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Furia e misericordia

Decision to Leave
(Haeojil Gyeolsim)
di Park Chan-wook
Corea del Sud, 2022
Con Hae-il Park (Jang Hae-joon), Wei Tang (Song Seo-rae)
Trailer del film

Un giovane ispettore della polizia di Seoul – «il più giovane ispettore della Corea» – non è convinto che un uomo precipitato da una montagna si sia ucciso, sospetta della giovane moglie, la interroga, la pedina, la desidera. Song Seo-rae ha infatti un’innocenza conturbante e una bellezza discreta e implacabile, assai diversa dalla gelida lucentezza della moglie dell’ispettore, ipersalutista e iperigienista. Nonostante i sospetti, Hae-joon deve ammettere che Seo-rae è innocente; il caso viene archiviato e può cominciare a frequentarla non più da poliziotto. Ma le vie del fato sono molteplici e il passato della donna è enigmatico. La vicenda si concluderà su una spiaggia bellissima – come tutto ciò che in Corea non è costruito dagli umani -, con protagonista l’alta marea dell’oceano e con la sua potenza di tutto ricoprire.
Park Chan-wook trasforma la propria poetica barocca ed estrema, virando verso una classica storia d’amore, che conserva però la forza, la complessità e la violenza del suo cinema.
La ferocia di Sympathy for Mr. Vengeance, Oldboy, Sympathy for Lady Vengeance; l’efferatezza manieristica e interiore di Stoker; la narrazione fine a se stessa di Mademoiselle  mutano qui in una vicenda romantica di amore e di morte, nella quale lo stile è sempre il fondamento dello sguardo e degli eventi.
Quando, ad esempio, il protagonista pensa si trova immerso con tutto se stesso nei luoghi che pensa, che ricorda, che osserva da lontano, come se la mente avesse la potenza di incarnarsi dentro gli spazi che immagina.
Il sangue scorre sempre abbondante ma è come se stillasse tutto dallo sguardo inquieto della donna, dalla sua storia di furia e di misericordia, dal suo amore totale e sensibilissimo per quel giovane uomo.
Dal film si esce con la sensazione che i sentimenti umani siano davvero un distillato di verità e di inemendabile menzogna.

Barbara Furtuna

Barbara Furtuna
I vechji amanti
Da Sì vita Sì (2013)

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Barbara Furtuna è un gruppo musicale della Corsica che esegue canti con voci quasi sempre a cappella, vale a dire senza strumenti, facendo della voce uno strumento espressivo completo. Particolarmente suggestiva mi sembra la rivisitazione in lingua còrsa di una celebre canzone francese: La chanson des vieux amants, con il titolo I vechji amanti.

A questa canzone accosto il brano di un mio racconto:
«Non era mai esistita. Se l’era costruita pezzo a pezzo e poi tutta in una volta. Si era costruito lui quel significato unico e inimitabile delle parole di lei scritte e dette. Si era costruito lui quel sorriso e la sua dolcezza promettitrice di mondi di felicità. Si era costruito lui quella passione fremente ed esclusiva. Si era costruito lui quel progetto comune di vita, come dicono gli attempati amanti dimentichi del furore».

Shakespeare

Piccolo Teatro Grassi – Milano
Shakespearology
in scena Woody Neri
scrittura Daniele Villa
regia Sotterraneo

La Compagnia teatrale Sotterraneo è riuscita a invitare sulla scena William Shakespeare, a parlare con lui, a sentirlo suonare, danzare, recitare. E raccontare episodi notissimi e altri sconosciuti della sua biografia. L’impresario teatrale, l’autore, l’attore, il regista inglese ha intrattenuto il pubblico con una varietà di registri, di toni, di argomenti, di poesia e di rudezza capaci di avvolgere. E ha soprattutto ben chiarito che nella sua esistenza e nella sua opera non c’è nulla, proprio nulla, della distorsione romantica del «genio», del «sognatore», dell’inventore di mondi. O meglio, Shakespeare ha inventato mondi ma tenendoli ben dentro l’immanenza delle passioni e della miseria umana, sempre volto a conciliare i suoi personali slanci con il necessario successo di pubblico, pena il fallimento della sua Compagnia e dei suoi progetti. Come Kubrick nel Novecento, questo artista è riuscito a essere raffinato e profondo nella concezione e realizzazione delle sue opere, universale e molteplice nella loro fruizione da parte di persone, gruppi, epoche assai diverse. Un dono raro, certamente.
La presenza stessa di Shakespeare sulla scena conferma che ci sono degli umani che non moriranno sino a quando la loro parola risuonerà nello spaziotempo; umani molto molto più vivi di innumerevoli contemporanei. Infatti «nicht Alle geboren werden, welche doch sterben; ‘non tutti coloro che muoiono nascono anche’» (Nietzsche, Umano, troppo umano II, parte seconda “Il viandante e la sua ombra”, af. 58) e la vita è qualcosa di assai più complesso di un corpo che respira nel presente.
La vita è il radicarsi nella filogenesi biologica e culturale, la vita è memoria di ciò che è stato e che merita di essere ricordato, la vita è la comprensione più lucida, disincantata e commossa del limite che sgorga in ogni istante. «Life’s but a walking shadow, a poor player / That struts and frets his hour upon the stage / And then is heard no more. It is a tale / Told by an idiot, full of sound and fury, / Signifying nothing», «La vita è un’ombra che cammina, un povero attore che si agita e pavoneggia la sua ora sul palco e poi non se ne sa più niente. È un racconto narrato da un idiota, pieno di strepiti e furore, significante niente» (Macbeth, atto V, scena 5). 

[Foto di scena di Francesco Niccolai]

Karamazov, il tempo, la Russia

Piccolo Teatro Grassi – Milano
Le memorie di Ivan Karamazov
dal romanzo I fratelli Karamazov di Fëdor Michajlovič Dostoevskij
drammaturgia Umberto Orsini e Luca Micheletti
con Umberto Orsini
regia di Luca Micheletti
produzione Compagnia Umberto Orsini
Sino al 16 ottobre 2022

«Prigioniero di quell’aula, di un finale mai scritto, di una sentenza sbagliata, il nostro Ivan continua ad aggirarsi tra i frammenti della sua esistenza, osservati come prove materiali di fatti e memorie che riemergono a strappi, negli spazi di lucidità che gli concedono le febbri cerebrali, nel circolare affastellarsi di teorie e ricordi» (Programma di sala, p. 9).
Così il regista sintetizza il senso di questa presenza sulla scena di Ivan Karamazov e del suo alter ego Umberto Orsini. Terza presenza, dopo lo sceneggiato Rai del 1969 e dopo la Leggenda del grande inquisitore di quasi dieci anni fa al Teatro Elfo-Puccini di Milano, una leggenda che mi sembrò troppo discontinua, claustrofobica, priva del respiro epico del romanzo e del suo protagonista (qui la mia recensione).
Ora invece Orsini occupa da solo la scena, lo spazio, il tempo. In questo modo fa sentire la propria consustanzialità con un personaggio dall’apparenza fredda e che invece possiede tutta l’energia, la logica e la follia della grande cultura russa, così come splende ad esempio in Tolstòj.
L’attore svela che già all’epoca di uno sceneggiato tra i più riusciti della Rai dovette difendere Ivan «da una sceneggiatura che lo penalizzava, battendomi per dare lo spazio adeguato all’importanza del suo “Grande Inquisitore”, inizialmente dato per troppo cerebrale e dunque probabilmente indigesto al grande pubblico»  (Programma di sala, p. 6).
Le poche pagine che Fëdor Dostoevskij dedicò al febbrile e lucido racconto del grande inquisitore sono diventate un emblema della contemporaneità, dell’enigma del sacro, della propensione dell’umano alla schiavitù.
Ricordo ancora una volta le parole di pietra con le quali l’inquisitore condanna il ritorno di Cristo tra gli umani: «Perché dunque sei venuto a darci impaccio? […] Ma domani stesso, io ti condannerò e ti brucerò sul rogo come il peggiore degli eretici. […] Tu ci hai sanzionato colla tua parola, Tu ci hai concesso il diritto di legare e di sciogliere, e, certamente, non puoi neppur pensare di venire a toglierci questo diritto ora. Perché dunque sei venuto a darci impaccio? […] Ci sono tre forze, soltanto tre forze sulla terra, capaci di vincere e di catturare per sempre la coscienze di questi impotenti ribelli, per la loro stessa felicità: e queste forze sono il miracolo, il mistero e l’autorità. Tu hai rifiutato la prima e la seconda e la terza. […] Tu hai giudicato troppo altamente degli uomini, giacché, in fin dei conti, costoro son degli schiavi, seppure con la costituzione del ribelle» (I fratelli Karamazov, trad. di  Agostino Villa, Einaudi 1981, vol. I, pp. 334-341).
Dopo questo vertice di antropologia sacra e dopo la sentenza che condanna il fratello Dmitri per l’assassinio del padre, Dostoevskij non parla più di Ivan. Da qui parte invece Orsini, riprendendo il non finito, ritrovandolo «tra le mani oggi, come “in-finito” e dunque meravigliosamente rappresentabile perché immortale e dunque classico» (Programma di sala, p. 7).
Classico è infatti l’antiumanesimo greco che fa dire a Ivan: «Sono un uomo cattivo, come tutti gli uomini», parole con le quali queste Memorie hanno inizio. Costante è la domanda sul male del mondo. Perenne è la lotta con le illusioni etiche, religiose, politiche, oltre le quali Dostoevskij sempre si pone. Classica è la domanda sul tempo, interrogativo sul quale lo spettacolo si chiude. Ivan accenna al «tempo nemico», a questa concezione ingenua e distorta che ogni volta dimentica che il tempo siamo noi, il nostro transitare nell’essere che precede la nostra piccolezza e per sempre la segue. Nichilismo è esattamente questo: l’incomprensione del tempo benedetto.

[La foto di scena è di Fabrizio Sansoni]

Rigoglio

Garoto
di Júlio Bressane
Brasile, 2015
Con: Marjorie Estiano (la ragazza), Josie Antello (il ragazzo), Gabriel Leone (Ele)
Trailer del film

Dentro la materia, dentro i cieli, le acque, gli alberi enormi, dentro gigantesche rocce sparse in savane e deserti. Il lussureggiare del mondo, l’esuberante rigoglio delle terre brasiliane. Due giovani si muovono, si perdono, si immergono dentro tutto questo. Lei parla i suoni sensuali della lingua portoghese. Lui ascolta, guarda dentro il vuoto, la segue. Lei lo porta da un’amica e qui avviene qualcosa che sembra stridere con tutto questo, sino a sembrare un altro film, un’altra vicenda. Tornano poi i due dentro i cieli, le acque, gli alberi, i sassi. Accompagnati a volte dalle note create da un musicista che percuote pareti di legno e accompagnati quasi sempre dal potente stormire del vento. Che siano immobili a parlare, a fare l’amore, ad ascoltare, o che si muovano per sentieri interrotti e tuttavia luminosi, l’inquadratura è sempre ferma. Come una serie di quadri intrisi di una straordinaria luce. Dentro la quale la miseria umana risalta in modo vivido, chiarissimo, splendente.

Giustizia / Vendetta

«Oὐκ ἀτρίακτος ἄτα; invincibile è Ate!»1  invincibile è la giustizia/vendetta. È lei la signora dell’intera trilogia che va sotto il nome di Orestea e lo è in particolare di questa seconda parte. Giustizia/vendetta che hanno a che fare con il cosmo, con la Terra, con l’intero e non soltanto con le effimere vicende dei mortali.
Si tratta di un principio universale, che già il frammento di Anassimandro aveva espresso con grande potenza. Il coro delle coefore, delle donne che portano libagioni sulla tomba di Agamennone, afferma che «δι᾽ αἵματ᾽ ἐκποθένθ᾽ ὑπὸ χθονὸς τροφοῦ / τίτας φόνος πέπηγεν οὐ διαρρύδαν; il sangue bevuto dalla Terra nutrice / è vendetta, è delitto, è un grumo che non si scioglie» (vv. 66-67; p. 518). Giustizia è «τὸν ἐχθρὸν ἀνταμείβεσθαι κακοῖς; ricambiare il malvagio con il suo stesso male» (v. 123; p. 522), modalità d’esistenza nella quale il fondatore del cristianesimo identifica correttamente «i pagani» (Mt, 5, 43-48).
La giustizia/vendetta è per i Greci un potente sentimento – «θυμὸς ἔγκοτον στύγος; è l’impeto del cuore – è il rancore implacabile» (v. 393; p. 542) – ed è anche un principio sacro, che gli Dèi vogliono, pensano, impongono ai mortali. «Ἄρης Ἄρει ξυμβαλεῖ, Δίκᾳ Δίκα; Ares contro Ares, Dike contro Dike» (v. 461; p. 546); conflitto e giustizia unite in cinque parole, in un verso tra i più splendidi e sintomatici della Grecità.

A imporre a Oreste la vendetta è il dio dell’equilibrio e della luce, è Apollo, Apollo Λοξίου, l’obliquo, il molteplice, l’ironico. Se non ubbidisse al dio, Oreste subirebbe la persecuzione delle Erinni. E tuttavia compiuto il riscatto della morte del padre Agamennone con la morte per sua mano della madre Clitemnestra, Oreste viene immediatamente perseguitato dalle Erinni. Non si dà ragione alcuna, infatti, per uccidere la madre, qualunque azione abbia ella compiuto. È dalla sua carne che infatti gli umani, come qualunque mammifero, vengono lentamente plasmati nei mesi in cui sono con la madre una cosa sola. Uccidere la propria madre è uno dei massimi atti contro natura che sia possibile pensare.
La sorella Elettra, il coro delle schiave troiane, l’amico Pilade, la nutrice, ricordano in modi diversi a Oreste il suo dovere di vendicare il padre tradito e assassinato. E Oreste ubbidisce. Dopo aver ubbidito ad Apollo dichiara perché lo ha fatto: «κτανεῖν τέ φημι μητέρ᾽ οὐκ ἄνευ δίκης; ho ucciso mia madre per giustizia» (v. 1027; p. 588). E tuttavia la conseguenza sono le Erinni davanti al suo cuore, le Erinni che lo fanno impazzire, le Erinni che non hanno pietà e che soltanto il tocco del Lossia, forse, potrà scacciare dal corpomente del matricida.
Davvero nel mondo degli umani «τὸν ζῶντα καίνειν τοὺς τεθνηκότας; i morti uccidono i vivi» (v. 886; p. 576), corpo si sostituisce a corpo, vita si sostituisce a vita; la morte è il signore di tutti. Suo tramite è il principio femminile che prende e dà, che costruisce dentro di sé la vita e schianta con la propria forza le vite che ha generato. Monica Centanni vede acutamente e giustamente all’opera in tutto questo uno «sguardo etologico» (p. 1061), quello che Sofocle esercita nel celebre inno dell’Antigone che celebra l’umano come forza meravigliosa e tremenda, concezione che in realtà è di Eschilo, per quanto splendidamente ripresa dal suo successore. Infatti:

πολλὰ μὲν γᾶ  τρέφει
δεινὰ καὶ  δειμάτων ἄχη,
πόντιαί τ᾽ ἀγκάλαι κνωδάλων
ἀνταίων βρύουσι:
πλάθουσι βλαστοῦσι καὶ πεδαίχμιοι
λαμπάδες πεδάοροι,
πτανά τε καὶ πεδοβά-
μονα κἀνεμοέντ᾽ ἂν
αἰγίδων φράσαι κότον.

ἀλλ᾽ ὑπέρτολμον ἀνδρὸς
φρόνημα τίς λέγοι
καὶ γυναικῶν φρεσὶν  τλαμόνων  καὶ
παντόλμους ἔρωτας
ἄταισι συννόμους βροτῶν;

Molti la terra nutre
Terribili […] funesti orrori
E i recessi del mare
brulicano […] di bestie mostruose, maligne.
E dall’alto cala ancora rovina:
I fulmini dal cielo distruggono
Gli esseri dell’aria e della terra. E potrei dire dei venti, il vortice tempestoso del loro furore.

Ma la violenza che c’è nella mente dell’uomo
Chi potrà dirla a parole?
E la brama del cuore delle donne
Temerarie […] l’audace
Passione che porta tutti a rovina?
(vv. 585-598; p. 556)

Una condizione ambigua, dinamica, cangiante, che diventa in Oreste cambio repentino di identità: da figlio vendicatore supplicato dalla madre a figlio perseguitato dalle Erinni della madre, da queste cagne immonde e potenti. In pochi versi, in un istante, «Oreste non è già più il vendicatore vittorioso del padre: è un figlio con le mani sporche di sangue della madre, perseguitato dai demoni» (Centanni, pp. 1088-1089).
I demoni che intessono e guidano le nostre passioni, non quelle di Oreste, le nostre: ogni giorno, per tutta la vita. Nessuno, davvero, «fra i mortali può passare / tutta senza affanno la vita, senza pagare il prezzo; οὔτις μερόπων ἀσινὴς  βίοτον / διὰ παντὸς  ἀπήμον᾽  ἀμείψει» (vv. 1018-1019; p. 588). Una vita priva di dolore e di inquietudine, sarebbe qualcosa di «più prezioso dell’oro / più grand[e] della grande fortuna degli Iperborei!; κρείσσονα χρυσοῦ, μεγάλης δὲ τύχης καὶ ὑπερβορέου» (vv. 373-374; p. 540).
Gli Iperborei, popolo presso il quale Apollo trascorreva gli inverni. Anche Eschilo è Λοξίου, obliquo come il dio.


Nota
1. Eschilo, Coefore (Χοηφόροι, 459 a.e.v.), verso v. 338; p. 538,  in Le tragedie, traduzione, introduzioni e commento di Monica Centanni, Mondadori 20133, pagine LXXXII-1245. Le successive citazioni saranno indicate nel testo con i numeri dei versi seguiti dal numero di pagina dell’edizione Meridiani.

Contro natura

El Club
di Pablo Larraín
Cile, 2015
Con: Alfredo Castro (Padre Vidal), Antonia Zegers (suor Monica), Marcelo Alonso (Padre García), Jaime Vadell (Padre Silva), Alejandro Goic (Padre Ortega), Alejandro Sieveking (Padre Ramírez), Roberto Farías (I) (Sandokan)
Trailer del film

Pablo Larraín osserva la tenebra del mondo e la restituisce in immagini.
Così in Tony Manero (2008) o in Post mortem (2010). Qui raggiunge il culmine penetrando negli anfratti di una impossibilità. L’impossibilità di essere casti, onesti, puri per decreto. Esserlo perché una norma, un contratto, una consuetudine lo chiede e lo pretende. I quattro sacerdoti cattolici che abitano a La Boca, sulla costa cilena, assistiti e sorvegliati da una suora, debbono tutti scontare delle colpe inerenti al loro ministero. Quando arriva un quinto ospite della casa, insieme a lui si presenta un uomo che da fuori canta, urla e racconta gli stupri che da bambino ha dovuto subire dal nuovo inquilino. Gli altri preti gli ordinano di fare qualcosa, di agire per evitare lo scandalo. Il confratello si uccide. Arriva un giovane gesuita incaricato di indagare e riferire su quanto accaduto. Nei suoi colloqui con i preti e con la suora emerge e gorgoglia la perversione non soltanto sessuale di queste persone. I personaggi appaiono soli di fronte alla cinepresa. Si difendono, resistono, negano, spiegano, giustificano. È evidente che non è accaduta nessuna svolta nelle loro vite, che come uomini sacri ritengono di essere garantiti, protetti, salvati. La violenza della situazione diventa non più controllabile, si scatena all’esterno e anche in parte all’interno. Sino a un finale di redenzione programmata ma – è facile intuire – impossibile.
Imporre la negazione del desiderio a chi non senta già dentro di sé la forza dell’ascesi è una delle numerose insensatezze della fede e delle chiese cristiane. Il risultato dell’andare contro natura non può che essere l’ipocrisia dell’anima e la perversione dei comportamenti. La scena iniziale, nella quale Padre Vidal allena un levriero da corsa facendolo girare in un cerchio di forza e di prigione, è introduzione e metafora del girare di questi uomini intorno all’impotenza delle proprie vite, nel chiaroscuro di tenebra dentro il quale l’oceano e i venti soffiano ma non possono pulire lo sporco che si è diventati. Come affermano più volte alcuni membri di questo club ecclesiastico, lungi dall’essere sacre queste esistenze sono soltanto «mierda».

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