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«Remember me, but ah! forget my fate»

MI-TO Settembre Musica 2014
Basilica di Santa Maria delle Grazie – Milano – 8 settembre 2014
Henry Purcell
Dido and Aeneas
Opera in tre atti su libretto di Nahum Tate (1689) dal quarto libro dell’Eneide di Virgilio
Accademia degli Astrusi
Ars Cantica Choir
Federico Ferri, direttore
Marco Berrini, direttore del coro
Anna Caterina Antonacci (Didone, prima strega, marinaio), mezzosoprano
Yetzabel Arias Fernández (Belinda, seconda strega, spirito), soprano
Laura Polverelli (Enea, seconda donna, maga), mezzosoprano 

Avevo già scritto qualche parola su quest’opera di Purcell, sulla malinconia del barocco. Il dolore d’amore è così costantemente cantato non soltanto per la sua intensità e universalità ma anche perché rappresenta una metafora della finitudine di tutte le cose.
In questa esecuzione le tre cantanti si sono alternate in vari ruoli con efficacia, il coro è risultato di grande qualità, l’orchestra al servizio della potenza e delicatezza della musica di Purcell. Il lamento finale di Didone è stato interpretato in maniera esatta e struggente da Anna Caterina Antonacci, che è possibile ascoltare in un video registrato nel Teatro Comunale di Bologna.
«Thy hand, Belinda, darkness shades me / On thy bosom let me rest / More I would, but Death invades me / Death is now a welcome guest. // When I am laid, am laid in earth, May my wrongs create / No trouble, no trouble in thy breast / Remember me, remember me, but ah! forget my fate. / Remember me, but ah! forget my fate»

Casanova come artista

Il Casanova di Fellini
di Federico Fellini
Italia, 1976
Con Donald Sutherland

Casanova_FelliniRivolgendosi a Giacomo Casanova una donna chiede: «Non riesci a parlare d’amore senza immagini funebri, senza parlare di morte?». È anche per esorcizzare la morte che Casanova/Fellini (questo il trasparente significato del titolo) dispiega la gloria dei colori, l’invenzione degli spazi, il frastuono del movimento, la festa.
La festa percorre per intero questo film: dall’incipit veneziano del Carnevale ai teatri  e alle corti d’Europa dove Casanova viene ospitato, lavora, seduce.  Ovunque la musica (magnifico Nino Rota) e particolarmente nella scena dell’organo suonato con furore da vari esecutori alla corte di Wittenberg. A Dresda alla fine della serata calano i lampadari, che vengono spenti uno a uno. Ed è come se il silenzio parlasse.
Dopo l’incontro con la madre comincia la decadenza del colto avventuriero, inizia il ritorno alla materia, al ventre della terra. L’artista appassionato e candido recita ancora i versi della follia di Orlando ma una donnetta comincia a ridere e lo offende di fronte all’intera corte.
È il destino dell’artista baudeleriano, dell’Albatros. Meglio allora, molto meglio, il coito con il bell’automa femminile. E quindi con se stesso. Come sempre. Mentre un uccello meccanico con le sue ali si alza e si abbassa -accompagnando le gesta amorose di Giacomo- la festa, la malinconia e la donna sorgono e tramontano nel sogno intimo e pubblico in cui consiste questo capolavoro.

 

È proprio Meursault

Teatro Franco Parenti – Milano
Lo straniero
Reading tratto da L’étranger di Albert Camus
con Fabrizio Gifuni
riduzione letteraria di Luca Ragagnin
regia di Roberta Lena
produzione il Circolo dei Lettori
2-3 luglio 2014

Gifuni_CamusFabrizio Gifuni è proprio Meursault. È la sua calma, l’indifferenza, la lucidità. È il pari valore delle scelte. È l’inevitabilità degli avvenimenti. È lo svuotamento dell’immensa ipocrisia degli esseri umani, è la distruzione del loro egoismo. È la colpa d’essere nati. È la parola pacata, essenziale e terribile. È il sole a piombo, accecante e mortale. È l’anarchismo che rifiuta codici, tribunali e religioni. È il disincanto sulle istituzioni, sulle passioni e sui sentimenti. È la bellezza delle notti di sale, di terra e di stelle. È la poesia che zampilla invisibile da una scrittura apparentemente prosaica. È la ribellione, l’urlo, la morte. È l’odio.
Fabrizio Gifuni è proprio Meursault. La sua voce ferma, i gesti essenziali, il grido improvviso, la calma del mare si rapprendono in una magnifica esperienza di ascolto, di pensiero, di odio.

Anche i musicisti piangono

Una fragile armonia
(A Late Quartet)
di Yaron Zilberman
USA, 2013
Con: Philip Seymour Hoffman (Robert), Christopher Walken (Peter), Catherine Keener (Juliette), Mark Ivanir (Daniel), Imogen Poots (Alexandra), Liraz Charhi (la ballerina)
Trailer del film

a_late_quartetIl quartetto d’archi The Fugue si esibisce da venticinque anni in tutto il mondo con risultati eccellenti. Durante le prove dell’Opera 131 di Beethoven il violoncellista Peter comunica che è affetto dal morbo di Parkinson e che dunque bisogna sostituirlo. Alla notizia i suoi colleghi reagiscono in modi diversi. La violista Juliette è affranta e rifiuta l’idea stessa di una sostituzione; il primo violino Daniel è preoccupato soprattutto della perfezione esecutiva che non deve venire meno; il secondo violino Robert chiede che si dia un nuovo inizio al Quartetto con l’alternarsi nel ruolo di primo violino di lui e di Daniel. Si scatenano, naturalmente, gelosie, rancori, ricordi. Anche perché Juliette e Robert sono marito e moglie e tra di loro non va molto bene. Hanno una figlia anch’essa violinista, che si sente molto attratta da Daniel. È quindi in gioco tutto: sentimenti, legami, carriere, arte. Ciascuno dovrà compiere le proprie scelte, cercando di soffrire il meno possibile.
Un film patinato e un’occasione per l’ascolto di Beethoven. Ma un’opera anche prevedibile e artificiosa, che deve tutto all’interpretazione neppure troppo convinta e a volte un po’ ingessata del quartetto di interpreti.

 

La Prisonnière

La prigioniera
di Marcel Proust
(La Prisonnière, 1921-22)
Trad. di Paolo Serini
Einaudi, 1978 (1954)
Pagine XVIII – 460

Proust_La PrigionieraIl presentimento di sofferenza con il quale si era chiuso Sodoma e Gomorra si dispiega in una parte dell’affresco proustiano che forse meglio si sarebbe potuta intitolare “Il prigioniero”. Più che Albertine, infatti, è il Narratore a essere recluso nell’insaziabilità del desiderio, nell’illusione dell’amore dato e ricevuto, in una gelosia che quando sembra attenuarsi bastano una parola, un gesto, un’immagine a ricostituire. Tuttavia la dolorosa saggezza che dell’amore è sostanza prepara il Narratore alla rivelazione definitiva –non a caso Albertine viene definita «una grande dea del Tempo» (pag. 398)1 anche attraverso la musica e la letteratura, evocate dal “Settimino” di Vinteuil e dalla morte di Bergotte. È l’arte a farsi espressione dell’identità molteplice, che è capace di «riunire in sé più individualità diverse» (160)2.
La centralità di Albertine nell’itinerario della Recherche consiste nell’essere testimone della inevitabile crudeltà del sentimento amoroso, «come se tra due esseri esistesse fatalmente una certa quantità d’amore disponibile, di cui il troppo preso da uno venga sottratto all’altro» (353)3. Ed è per questo forse che in Sodome et Gomorrhe dell’amore si dice che è un «sentimento (qualunque ne sia la causa) sempre erroneo» (Einaudi 1978, p. 214)4. Il fatto è che Albertine «mi poteva procurare soltanto sofferenza, non mai gioia. E solo la sofferenza manteneva in vita il mio fastidioso attaccamento» (23)5.
L’impossibilità di conoscere e possedere l’Altro è un’allegoria –la fisicizzazione quasi- di una più vasta impossibilità, quella della verità, la quale si dissolve nell’intuizione che il mondo è identico per tutti e differente per ciascuno. L’impossibilità dell’amore e della verità fa sì che l’Altro non esista, che egli sia l’inafferrabile e mutevole risultato del cangiante moto dei nostri sentimenti, al di fuori dei quali egli è il niente. L’Altro c’è fino a quando il nostro amore perdura. Sparisce poi in quel nulla dal quale le nostre emozioni lo hanno tratto alla vita. Anche per questo «la vita vera, la vita finalmente scoperta e tratta alla luce, la sola vita quindi realmente vissuta, è la letteratura» (Il tempo ritrovato, Einaudi 1978, p. 227)6, la vera vita è la parola in grado di dire a noi e agli altri la sostanza del mondo. Ed è per questo che durante la notte funebre dello scrittore Bergotte «i suoi libri disposti a tre a tre vegliarono come angeli dalle ali spiegate e sembravano, per colui che non era più, il simbolo della sua resurrezione» (190)7.

 

Note

1. «une grande déesse du Temps» (À la recherche du temps perdu, Gallimard, Paris 1999, p. 1894)

2. «réunir diverses individualités» (1722)

3. «comme s’il y avait fatalement entre deux être une certaine quantité d’amour disponible, où le trop pris par l’un est retiré à l’autre» (1861)

4. «sentiment qui (quelle qu’en soit la cause) est toujours erroné» (Sodome et GomorrheÀ la recherche du temps perdu, 1358)

5. «était capable de me causer de la souffrance, nullement de la joie. Par la souffrance seule, subsistait mon ennuyeux attachement» (1623)

6. «la vraie vie, la vie enfin découverte et éclaircie, la seule vie par conséquent pleinement vécue, c’est la littérature» (Le temps retrouvéÀ la recherche du temps perdu, 2284)

7. «ses livres, disposé trois par trois, veillaient comme des anges aux ailes éployées et semblaient pour celui qui n’etait plus, le symbole de sa résurrection» (1623)

 

Dipende

Nymphomaniac vol. 2
di Lars von Trier
Danimarca, 2013
Con: Charlotte Gainsbourg (Joe), Stellan Skarsgård (Seligman), Stacy Martin (Joe da ragazza), Shia LaBeouf (Jerome), William Dafoe (L), Jamie Bell (K)
Trailer del film

Ascoltando Joe e i suoi racconti, Seligman afferma: «La religione è molto interessante, come il sesso». Che li si pratichi o meno, naturalmente. Non credere ad alcun dio e nutrire grande interesse verso il sacro, le religioni, la fede, le chiese. Oppure essere parte di una chiesa e dipendere da essa per le proprie interpretazioni del mondo e per le pratiche di vita.
Bere, bere e poi ancora bere. Immergere nella bottiglia il senso dei propri giorni. Dipendere dagli alcolici, aspirare al liquido eccitante, rinfrancante, anestetizzante.
Iniettata, aspirata, compressa e ingoiata. Dipendere dai mondi che gli stupefacenti creano e in essi illudersi di vivere sottraendosi alla fatica dei giorni, dentro le scogliere di marmo della bianca sostanza, della polvere.
Frenetici davanti alle slot machine, alle scommesse, al videopoker. Dipenderne fino a vendere l’ultima traccia della vita che fu.
Ore ore e ore davanti al monitor, compulsando la posta, facebook, twitter. Giornate intere davanti ai videogiochi buoni per tutte le età. E lì eccitarsi di connessioni e ubriacarsi di paroleimmagini, dipenderne.
Dalle prime ore del lunedì alla sera della domenica pensare alla propria squadra, non parlar d’altro, riempirsi la casa e la mente dei suoi colori. Tifare e far dipendere il proprio umore da sfere lanciate dentro una rete. Gol.
Soldi soldi soldi, idolo estremo, puramente simbolico e insieme brutalmente materico. Il signore di questo mondo dal quale si dipende come dall’aria che si respira.
«’O cumannà è meglio d’ ‘o fottere» poiché ti fa guadagnare tanti soldi, ti dà sicurezza e soprattutto ti fa sentire vivo mentre imponi un ordine ai morti, morti alla loro volontà sostituita dalla tua. Nel comando si dipende tutti, sia chi l’ordine impone sia chi lo riceve.
Cercare qualcuno o tanti a cui imporre la propria presenza, l’umana compagnia bramata per scaricare sull’altro la propria angoscia e riceverne conforto, amicizia, parola, speranza, vita, gratificazioni, lodi. Dipendere dai conspecifici umani come la formica dal formicaio.
«Amore mio grande senza di te non è vita». «Figlio mio caro non abbandonare la tua mamma». Dipendere dai sentimenti sino a piangere, disperarsi, crollare quando l’altro fa ciò che era già implicito nel cominciamento della vita e dell’amore: andarsene.

E tuttavia soltanto al sesso si attribuisce di solito la perversione. Come se tutto questo non lo fosse altrettanto. Joe continua a narrare l’abisso del proprio desiderio irraggiunto -Achille che non raggiungerà mai la tartaruga dell’orgasmo- nonostante le visioni, la violenza, il dolore, lo specchio e la pistola. Nonostante l’anatra silenziosa.
E quando la conclusione del racconto sembrerà virare verso una volontà di redimersi divenuta finalmente cosciente del baratro; quando un barlume di amicizia sembra infine scoccare nel buio dei giorni insensati e dello sfacelo; quando sulla rovina del vissuto si apre l’ancòra da vivere, allora beffardo ritorna il desiderio, la dipendenza di qualcuno dalla fica a lungo negata.
È il buio di fotogrammi ormai neri sul rumore di passi che vanno. Non c’è salvezza dalla catastrofe inaugurata dall’essere venuti al mondo, in esso gettati.
È probabilmente l’oscenità di tale pensiero ad aver indotto a censurare il film, tanto che il suo autore dichiara all’inizio di aver autorizzato questa versione senza però riconoscersi in essa. Dipendere dal cinema come dalla forma platonica. «La filosofia contemporanea non consiste nel concatenarsi dei concetti, bensì nel descrivere la fusione della coscienza con il mondo, il suo impegnarsi in un corpo, la sua coesistenza con gli altri, e tale argomento è cinematografico per eccellenza» (Merleau-Ponty). Questo è l’argomento di Nymphomaniac: la potenza e i limiti della libertà.

Fica / Fibonacci

Nymphomaniac – Volume 1
di Lars von Trier
Danimarca, 2013
Con: Charlotte Gainsbourg (Joe), Stellan Skarsgård (Seligman), Stacy Martin (Joe da ragazza), Shia LaBeouf (Jerome), Christian Slater (il padre di Joe), Uma Thurman (la signora H), Sophie Kennedy Clark (B)
Trailer del film

Una donna dal volto tumefatto e ferito racconta la propria vita all’uomo che l’ha raccolta e soccorsa. Joe dice di se stessa che è persona spregevole, colma di egoismo e di peccati. Tra questi «l’aver chiesto di più al tramonto, i più spettacolari colori». Il padre le aveva insegnato, bambina, a godere della bellezza del faggio, «l’albero più bello e più invidiato del bosco». Il ricordo più intenso di Joe è la lunga agonia di questo giovane padre in ospedale, della quale il film nulla risparmia, mostrando i deliri e la cacca ma anche la dolcezza dell’essere stati e del commiato.
Tanti uomini. Sfidati, sfruttati, derisi, abbandonati, posseduti, distrutti. In una scena estrema uno di tali maschi, che nulla sono per lei, le si presenta con le valigie dopo aver lasciato la moglie e i tre bambini. La moglie lo segue, portando appresso la prole. E parla parla nello strazio dell’essere stata lasciata. Ma Joe dichiara, gelida, «è soltanto un grande malinteso, io non amo vostro padre».
Le sfide in treno con un’amica d’avventure: un sacchetto di cioccolattini sarà il premio per chi delle due si accoppierà con più maschi lungo il viaggiare. Soprattutto evitare l’amore, che è la suprema debolezza del desiderio. Ma un uomo, almeno uno, Joe sembra averlo amato. Jerôme, al quale ragazzina chiese di prendersi la sua verginità -e lui lo fece nel modo più sbrigativo e brutale-, che incontra dopo alcuni anni come datore di lavoro, del quale sembra innamorarsi ma che all’improvviso si sposa e scompare. «L’amore non è cieco, è peggio. L’amore distorce la realtà». Verissimo, naturalmente.
Eventi, piaceri, morte, solitudine. Tutto immerso nella piena, feroce e trionfante naturalità della nostra specie. Insetti, galassie, felini. Natura che accompagna altra natura e la sostanzia di assurdità e di senso. Sullo sfondo e nella trama concettuale il pensiero di Spinoza e quello di Sade. Due modi diversi di dire che «per bonum id intelligam quod certo scimus nobis esse utile» (Ethica IV, Definizione 1), che «humanas actiones atque appetitus considerabo perinde ac si quæstio de lineis, planis aut de corporibus esset» (Ethica III, Prefazione)1, Anche de Sade invita a «ne soupçonner de mal à rien, de voir avec la plus tranquille indifférence toutes les actions humaines, de les considérer toutes comme des résultats nécessaires d’une puissance, telle qu’elle soit, qui tantôt bonne et tantôt perverse, mais toujours impérieuse»2.
Un gelo geometrico percorre Nymphomaniac, un ritmo matematico che vibra nelle musiche di Bach e nella sin dall’inizio ripetuta serie di Fibonacci, quella per la quale il numero successivo è la somma dei due precedenti. 1+1=2, 1+2=3, 2+3=5, 3+5=8, 5+8=13, 8+13=21, 13+21=34, 21+34=55 e così via . Lo stesso rapporto tende alla sezione aurea, fondamento del Partenone, e sta inscritto nell’ordine delle lettere che compongono il nome di Bach. 2-1-3-8, numeri della serie di Fibonacci la cui somma è 14, cifra che ricorre spesso nell’opera del compositore. Come se la bellezza estrema, il supremo ordine e l’armonia nascessero dalla serie disordinata delle passioni di cui siamo fatti.
Un film cupo e magnifico.

 

Note

1.«Bene è ciò che sappiamo con certezza che ci è utile»; «Le azioni e gli appetiti devono essere osservati come se fosse questione di linee, superfici o corpi».

2. «Non supporre nulla di male nelle cose, considerare con la più tranquilla indifferenza tutte le azioni umane, ritenerle tutte come prodotti necessari di una potenza, qualunque essa sia, a volte buona a volte perversa ma sempre imperiosa» (Eugénie de Franval). 

 

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