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Mente & cervello 76 – Aprile 2011

Il corpo è il luogo del potere, della memoria, delle passioni, dei significati. Ipermnesia e amnesia costituiscono forme patologiche dell’identità di un umano, che consiste nel ricordare e nel dimenticare, inseparabili. Il sonno, la cui funzione è rimasta per secoli un enigma, è necessario per selezionare e consolidare nel cervello le informazioni ricevute e le esperienze vissute durante la veglia. Nessuna parte, sezione, area dell’encefalo conserva ricordi come un cassetto conserva dei documenti. L’ippocampo, la struttura cerebrale senza la quale si perde la memoria, costituisce «non la fonte o il magazzino della memoria, ma un mediatore essenziale per la sua formazione» (A.J. Greene, p. 61), «una stazione di passaggio per la conservazione dei ricordi a lungo termine» (Suzanne Corkin, intervistata da D. Ovadia, 45).

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Un sogno d'amore, un sogno di morte

Piccolo Teatro Strehler – Milano
Rêve d’automne
(Sogno d’autunno)
di John Fosse
regia Patrice Chéreau
con Pascal Greggory, Valeria Bruni-Tedeschi, Bulle Ogier, Bernard Verley, Marie Bunel
scene Richard Peduzzi
traduzione dal norvegese in francese di Terje Sinding
dal 1 al 10 aprile 2011

Nel silenzio delle sale si aggirano leggendo i nomi sulle superfici. Superfici di che cosa? Sembra un museo questo luogo. Con muri alti color vermiglio, con dei dipinti di grandi proporzioni. Ma alle targhe e ai nomi corrisponde sulle pareti soltanto il vuoto. Siamo, infatti, in un cimitero. Arriva un uomo che si stende a terra, dorme. Una donna lo vede e sobbalza. Quell’uomo è stato il suo amante, da tanto si sono perduti. Lei lo sveglia, cominciano a parlare con la semplice banalità dei convenevoli, che a poco a poco si trasformano nel linguaggio più vero e più fremente: quello del desiderio.
Amore e morte, una delle più antiche e radicali endiadi della vita, della scrittura e del teatro, ridiventano ciò che sono, l’esistenza stessa delle entità desideranti e temporali che siamo. Lo ridiventano nella scrittura asciutta e silenziosa di John Fosse, nella regia spaziale, geometrica e disperata di Patrice Chéreau, nei corpi coperti e disvestiti dei due protagonisti, un isterico e femminile Pascal Greggory, una lussuriosa e maschile Valeria Bruni Tedeschi. La crudeltà oggettiva della scrittura diventa così una lama. Lama di luce ma lama che taglia.

[Una versione più ampia di questa recensione è apparsa sul numero 11 (maggio 2011) di Vita pensata]

Interpretazioni

Che cosa significano le parole di La Rochefoucauld e di Proust: «Si je ne t’aime pas, tu m’aime»? («Se non ti amo, tu mi ami», L’Indifférent [1896], Einaudi 1978, p. 30). Probabilmente non si tratta di una verità letterale ma vuol dir questo: “quando il tuo amore non mi interesserà più, allora cambierà la mia lettura dei tuoi gesti e in essi vedrò l’amore che prima non vedevo, perché desideravo un amore più grande”. Ancora una volta, l’amore e la vita sono un gesto ermeneutico.

Un lindo terrore

Non lasciarmi
(Never Let Me Go)
di Mark Romanek
Con: Carey Mulligan (Katy), Keira Knightley (Ruth), Andrew Garfield (Tommy),  Isobel Meikle-Small (Kathy da bambina), Ella Purnell (Ruth da bambina), Charlie Rowe (Tommy da bambino), Charlotte Rampling (Miss Emily).
Usa – Gran Bretagna, 2010
Trailer del film

Hailsham appare come un tipico college britannico degli anni Settanta. Disciplina, amicizie, dispetti, attività sportive si intrecciano. Ma dietro questa apparenza sta una realtà atroce. Le vite dei ragazzi e delle ragazze che abitano questo luogo sono a termine, per una ragione che con gelida naturalezza si scoprirà a poco a poco. Nonostante tutto, l’amore sorge nelle esistenze di Katy, Tommy e Ruth. Ma è come se una biologica rassegnazione invadesse ogni istante. In nome del progresso terapeutico il piano inclinato della morte non può essere fermato.

Tratto dal romanzo di Kazuo Ishiguro, Never Let Me Go coniuga un distacco quasi entomologico e una struggente e coinvolta tristezza. Le immagini si soffermano molto spesso sui particolari che costituiscono il mondo -fili d’erba, pezzi sparsi di giocattoli, fogli di carta- in una nostalgia di normalità e nella metafora della frammentazione. Il lindo terrore che romanzo e film raccontano è più vicino di quanto lo spettatore possa immaginare. Si visiti questo sito e si legga una storia accaduta, fra le tante. Per sapere, per decidere, per non farsi macellare.

La Rochefoucauld, o della saggezza

Massime.
Riflessioni varie e autoritratto
(1665)
(Reflexions ou sentences et maximes morales)
di François de La Rochefoucauld
Rizzoli 1978
Pagine 464

I moralisti francesi sono quanto di più disincantato, e dunque probabilmente quanto di più saggio, abbia prodotto la cultura europea dell’Ancien Régime. La Rochefoucauld condivide con Montaigne la limpida padronanza dello stile, la chiarezza di concetti senza veli, la profondità dello sguardo gettato sull’umano. In più, come giustamente osserva Macchia, possiede la precisione e la sobrietà geometrica con cui il suo secolo guardava il mondo. E dunque gli aforismi di La Rochefoucauld si articolano in una molteplicità di direzioni e risultati a partire comunque da un nucleo ben preciso: l’amour-propre.
È l’egoismo la vera spiegazione della vita. Quella idolatria del sé che rende gli uomini tiranni di altri uomini se le circostanze glielo consentono; esso è infaticabile nel porsi sempre al centro e nel posarsi sugli altri solo «comme les abeilles sur les fleurs, pour en tirer ce qui lui est propre» (“come le api sui fiori, per trarne ciò che loro serve”, p. 258) [le traduzioni sono mie]). È l’egoismo che rende la ragione umana più debole della volontà, che ci subordina alla forza delle passioni, la cui durata non dipende da noi più di quanto ne dipenda la vita e che zampillano dal cuore dell’uomo in modo che solo una nuova passione può scacciarne una antica. È l’egoismo che fa della più grande fra le passioni -l’amore- una forma di guerra mortale fra i sessi, più simile all’odio che all’amicizia, secondo un’intuizione che Nietzsche e Strindberg faranno propria: «Il n’y a point de passion où l’amour de soi-meme regne si puissement que dans l’amour; et on est toujours plus disposé à sacrifier le repos de ce qu’on aime qu’à perdre le sien» (“non c’è passione dove l’amore di sé domina così potentemente come nell’amore; e si è sempre più disposti a sacrificare la tranquillità di chi si ama che a perdere la propria”, af. 262, p.172). Non soltanto sull’amore i debiti di Nietzsche verso La Rochefoucauld sono evidenti; la distinzione fra cattiveria e malvagità sulla quale si impernia la Genealogia della morale ha qui una sua formulazione già radicale: «Nul ne mérite d’etre loué de bonté, s’il n’a pas la force d’etre méchant: toute autre bonté n’est le plus souvent qu’une paresse ou une impuissance de la volonté» (“Nessuno merita di venir lodato come buono, se non possiede la forza d’esser cattivo: ogni altra forma di bontà non è il più delle volte che pigrizia o impotenza della volontà” af. 237, p.164). Anche della compassione La Rochefoucauld sostiene -al pari di Nietzsche- che bisogna guardarsi dal provarla. È sempre la forza dell’egoismo che rende agli occhi di La Rochefoucauld poco sensata la pretesa stoica di non dar peso alla morte, vale a dire a ciò che necessariamente distrugge il sé. E tuttavia nell’Autoritratto leggiamo: «Je ne crains guère de choses, et ne crains aucunement la mort» (“Temo poche cose, e non temo in alcun modo la morte”, p. 442). Tornando al tema dell’amore, s’affaccia alla memoria del lettore delle Massime il nome di Proust. E in particolare il racconto L’Indifférent con la sua folgorante intuizione del «Si je ne t’aime pas, tu m’aime» (Einaudi 1978, p. 30). Principio che sta naturalmente alla base della Recherche e che La Rochefoucauld così formula: «N’aimer guère en amour est un moyen assuré pour etre aimé» (“In amore non amare troppo è un mezzo certo per essere amati”, p. 282). Formulazione, come si vede, chiarissima a cui se ne potrebbero aggiungere altre sulla facilità con cui ci si illude d’essere amati quando si ama (p. 312) o sulla gelosia il cui tormento sta tutto nella «incertitude éternelle» (“eterna incertezza”, p. 346) o infine, e sopratutto, sulla relatività prospettivistica che rende così precario questo potente sentimento: «Quelles personnes auraient commencé de s’aimer, si elles s’étaient vues d’abord comme on se voit dans la suite des années? Mais quelles personnes aussi se pourraient séparer, si elles se revoyaient comme on s’est vu la première fois?» (“Quali persone avrebbero cominciato ad amarsi se si fossero viste all’inizio come ci si vede nel passare degli anni? Ma quali persone allo stesso modo si potrebbero separare, se si rivedessero come ci si vide la prima volta?”, p. 390). La Rochefoucauld si muove, in questa selva di temi che è l’esistere dell’uomo, fra sarcasmo, scetticismo e severa moralità. Il sarcasmo che lo induce a notare -in uno splendido, folgorante aforisma- come «nous avons tous assez de force pour supporter les maux d’autrui» (“tutti abbiamo forza sufficiente per sopportare i mali altrui”, af.19, p. 88); lo scetticismo di chi sa che il sapere e la vita sono fatti di una miriade di dettagli, la mancata- perché impossibile- consapevolezza dei quali rende la nostra conoscenza «toujours superficielle et imparfaite» (“sempre superficale e imperfetta”, af.106, p. 118), è questa la vera malinconia -sentimento che l’autore ammette di nutrire- dell’uomo di genio; la moralità di chi ritiene che in ogni caso, al di là dei risultati, del successo o del fallimento, ciò che conta e che discrimina gli uomini e le azioni sia «le dessein», l’intenzione che sta alla loro base. È per questo, per la dimensione interiore del “progetto” di un uomo, che anche La Rochefoucauld invita a ritornare in se stessi, l’unico luogo di una pace possibile, pur se precaria.

Mente & cervello 74 – Febbraio 2011

La plasticità del cervello è enorme, esso possiede «una capacità apparentemente infinita di cambiare,  adattandosi millisecondo per millisecondo» (C.H. Kinsley e E.A. Meyer, p. 102). Fra le tante prove di tale potenza ci sono le illusioni ottiche, già illustrate nei due numeri precedenti di Mente & cervello e che qui arrivano allo spettacolare fuoco d’artificio illustrato dai titoli di tre articoli di Susana Martinez-Conde e Stephen L. Macknik: Falso movimento, Scolpire l’illusione, Cibo per la mente. Il triangolo impossibile di Penrose, le prospettive cangianti di Escher, le ombre di Shigeo Fukuda, il cubo tribarra di Guido Moretti provano come il “semplice fatto” della visione sia una realtà di inimmaginabile complessità nella quale convergono fattori cerebrali, processi evolutivi, condizionamenti culturali, attese, desideri, abitudini. Una vera e affascinante sintesi dell’identità psicosomatica della persona umana, già saputa da artisti come Giuseppe Arcimboldo -che con frutta, verdura, ortaggi, libri costruisce figure umane- e dalla lunga schiera dei suoi continuatori.

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Vallanzasca. E basta

Vallanzasca. Gli angeli del male
di Michele Placido
Italia, 2010
Con: Kim Rossi Stuart (Renato Vallanzasca), Filippo Timi (Enzo), Francesco Scianna (Francis Turatello), Valeria Solarino (Consuelo), Gaetano Bruno (Fausto), Moritz Bleibtreu (Sergio), Paz Vega (Antonella D’Agostino).
Trailer del film

Capiamo che siamo negli anni Settanta solo per le orribili cravatte e per l’abbigliamento che con quelle cravatte era coerente. Né politica né mafia, né il loro intreccio, né lotte sociali. Niente. E persino i compagni, la banda, le donne, gli altri malavitosi, sono descritti in modo schematico. Le vittime spesso non hanno neppure un nome. Tutto è incentrato sul protagonista, sulla sua infanzia, i genitori sempre dalla sua parte, le sue battute, gli sguardi, la follia criminale, la feroce determinazione a diventare il migliore nel suo campo, la consapevolezza di aver voluto essere ciò che è stato, senza sociologismi o psicologismi (auto)giustificatori. In un’intervista, infatti, Vallanzasca afferma di «venire da una famiglia agiata e avrei potuto comportarmi diversamente. Ho voluto essere un ladro, perché sono nato così».

In questo film non c’è apologia ma non c’è neppure alcun distacco dal suo protagonista. C’è molta violenza, anche efferata. Una sorta di incrocio tra il gangster movie e il Grand Guignol. Tutto è affidato alla frenesia del montaggio e soprattutto all’eccezionale interpretazione con la quale Rossi Stuart diventa Vallanzasca. Ma il fascino è quello del cinema e non quello di un uomo che ha buttato la sua vita tra morti e galere.

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