– sia ontologico, per il quale ogni ente non è mai soltanto un ente ma è anche un evento che è parte di un processo, e quindi ogni ente è una relazione che si origina sempre da ciò che l’ente è già e ciò che l’ente non è ancora.
Si tratta di un dispositivo che agisce nell’opera fondamentale di Canetti, Massa e potere, e che nella commedia viene intuito e rappresentato mediante una struttura e un linguaggio espressionistici, che la messa in scena di Claudio Longhi rispetta nel grottesco dei movimenti, nella violenza del trucco sul corpo degli attori, nel vivace fracasso della prima parte e specialmente nell’opzione scenografica che riconduce e riduce la vicenda a quella di un circo degli anni Trenta, dentro il quale gli umani sono diventati un fenomeno da baraccone. Nelle quattro ore di spettacolo (una durata comunque eccessiva) sembra di assistere non soltanto a una commedia di Canetti ma anche a una serie di quadri di George Grosz. E tutto viene accompagnato dalle musiche dal vivo (violino e cimbalom) che danno ancor più l’impressione di stare dentro un circo. Il circo senza fine delle nostre vanità.

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