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Because the Night

di Patti Smith e Bruce Springsteen
(1978)

Uno dei capolavori della musica rock, intriso di forza e di malinconia, di poesia e di eros.
La voce di Patti Smith è perfetta.

Take my hand as the sun descends
they can’t touch you now,
can’t touch you now, can’t touch you now
because the night belongs to lovers …

[audio:Patti_Smith_Because.mp3]

Artemisia, la carne

Artemisia Gentileschi. Storia di una passione
Palazzo Reale – Milano
Sino al 29 gennaio 2012

Muse e ninfe maliziose e seducenti; monache orgogliose e temibili; dame altere e potenti; antiche regine -Cleopatra- e peccatrici -Maddalena-; allegorie della pittura, della musica, della pace, della retorica, della fama; Betsabee al bagno; guerriere bibliche, tra le quali domina Giuditta che con meticolosa calma trancia la testa a Oloferne, alla quale si aggiungono Giaele che conficca con un martello un chiodo nella tempia di Sisara e Dalila che toglie ogni forza a Sansone. La più straordinaria tra queste donne è forse una samaritana dalla posa e dallo sguardo assolutamente scettici che discute con un Gesù chiaramente in difficoltà. Ma sono tutti i maschi a subire inganno e vendetta nei dipinti di Artemisia Gentileschi.
Che cosa rovina questi uomini? L’eros? L’intelligenza? La menzogna? Certamente la corporeità, che dalle opere di Artemisia tracima col suo splendore e con la sua potenza. L’Allegoria della pittura è una coscia femminile che riempie il quadro e che si allarga a un corpo adagiato, lucido, sognante.
L’allestimento di Emma Dante regala ulteriore fascino a questa “pittora” ammirata nelle corti di tutta Italia e che a Napoli trovò forse il luogo più congeniale alla sua passione, oltre che la morte. Tra fulgenti lapislazzuli, fiotti di sangue e caravaggesche lame di luce, è la carne che trionfa in Artemisia.

Auto da fé

Die Blendung [1935]
di Elias Canetti
Trad. di Luciano e Bianca Zagara
Adelphi, 1985
Pagine 521

Un masso isolato nello spazio del mondo e delle parole che tentano di descriverlo. Un mondo andato in pezzi e una scrittura icastica che ne restituisce la realtà frantumata. Un flusso di coscienza non soggettivo, non più interiore, come se la maligna assurdità delle cose avesse preso da sé voce e forma parossistiche e tuttavia geometriche. Un teorema espressionistico. Questo è Die Blendung, l’unico romanzo di Elias Canetti, premio Nobel per la letteratura nel 1981.
Peter Kien è un sinologo universalmente ammirato. Ma è «una testa senza mondo» (titolo della prima parte). Vive solitario nella sua grande casa-biblioteca, fin quando la sua governante Therese -una donna che «non aveva niente di sacro, era un essere molto crudele» (p. 344)- non lo raggira e lo induce a sposarla. Comincia allora l’avventura di Kien in un «mondo senza testa» (titolo della seconda parte), nel quale «la vita quotidiana era un superficiale groviglio di menzogne» (20). È un mondo composto da individui ipocriti, violenti, volgari, miserabili. Il mondo degli umani. Therese lo butta fuori di casa impadronendosi dell’appartamento e di tutti i suoi libri; un nano gli sottrae con pazienza e metodo buona parte del patrimonio; un portinaio omicida lo rinchiude al buio in uno stanzino maleodorante. Per una fortunata e fortuita circostanza arriva il fratello Georges, celebre psichiatra, a liberarlo dalla moglie-mostro e da ogni fastidio. Ma, partito Georges, «il mondo nella testa» (titolo della terza parte) comincia il suo moto vorticoso, incontenibile, corrusco.
Che cosa racconta questa storia?
Racconta la follia.
Racconta la scotomizzazione, che restringe la visuale dei personaggi fino a escludere dallo sguardo ciò da cui ciascuno si sente impaurito o infastidito.
Racconta la paura che il tempo suscita tra gli umani, il loro desiderio di cancellare il presente e rifugiarsi nell’immobilità del passato oppure nel futuro che avrà reso passato il presente: «Il futuro, il futuro, come fare per rifugiarsi nel futuro? Una volta passato il presente, lui non avrà più nulla da temere da esso. Ah, se fosse possibile cancellare il presente! L’infelicità del mondo dipende dal fatto che noi si vive troppo poco nel futuro. […] La colpa di tutti i dolori è nel presente. Lui non vede l’ora che giunga il futuro perché allora nel mondo vi sarà più passato», questo pensa Kien (172).
Racconta la massa, il provare «la felicità di volere tutti insieme la stessa cosa» (353). Massa che per Canetti è la forma naturale dell’umanità, la quale «esisteva, come massa, già molto prima di venire inventata -e annacquata- in sede concettuale. Essa ribolle, animale mostruoso, selvaggio, ardente e turgido di umori, nelle profondità del nostro essere, più profonda delle Madri» (447).
Racconta i libri, invenzione perfetta che però non può essere utilizzata come una corazza con la quale difendersi dal coacervo della vita e del suo orrore. Bisogna infatti che testa e mondo si incontrino in una comprensione profonda, disincantata e rigorosa dell’esistere. È in tale convergere che la cultura diventa «il salvagente dell’individuo contro la massa che è in lui» (446).
In ogni caso, «non c’è uomo che valga quanto i libri che possiede» (235) ed è vero che «diversi miliardi di uomini qualunque avevano vissuto assurdamente e altrettanto assurdamente erano morti. Mille uomini precisi, non più di mille, avevano edificato la scienza» (333).
Questo libro terrificante e terapeutico, ironico e catartico, insegna che alle tre principali forme della relazionalità  umana -il gaudio inquieto, la prestazione e il possesso- bisogna aggiungerne una quarta: la ferocia.

Città non umane

Fausta Squatriti
Ascolta il tuo cuore, città
Milano / Assab One
Sino al 2 dicembre 2011

Che cosa più della città è segno evidente della nostra specie? Spazi geometrici, costruzioni verticali, luoghi ben delimitati e differenti. Pietre, legno, cemento, ferro mescolati nell’aria e nella luce. Elementi naturali e artificiali intrecciati tra di loro. Una città è questo. E una città è anche gli umani che la abitano nel tempo. Fausta Squatriti ha ascoltato non il cuore, la volontà, i desideri, le passioni e la morte dei corpimente che le città costruiscono e ospitano ma la materia, la pura materia. Che essa sia organica o inorganica, plasmata dalla storia o accartocciata dai climi, ancora agente o immobilizzata nel guasto, è la materia che vince nelle opere di quest’artista. Materia che si esprime e canta in insiemi composti da fotografie, pastelli, cornici dentro le quali si è per sempre raggrumata una qualche struttura che una volta fu viva o attiva o funzionale e che adesso è soltanto la sua forma.

Si rimane in silenzio di fronte a simile coraggio. Al coraggio di cancellare dalle città gli umani e lasciare che esse diventino la vittoria del tempo. «Principio degli esseri è l’apeiron, la polvere della terra e del tempo, il suo flusso infinito…» afferma Anassimandro (DK, B1). Di questa polvere sono coperte le opere di Squatriti.
«Mais, quand d’un passé ancien rien ne subsiste, après la morte des êtres, après la destruction des choses, seules, plus frêles mais plus vivaces, plus immatérielles, plus persistantes, plus fidèles, l’odeur et la saveur restent encore longtemps…»  (À la recherche du temps perdu, Gallimard 1999, p. 46). Di tale odore a volte acre e altre neutro, di questo sapore di immobilità sono intessute le opere di Squatriti.
«Tutto vince e ritoglie il Tempo avaro / chiamasi Fama, et è morir secondo, / né più che contra ‘l primo è alcun riparo. / Così ’l Tempo triunfa i nomi e ‘l mondo» (Petrarca, Trionfo del tempo, vv. 142-145). Di tanto trionfo le opere di Squatriti sono fatte.

C’è un’opera, una scultura, che sembra distaccarsi da tutto questo. Disco rosso (1964) è una pura rossa semisfera al cui centro un vuoto genera lame, fulmini, coltelli. Strutture rivolte verso il cuore della sfera e verso lo spazio a essa esterno. Vibrano. Sono esse forse l’epifania del tempo, l’immagine più levigata e insieme più ferente dell’energia che il tempo è, il cui flusso produce le città una volta vive, ora vive ancora soltanto di se stesse. È il loro cuore, rosso come questa sfera, che l’artista ha saputo ascoltare.

 

 

Ferita d'amore

22 ottobre 2011 –  Teatro Arsenale – Milano
Ferita d’amore.
Musiche in habito tiorbesco di Bellerofonte Castaldi
Evangelina Mascardi – tiorba
Marco Beasley – tenore

La tiorba è lo strumento principe di Bellerofonte Castaldi, compositore e poeta vissuto tra il 1580 e il 1649. Uno strumento che ai suoni del liuto aggiunge la possibilità di un basso continuo prodotto da un numero variabile di corde. Evangelina Mascardi è tra le più importanti tiorbiste contemporanee, il cui tocco è capace di restituire sia i suoni più delicati che quelli persino orchestrali dello strumento. In questa serata è stata accompagnata dal tenore Marco Beasley, la cui voce non è stata comunque un esempio di potenza del canto. Molto interessante il contrasto fra i testi di Castaldi -colmi di passione, di desiderio e di dolore- e la sua musica, sempre rasserenante.
Non possiedo brani eseguiti da Mascardi e propongo quindi l’ascolto di “Saetta pur saetta” da Battaglia d’amore eseguita dall’ensemble «Il Furioso». Il testo, tra l’altro, recita: “Sempre ti voglio servir, / se ben a languir / crudo Amor mi destina: / ma la mia fede nel dolor s’affina. / Di stelle ignudo il cielo / e sarà privo del suo lume il giorno / pria ch’io non ami ’l tuo bel viso adorno”.

[audio:Castaldi.mp3]

Napoli vive!

Canta appress’a nuie
di Edoardo Bennato
Da È Goal! (Live, 1984)

Uno dei luoghi arcaici, ctoni, tenebrosi e sempre nuovi. Questo è Napoli, città meravigliosa e come nessun’altra in Europa uccisa dal male. La sua parlata è una lingua  capace di andare al cuore stesso della materia, dei corpi e delle passioni. La monnezza che la camorra impone è specchio della camorra stessa, del suo tanfo entropico, e non dell’intero popolo che abita Napoli. Il canto al quale invita Edoardo Bennato è segno della gioia che trascina questo luogo, della vita dolente ed entusiasta di cui è impastato. Auguro a Partenope di diventare ciò che è, di tornare bella.

[audio:Bennato_Live.mp3]

Morire nella felicità

«Non si trattava di trovare un filtro magico che m’impedisse di morire bensì, soprattutto, di imparare a morire nella felicità» (Alejandro Jodorowsky, La danza della realtà, Feltrinelli 2009, p. 149).
Quel momento verrà e sarà la pace. Verrà quell’impercettibile ma definitivo fermarsi del respiro umano sul mondo nel quale il mondo termina. L’importante è che ci trovi vivi, nella pienezza dei nostri desideri e nella saggezza delle rinunce che l’esistere ci ha insegnato. Nel disincanto su ogni cosa e nella curiosità verso l’istante che si apre, fosse anche l’ultimo. Nella benedizione delle lacrime versate per amore e nella freddezza che ha temprato il cuore. Accogliere il morire con un sorriso di vittoria, se siamo stati capaci di trasformare il labirinto che è la vita nella ragnatela del senso con il quale abbiamo catturato, infine, la gioia.

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