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Medea

di Seneca
Piccolo Teatro Grassi – Milano
Traduzione e adattamento di Francesca Manieri
Con: Maria Paiato, Max Malatesta, Orlando Cinque, Giulia Galiani, Diego Sepe
Regia di Pierpaolo Sepe
Sino al 3 novembre 2013

Come un gorgoglio immane della Terra, il rancore la vendetta e l’odio di Medea si scatenano tra le mura di Corinto. La straniera che ha permesso a Giasone di non solcare vanamente il mare, agli Argonauti di raggiungere il vello d’oro, all’umano di aprire lo spazio nuovo delle acque, ora è disprezzata, temuta, radiata. Deve andare via perché Giasone ha una nuova moglie, la figlia di Creonte, re della città. Ma Medea non è nata per subire. Dopo aver donato agli umani le acque, regala loro il fuoco che distrugge Corinto. E a Giasone offre i corpi senza vita dei loro due figli. La passione umana per il possesso totale dell’Altro ha in Medea una delle sue più terribili figure.
Il corpomente di Maria Paiato diventa una Medea terrificante, tenera, disperata, tenace. Diventa parte di una rete simbolica che trasforma la tragedia di Seneca in un testo politico. Al centro della scena c’è infatti un grande e scolorito simbolo degli United States of America; Creonte, Giasone, il coro sono vestiti al modo dei cow-boys; Creusa/Glauce si fa più volte il segno della croce; Medea in certi momenti si copre il viso con un velo. La metafora mi è parsa dunque evidente: la donna straniera e barbara è il mondo islamico irretito e poi ripudiato dall’Occidente, un mondo che si vendica con il terrore.
Una lettura inconsueta e certo forse troppo attualizzante ma che ha il merito di non indulgere in intimismi psicologici che con il mito nulla hanno a che vedere. E che dà alla potente interpretazione della protagonista l’inesorabilità degli eventi che nessuno vuole ma che debbono accadere.

Nord

Nord
(Gallimard, 1959)
di Louis-Ferdinand Céline
Traduzione di Giuseppe Guglielmi
In TRILOGIA DEL NORD
Edizione presentata, stabilita e annotata da Henri Godard
Einaudi, Torino 2010
Pagine XXXIX-1092 (Nord, pp. 293-683)

 

Zornhof è il luogo a cento chilometri a nord di Berlino dove il narratore viene confinato dopo aver girovagato da un castello all’altro. Ancor più che a Sigmaringen, la putrefazione del regime nazionalsocialista è qui evidente. Lo è al modo di un teatro di marionette nel quale tutti -feudatari prussiani, matrone russe, prigionieri politici, militari tedeschi, zingari, profughi- recitano la propria parte di folli in un mondo estremo, il mondo nel quale «la ragione è morta nel ’14, novembre ’14…dopo è finito, tutto scazza…» (pag. 443).
In questo mondo di pazzi la lucidità di Cèline è stupefacente. Lucidità su se stesso, sulla «magia della sua povera persona, così gratuita» e capace d’essere riuscita «in questa acrobazia che si trovano tutti d’accordo, un attimo, destra, sinistra, centro, sagrestie, logge, cellule, carnai, il conte di Parigi, Joséphine, mia zia Odile, Krukrubezev, l’abate Tiralira, che [io] sono la più gran sozzeria vivente» (469 e 599).
L’inquietudine che non gli fa godere l’istante è stata presa per inaffidabile cattiveria. L’innata curiosità che gli farebbe «scalare la torre Eiffel con i miei due bastoni» «per imparare anche una piccola cosa, una sciocchezza» (548) è scambiata per cinismo. L’anarchismo -«anarchico sono, come ieri domani, e me ne frego proprio delle opinioni!» (383)- è diventato immoralità. Ma è che «tutti i vinti son spazzatura!…lo so…eccome…» (303).
E tuttavia questo sconfitto della storia ha saputo persino profetizzare il futuro dell’Europa fatto di moneta  unica, di pensiero unico: «Berlino, Parigi, un’ora appena! […] il progresso di domani! dopo la guerra!…una sola moneta e l’aereo! un’ora!… piú passaporti!» (458-459). Questo sconfitto dalla passione ha descritto il patetico dell’umano e dell’amore come solo Proust ha saputo fare:

Ma i «figami» non sono solo corpi!… zotico! sono «compagne»! e i loro cinguettii, incanti e ghingheri? buon pro vi facciano! se ci avete il gusto del suicidio, incanti e cinguettii, tre ore al giorno, impiccarvi vi farà un bene boia!… lunga! corta!… sia detto senza cattiva intenzione! o passerete tutta la vecchiaia ad avercela col vostro uccello per avervi fatto perdere tanti di quegli anni a piroettare, scalpitare… fare il bello, sulle vostre zampe anteriori, su un piede, l’altro, per avere l’elemosina di un sorriso…(463)

Tutti cerchiamo di elemosinare un sorriso dentro «sta troia merda di esistenza…» (444). C’è chi per carattere e per storia ha imparato a pensare soltanto a sé, e sono la più parte -«quando la gente si preoccupa di te è a loro che pensano» (622)- e c’è chi commette l’errore che anche Proust aveva compreso quando afferma che «le due massime cause d’errore nei nostri rapporti con un’altra persona sono di aver buon cuore, oppure, quell’altra persona, amarla. Si ama per un sorriso, per uno sguardo, per una spalla. Tanto basta» (La fuggitiva, Einaudi 1978, p. 121). Anche Céline pensa che «il crimine, umanamente parlando, l’imperdonabile errore: pensare agli altri!…Prudenza, Egoismo fanno una coppia perfetta, schifosa, merdosa, ma così compatta; adorabile, solida!» (520). Non è forse vero, ad esempio, che bisogna possedere almeno un poco di nobiltà per continuare a rispettare una persona che ti ama molto e che si prostra ai tuoi piedi, al tuo cuore? Quante persone conosci, lettore, capaci di tale rispetto?
Ma nonostante la nostra specie che «infila, genera, stronca, squarta, si ferma mai da cinquecento milioni di anni…che ci sono uomini e che pensano…storto e di traverso, vai a capire, ma forza! copulano, popolano, e braoum! tutto esplode! e tutto ricomincia!» (517), nonostante la storia e la ferocia degli umani «c’è del buon cuore dove che sia, non si può dire che tutto è crimine…» (409).
Quel qualcosa di buono che pur esiste va prima visto per poter essere poi anche vissuto. E «non vediamo che quel che guardiamo e non guardiamo se non quello che abbiamo già in mente…» (479). La più parte degli umani è cieca alla luce. E forse soltanto il bagliore immenso di una catastrofe tecnologica e bellica potrà aprirle gli occhi.
Tutto questo può fare a meno del contesto in cui Nord si svolge. Al di là della storia, al di là della contingenza e dell’ora di un momento -che sia il 1944 o altro- la parola di Céline è al sempre che guarda, è il sempre che coglie.

 

Figli

Stoker
di Chan-wook Park
Con: Mia Wasikowska (India), Matthew Goode (Charlie Stoker), Nicole Kidman (Evelyn Stoker)
USA, Gran Bretagna 2013
Trailer del film

India compie 18 anni. Lo stesso giorno suo padre muore in un incidente d’auto. Mentre la famiglia è in lutto si presenta lo zio Charlie, fratello del padre. India sente i suoi pensieri, che la affascinano e la respingono. Silenziosa, intoccabile e determinata, scoprirà a poco a poco chi è lo zio, quello che ha fatto. E se ne libererà, nel nome del Padre.
La ferocia di film molto densi come Sympathy for Mr. Vengeance, Oldboy e Sympathy for Lady Vengeance si sublima e stempera nella violenza manieristica e interiore di Stoker, che intreccia vampirismo psicologico, lucida follia, elegante delirio.
Si tratta di un film/iniziazione, un’opera sull’educazione ai sentimenti e soprattutto sull’assassinio che i figli compiono nei confronti degli adulti: allontanandoli, ricattandoli, seducendoli, amandoli, sostituendoli nel tempo e nello spazio. La madre di India si chiede per quale ragione a un certo punto della vita si facciano dei figli.
Stoker è anche un sapiente, compiaciuto, coinvolgente esercizio di stile, nel quale ogni inquadratura ha una logica estetica e narrativa impeccabile. E gelida.

 

I sentimenti umani

Passioni e desideri
(360°)
di Fernando Meirelles
Sceneggiatura di Peter Morgan
Con: Katrina Vasilieva, Marianne Jean-Baptist, Anthony Hopkins, Ben Foster, Rachel Weisz, Jude Law, Jamel Debbouze, Dinara Drukanova, Mark Ivanir, Moritz Bleibtreu, Maria Flor
Gran Bretagna, Francia, Austria, Brasile 2011
Trailer del film

Il titolo originale è 360°. Un girotondo nello spazio e nei sentimenti umani, ispirato appunto al Reigen di Arthur Schnitzler. Le vicende narrate si svolgono a Vienna, Bratislava, Londra, Parigi, Denver, Phoenix, Rio. Donne e uomini che si incontrano, si amano, si lasciano, si cercano, si perdono. Gli incroci tra queste storie sono meno importanti degli accenni alla passionalità di ciascuno, al bisogno profondo di avere qualcuno da cullare, da possedere, da cui essere accarezzati e voluti. Nonostante i finali lieti che concludono gran parte di queste vicende, la sensazione è che abbia ragione Marcel Proust quando definisce l’amore come un «sentimento che (qualunque ne sia la causa) è sempre erroneo» (Sodoma e Gomorra, Einaudi 1978, p. 214). Se, infatti, alcuni dei personaggi riacquistano la pace con se stessi è perché altri sono stati sacrificati sull’altare del carattere, delle convinzioni, delle paure, delle debolezze e del passato di chi li ha abbandonati. Qualcuno, insomma, paga. Sempre. Apprezzabile è il fatto che non ci sono in questo film “buoni” e “cattivi” ma persone che cercano di stare al mondo con maggiore o minore tenacia.
Opera elegante e scritta con abilità ma fragile, ispirata ad altre assai più corpose come Babel di Iñárritu e Eyes Wide Shut di Kubrick.

 

Stucchevole

Il grande Gatsby
(The Great Gatsby)
di Baz Luhrmann
Con: Leonardo Di Caprio (Jay Gatsby), Tobey Maguire (Nick Carraway), Carey Mulligan (Daisy Buchanan), Joel Edgerton (Tom Buchanan), Jason Clarke (George B. Wilson), Isla Fisher (Myrthe)
Australia – USA, 2013
Trailer del film

 

Chi è Jay Gatsby? Chi è veramente? A raccontarlo è Nick Carraway in un testo scritto su consiglio del suo terapeuta per uscire dalla condizione di disagio psichico in cui si trova. Nick è stato vicino di casa di Gatsby (lui in una casetta, Gatsby in un castello incantato) ed è stato sopratutto l’unico vero amico, colui che in un momento di disperata speranza gli disse: «Tu sei migliore di tutti costoro. Tu sei pulito». Mentre gli altri vivevano in un’immensa noncuranza del prossimo, Gatsby aveva un sogno incorruttibile. Per raggiungere il quale organizzava feste sontuose alle quali poteva partecipare chiunque. Era un amore, naturalmente, a spingerlo. Amore per una donna che aveva costruito nella propria mente, a partire da pochi fugaci incontri. Come fanno tutti. La sua grandezza consistette nell’edificare un impero architettonico e finanziario all’unico scopo di poterla rivedere, incontrare.
I momenti migliori del film consistono nelle feste di Gatsby -anni Venti del Novecento- durante le quali si eseguono e ballano musiche techno del presente. Accade allora uno straniamento che interrompe un flusso tanto sovrabbondante di iconica frenesia quanto tradizionale nel tessuto narrativo. Gli effetti speciali si moltiplicano sino a diventare stucchevoli. Persino il barocco può essere noioso se non lo si sa dosare. In Baz Luhrmann l’artificio ha così la meglio sull’arte.
La perennità di questa storia consiste nel fatto che è una storia di soldi. Il danaro è più potente di ogni sentimento. Tranne che in Gatsby, il quale appunto per questo è the Great.

 

Le côté de Guermantes

I Guermantes
di Marcel Proust
(Le côté de Guermantes, 1920-21)
Trad. di Mario Bonfantini
Einaudi, 1978 (1949)
Pagine XVII – 686

Nella Recherche il mondo aristocratico è vissuto dapprima nella esaltazione poetica di antichi nomi, di storie nascoste, di mitologiche origini, di sogni e vite inarrivabili. Poi viene penetrato dal calmo e implacabile disincanto del Narratore: «Così l’aristocrazia, in quella sua costruzione pesante, dalle rade finestre che lasciano entrar poca luce, mostra la stessa mancanza di slancio, ma anche la stessa potenza cieca e massiccia, dell’architettura romanica: rinchiude tutta la storia, la mura in sé, la mortifica» (pag. 581) 1 . Il duca di Guermantes, «uomo di gentilezza commovente e di durezza ripugnante, schiavo dei più piccoli obblighi mondani e indifferente ai più sacri doveri morali» (473) 2, dà molta più importanza a una serata in società che alla malattia e alla morte dei suoi amici.
Anche il barone di Charlus –il personaggio più riuscito dell’Opera, una scultura- nonostante il suo «immenso orgoglio» (603) 3 vive un bisogno struggente degli altri, dello stare con loro, «aveva l’aria di temere il momento in cui l’avrei lasciato solo: quella sorta di timore un po’ ansioso cui la sua cognata e cugina Guermantes m’era sembrata in preda un’ora prima, quando aveva voluto obbligarmi a restare ancora un po’, quasi con la stessa passeggera inclinazione per me, con lo stesso sforzo per far durare di più l’attimo» (606) 4. E la duchessa Oriane de Guermantes, la “dea” dall’esistenza misteriosa e inaccessibile, è oggetto di una parabola che parte dalla devota ammirazione e dall’amore del Narratore e giunge a una limpida condanna: «Fui disgustato dalla vera malvagità della signora di Guermantes» (556) 5. Questi individui vengono descritti come un bestiario favoloso e variegato dentro il quale spira gelido il vento della menzogna e, infine, della delusione più fonda: «Per risvegliare la mia vita interiore durante quelle ore mondane, in cui io abitavo la mia epidermide […] quanto dire che ero incapace di provare ciò che era per me il vero piacere della vita» 6 (570).
Molto altro si legge nei Guermantes. L’identità tra l’amare e il soffrire, la fecondità dei superamenti, la pervasività del sentimento, la totalità della mente, che è in qualche modo l’intero: «Gli sciocchi si immaginano che le vaste dimensioni dei fenomeni sociali siano un’ottima occasione per penetrare più addentro nell’animo umano: dovrebbero invece comprendere che solo discendendo in profondità nell’interno di un individuo abbiamo qualche probabilità di capire la natura di quei fenomeni» (357) 7.
E, infine e come sempre nell’Opera, la bellezza, la bellezza assoluta di una sera veneziana dipinta come solo un Signore della parola –quale è Proust- sa fare: «Così più tardi a Venezia, molto dopo il tramonto del sole, quando sembra che sia notte completa, vidi, grazie all’eco in sé invisibile d’una ultima nota di luce indefinitamente tenuta sui canali come per effetto di qualche pedale ottico, il riflesso dei palazzi stampato come per sempre in un velluto più nero, sul grigio crepuscolare delle acque» (154) 8.

Note

1.«Telle l’aristocratie en sa construction lourde, percée de rares fenêtres, laissante entrer peu de jour, montrant le même manque d’envolée, mais aussi la même puissance massive et aveuglée que l’architecture romane, enferme toute l’histoire, l’emmure, la renfrogne» (À la recherche du temps perdu, Gallimard, Paris 1999, p. 1158)

2. «homme attendrissant de gentillesse et révoltant de dureté, esclave des plus petites obligations et délié des pactes les plus sacrés» (1082)

3. «immense orgueil» (1173)

4. «Il avait même l’air de redouter l’instant de me quitter et de se retrouver seul, cette espèce de crainte un peu anxieuse que sa belle-sœur et cousine Guermantes m’avait paru éprouver, il y avait une heure, quand elle avait voulu me forcer à rester encore un peu, avec une espèce de même goût passager pour moi, de même effort pour faire prolonger une minute» (1175-1176)

5. «Mais ce fut par la véritable méchanceté de Mme de Guermantes que je fus révolté» (1141)

6. «Pour que ma vie intérieure pût se réveiller durant ces heures mondaines où j’habitais mon épiderme […] c’est-à-dire où je ne pouvais rien éprouver de ce qui était pour moi, dans la vie, le plaisir» (1150)

7. «Les niais s’imaginent que les grosses dimensions des phénomènes sociaux sont une excellente occasion de pénétrer plus avant dans l’âme humaine; ils devraient au contraire comprendre que c’est en descendant en profondeur dans une individualité qu’ils auraient chance de comprendre ces phénomenès» (1002)

8. «Ainsi plus tard, à Venise, bien après le coucher du soleil, quand il semble qu’il fasse tout à fait nuit, j’ai vu, grâce à l’écho invisible pourtant d’une dernière note de lumière indéfiniment tenue sur les canaux comme par l’effet de quelque pédale optique, les reflets des palais déroulés comme à tout jamais en velours plus noir sur les gris crépusculaire des eaux» (857)

Dolcemorte

Miele
di Valeria Golino
Con: Jasmine Trinca (Irene), Carlo Cecchi (Ingegner Grimaldi), Libero De Rienzo (Rocco), Iaia Forte (Clelia)
Italia 2013
Trailer del film

Irene svolge la sua attività con molta precisione. Si reca in Messico per acquistare un farmaco destinato alla soppressione dei cani malati, farmaco fuori legge in Italia. Poi lo fa assumere a dei malati terminali che non tollerano più il dissolversi lento e atroce della loro vita. Nei giorni precedenti li prepara insieme ai loro congiunti, in modo che sia lo stesso malato a bere il veleno che gli darà finalmente pace. Tutto molto discreto, pulito, pietoso e illegale. Sino a quando viene contattata da una persona che non soffre di alcuna malattia conclamata ma che semplicemente non vuole vivere più. Quando comprende che di questo si tratta, Irene reagisce in modo duro perché non è e non si sente un sicario. Comincia quindi un corpo a corpo sia metaforico sia fisico con l’ingegner Grimaldi. Il conflitto sfuma sempre più in una reciproca attenzione e cura. Sino a un grande atto di generosità da parte dell’uomo.
La tristezza che accompagna Irene, la sua solitudine non attenuata da relazioni clandestine e dalle occasionali visite al padre, il battito non sempre regolare del suo cuore, le sue immersioni nell’elemento liquido e nell’aria, comunicano assai bene la tonalità malinconica e insieme tenace della protagonista e della sua storia. Le immagini si susseguono a volte simboliche, altre conflittuali, altre ancora rarefatte. Nessun compiacimento, nessun tono troppo alto ma un grande rispetto per la morte e un’eleganza formale che intride di interiore bellezza anche il morire. Alla fine, un segno di riscatto si alza dentro una splendida moschea.

 

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