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Il dolore umano

Alaska
di Claudio Cupellini
Italia, Francia – 2015
Con: Elio Germano (Fausto), Astrid Berges-Frisbey (Nadine), Valerio Binasco (Sandro), Paolo Pierobon (Marco), Elena Radonicich (Francesca),  Roschdy Zem (Benoit)
Trailer del film

alaskaFausto e Nadine si incontrano sulla terrazza di un albergo parigino. Lui, immigrato, fa il cameriere; lei tenta senza convinzione la carriera di modella. Il loro incontro comporta sùbito delle gravi conseguenze. Una serie di circostanze -che i due non fanno nulla per evitare- li porta in ambienti equivoci, in galera, alla ricchezza e al fallimento. Tra Parigi e Milano si delinea una vicenda colma di tensione e di passione.
Alaska è la prova di come si possa costruire una storia ottocentesca nel pieno del postmoderno e del XXI secolo. Si tratta infatti di un vero e proprio melodramma, di una intensa storia d’amore -irrazionale come tutte le storie d’amore-, nella quale la passione reciproca rimane inspiegabile, le conseguenze sono previste ma scartate, il sacrificio di ciascuno all’altra è sacrificio al proprio stesso desiderio. Per quanto possa sembrare strano, Alaska mi ha ricordato La traviata.
Il ritmo del film è ottimo sino all’ultima mezz’ora, che si prolunga inutilmente. Esperta e gigiona la recitazione di tutti quanti gli attori. Il nucleo di verità del film è la costanza del dolore umano.

Lager

The Lobster
di Yorgos Lanthimos
Grecia, Gran Bretagna, Irlanda, Paesi Bassi, Francia – 2015
Con: Colin Farrel (David), Rachel Weisz (La donna miope), Aggeliki Popoulia (La donna spietata), Ariane Labed (la cameriera), Léa Seydoux (il capo dei solitari), Olivia Colman (la direttrice dell’albergo), Ashley Jensen (la donna biscotto)
Trailer del film

In un albergo di lusso. Serviti da camerieri inappuntabili. Ottimi pasti, saune, piscine. Splendidi panorami. Può un luogo come questo essere un lager? Sì, può. Perché l’essenza di un lager non è il cibo, le baracche, il freddo -che pure contano, certo- ma è il terrore di un potere implacabile e diffuso. Il potere, in questo caso, che si esercita su chi ha la ventura di rimanere da solo. Che il motivo sia la volontà del soggetto, l’abbandono da parte del compagno/moglie/marito o la sua morte, nessuno può e deve rimanere da solo. In questo albergo gli ospiti hanno 45 giorni di tempo per trovare un altro partner. Se non vi riusciranno, saranno trasformati in un animale a loro scelta. Possono incrementare i giorni loro assegnati catturando dei solitari, gruppi di ribelli che vivono nei boschi e il cui  comportamento è speculare rispetto a quello delle istituzioni. Tra di loro, infatti, nessuno può innamorarsi o accoppiarsi ma deve rimanere da solo e provvedere in solitudine a tutte le proprie esigenze affettive. Per chi trasgredisce le pene sono terribili.
David è stato lasciato dalla moglie e viene ospitato in questo albergo. Nonostante la sua profonda indolenza, tenterà varie strategie per sopravvivere, compresa la fuga con i solitari.

Dogtooth (Kynodontas, 2009) rappresentava la famiglia come luogo claustrofobico e perverso. Qui la distopia riguarda i sentimenti, i legami, il naturale, totale, disperato bisogno che gli umani hanno di vivere con gli altri, di scegliere un proprio simile con il quale condividere l’esistenza. Che questo sentimento diventi obbligatorio o venga proibito, in entrambi i casi le conseguenze sono ipocrisia, menzogna, aridità, disperazione, vuoto. Quando infatti si tratta dei sentimenti umani, ogni carezza può diventare uno schiaffo, ogni tocco una violenza. Se le istituzioni entrano in questa sfera -e lo fanno da sempre- un’etica potenzialmente totalitaria invade i comportamenti e li rende fonte di dolore.
Il mondo grottesco, triste, patetico e feroce descritto da questo film è fondato sulla accentuazione di elementi già presenti nella nostra società. Il Grande Altro, infatti, si impone su ciascun individuo con tutta la forza di un condizionamento sociale ed etico al quale è quasi impossibile sfuggire. Le regole della convivenza istituzionale vanno al di là del codice civile e toccano il cuore delle persone e dei loro desideri. Per regolarli, certo, ma anche e soprattutto per controllarli, poiché il desiderio che da sé si costruisce e in sé si appaga è dirompente per l’ordine individuale e collettivo. Vivere in due o vivere da soli, più che  una scelta consapevole e meditata è in gran parte un dovere introiettato dalla famiglia, dall’ambiente sociale, dallo Stato. Il film trasforma l’imposizione collettiva in norma totalitaria inderogabile ma il controllo, la repressione e il terrore abitano nelle morali eteronome prima che nei codici giuridici.
La struttura formale di Lobster è una delle sue migliori qualità. La tragedia viene raccontata con un distacco quasi totale. La forma è cadenzata e geometrica. Umano, animale e disumano si mescolano come un dato di fatto e non come una stravaganza. Lobster è l’aragosta nella quale David chiede di essere trasformato nel caso non riuscisse a trovare una compagna. La troverà là dove è proibito averla e questa donna sarà miope come lui. Forse non vedere troppo lontano nel futuro del dominio è una delle condizioni per sopportare il presente del potere. Il disincanto di Lanthimos è profondo e tuttavia anche un film come questo è uno sguardo gettato sulla struttura sadica dell’autorità, è una sfida all’accettazione di ciò che si presenta come ineluttabile.

Possesso

L’impero dei sensi
(Ai no Korīda – L’Empire des sens)
di Nagisa Oshima
Giappone, Francia 1976
Con: Eiko Matsuda (Sada Abe) Fuji (Kichizo Ishida)

Sada Abe lavora in una pensione, si lega al padrone in un rapporto erotico totale che li condurrà a esiti estremi. La vicenda accadde realmente in Giappone.
Molte scene sono esplicite: i corpi, le bocche, i membri, le vagine si intrecciano; i gesti, le posizioni, i movimenti dell’uno esigono e rispondono a quelli dell’altro, stabilendo una dipendenza e possesso perfetti. E tuttavia è un film gelido, nel quale a dominare è il Körper, l’organismo, più che il Leib, il corpo vissuto; è una tecnica di godimento e non una storia.
Il desiderio dell’altro implica certamente anche il desiderio del piacere che l’altro può offrirci, ma bisogna sopportare ciò che di effimero e inafferrabile è in gioco per saper riconoscere all’altro il suo proprio senso, irriducibile al nostro. Qui Sada non ammette interruzioni al loro inesauribile piacere, cerca sempre più e soltanto il membro del suo amante, per portarlo costantemente con sé. Kichi san, dal suo canto, si lascia possedere con totale abbandono, quasi a preferire la morte a una boccata d’aria tra gli orgasmi.
L’impero dei sensi è un elegante esercizio dello sguardo; è una illustrazione persino didascalica del legame tra Eros e Thanatos; è la disperazione proustiana dell’inoltrepassabile solitudine degli amanti, preferibile a tutto.
Non c’è erotismo ma c’è eleganza in quest’opera, l’eleganza di una civiltà avvezza a esprimere in forme misurate la ferocia. Come se il Sole che sorge sull’Oriente illuminasse ogni volta una Notte destinata a non finire. L’Eros è un’altra cosa. È scambio, sorriso, gioia.

Tolstòj, la storia, gli umani

Lev Nikolajevic Tolstòj
GUERRA E PACE
(Vojna i mir, 1865-1869)
Traduzione di Enrichetta Carafa d’Andria
Con un saggio di Thomas Mann
Prefazione di Leone Ginzburg
Einaudi, 1990 (1942)
Pagine XXII-1425

Si comincia a leggere e, per chi ama Proust, Mann, Kafka, sembra di tornare a una narrativa solida ed elegante, a una introspezione psicologica che però -rispetto a quegli autori- appare troppo prudente. Poi, mano a mano che si continua a leggere, il libro afferra per la forza dei personaggi, affascina per la vastità e complessità della trama, produce stupore di fronte alle sculture di sentimenti, passioni, innamoramenti e dolori che appaiono plastici, tridimensionali, magnifici in tutta la loro potenza: «…e da quella porta socchiusa a un tratto spirò e investì Pierre quella felicità da tempo dimenticata alla quale, specialmente ora, egli non pensava. Spirò, lo avvolse, lo sommerse; quando poi ella sorrise, non ci poterono più essere dubbi: era Nataša, ed egli l’amava» (pag. 1302).
L’apice è la morte del principe Andréj, bellissima e lenta, complicata e romantica, appassionata, mistica. Andréj sente «quello straniarsi completo da ogni cosa umana che è tremendo per un uomo vivo» (1145) e si schianta nel momento in cui la felicità sembra di nuovo possibile: «“Sì, era la morte. Sono morto: mi sono svegliato. Sì, la morte è un risveglio”. A un tratto l’anima sua s’illuminò»…(1152). Il dolore che rimane in chi lo ama è paragonabile solo a quello descritto in Albertine disparue e tuttavia in Tolstòj la felicità è un desiderio troppo grande, è la meta stessa a cui tende ogni cosa e sempre essa rinasce dalle ceneri di qualunque tragedia: «Ma una piena, assoluta tristezza è altrettanto impossibile come una piena, assoluta gioia» (1259) e in Nataša, nella principessina Marja, in ognuno e in tutti risorge la vita.
Il romanzo è intessuto di magnifiche similitudini e di potenti metafore. I personaggi squallidi e meschini sono assai numerosi e sul loro sfondo meglio si stagliano le figure non tanto positive o forti quanto pure: il conte Pierre Bezúchov è certo il migliore. La sua ingenuità, l’allegria e la serietà, la generosità e l’orgoglio costituiscono alcuni dei caratteri di quell’anima russa che Tolstòj vuole più di ogni altra cosa rappresentare. Non a caso essa si esprime in due personaggi assai lontani per condizione sociale, cultura, autorità: il maresciallo Kutúzov -capo supremo delle forze armate russe- e il giusto Platòn Karatàjev, contadino prigioniero dei francesi, compagno di Pierre, vittima rassegnata della follia della guerra. Entrambi usano non la ragione ma il sentimento, affidano a Dio le loro sorti e quelle della Russia, affondano nel suolo di una civiltà arcaica, rurale, immutabile.
Allo spirito popolare di Kutúzov e di Karatàjev si oppone l’individualismo di Napoleone. Egli è certamente presente in ogni pagina del romanzo, è l’attore che ha affascinato le corti e le masse, è l’ambizione immensa del potere. Egli si illude di guidare la storia e i popoli «mentre invece» -quasi manzonianamente- «una invisibile mano lo conduceva» (1330), la sua cieca arroganza suscita persino compassione e disprezzo. Tolstòj condanna come un volgare alibi il progetto napoleonico inteso a fare dell’Europa «un même peuple» e di Parigi «la capitale du monde» (959). Contro questo empio emblema della hybris il pacifista Tolstòj scrive una vera e propria apologia della guerriglia, esaltando il popolo russo che nel momento supremo ha gettato la spada impugnando il randello per colpire con tutte la possibile forza «finché nella sua anima il sentimento dell’offesa e della vendetta si muti in disprezzo e in pietà» (12)
In generale, Tolstòj si mostra un lucido (anche se sempre di parte) ed efficace analista di questioni strategiche e militari. La descrizione delle battaglie ci fa entrare nel vivo non solo dell’azione ma della percezione stessa di chi le combatteva. Costante è l’analogia fra le leggi della storia e quelle della fisica, fra la strategia militare e i teoremi geometrici anche se la posizione complessiva oscilla fra un peculiare storicismo e la negazione della sua stessa possibilità. “Che cos’è la storia?” è la vera domanda da cui si genera il romanzo. La guerra nazionale russa del 1812, con ciò che la precedette e quanto ne seguì, rappresenta per Tolstòj il laboratorio nel quale tentare una risposta.
Sembra che Tolstòj creda a una astuzia della ragione che muove gli individui ai propri fini anche quando essi ritengono di agire liberamente e soltanto per sé:

In ogni uomo vi sono due aspetti della vita: la vita personale, che è tanto più libera quanto più astratti sono i suoi interessi, e la vita elementare, la vita di sciame, dove l’uomo obbedisce inevitabilmente a leggi che gli sono prescritte. L’uomo vive consciamente per sé, ma serve come uno strumento inconscio per il conseguimento dei fini storici dell’umanità in generale. […] La storia, cioè la vita incosciente e comune, la vita di sciame dell’umanità, si avvantaggia per sé di ogni momento della vita dei re, come di un mezzo per raggiungere i propri fini. (709-710)

La storia è fatta non dagli individui, qualunque sia la loro forza apparente e il loro grado nel mondo, ma dalle masse o meglio dall’insieme sterminato degli uomini che transitano nel tempo. Essa ha delle leggi ma non sono quelle che la storiografia crede di aver individuato. Per quanto deterministiche siano (e Tolstòj ritiene che davvero lo siano) esse rimangono enigmatiche. Il problema chiave diventa quindi il libero arbitrio dei singoli nella infinità dei casi, delle volontà, delle relazioni. È comunque chiaro che non esistono eroi e i cosiddetti grandi uomini sono anch’essi -come ogni altro- determinati da qualcosa che li supera, nettamente li oltrepassa. «Negli avvenimenti storici gli uomini così detti grandi sono etichette che dànno il titolo all’avvenimento e, come le etichette, meno che mai hanno rapporto con l’avvenimento stesso. Ogni loro azione, che a essi sembra volontaria, nel senso storico è involontaria, e si trova legata a tutto il corso della storia ed è determinata da sempre» (711).
A segnare il corso degli eventi a volte sembra essere la divinità, altre la somma delle vite e delle volontà singole, altre ancora qualcosa in cui dio e gli uomini sono compresi ma che li trascende. L’enigma rimane. In ogni caso, una storiografia che voglia essere scientifica dovrebbe porsi l’impossibile scopo di descrivere non l’uno o l’altro avvenimento, non le vicende di singoli personaggi ma «la storia di tutti, di tutti, senza esclusione, gli uomini che hanno partecipato a un dato avvenimento» (1390). Sono alcune delle stesse critiche che Popper rivolge alla “miseria dello storicismo”.
Ma è sul tema del libero arbitrio che la posizione di Tolstòj si complica e anche si confonde. Egli cerca di tenere fermi entrambi i lati del problema. Esclude una assoluta libertà come l’assoluta necessità. La prima è in gran parte un’illusione dovuta all’ignoranza di tutte le cause che concorrono a un certo fenomeno e alla sua vicinanza temporale rispetto a chi lo osserva. Quanto più ci si allontana da un’azione, tanto meno libera appare la scelta di chi l’ha compiuta. La fisicità stessa, la trama spaziale nella quale siamo intessuti ci determina in qualche modo. Posso certo decidere di sollevare e abbassare la mia mano ma lo farò nella direzione in cui essa incontra meno ostacoli: «Per rappresentarci un uomo libero dobbiamo rappresentarcelo fuori dello spazio, il che evidentemente è impossibile» (1417). D’altra parte «rappresentarsi un uomo che sia privo di libertà non è possibile, se non rappresentandoselo privo di vita» (1409). L’enigma, ancora una volta, rimane ed è efficacemente riassunto da Tolstòj:

Così, per rappresentarci l’azione di un uomo sottomesso alla sola legge di necessità, senza libertà, dobbiamo ammettere la conoscenza di una infinita quantità di condizioni spaziali in un infinito periodo di tempo e per un’infinita serie di cause. Per rappresentarci un uomo assolutamente libero, non sottoposto alla legge di necessità, dobbiamo rappresentarcelo fuori dello spazio, fuori del tempo e indipendente dalle cause. (1419)

Chi dunque può conoscere la storia, sia come libertà che come necessità? Soltanto un dio. Tolstòj prende atto della rivoluzione storiografica che non vede più gli eventi come determinati dalla volontà di un singolo, ne condivide in parte le posizioni ma rifiuta che da questi presupposti discenda la negazione dell’anima, della legge morale e di dio. E lascia aperto il suo romanzo non soltanto nella sua dimensione teoretica ma anche in quella narrativa. I personaggi finalmente sereni, di quell’unica felicità concessa agli umani, trascorrono le loro esistenze e intessono i loro rapporti in un modo che potrebbe far continuare il libro all’infinito. Esso si deve fermare. Ma solo dopo aver in un contrappunto continuo di pubblico e privato, di storico e di personale, di guerra e di pace, creato un’epopea, descritto un mondo, scolpita la gioia.

Amanti

Just
di David Lang
(da After Song of Songs)
Trio Mediaeval

justUn incantamento di note e litanie in cui cullarsi in apparenza per sempre. Un mantra che potrebbe durare e ripetersi, coniugando minimalismo, serialità, vocalità antiche e tecnologie elettroniche.
Il Cantico dei Cantici -di cui Just è una rivisitazione in chiave contemporanea- è una delle poche parti del libro ebraico che meritano di essere lette e amate. La sensualità intima e gloriosa dell’antico testo viene esaltata e moltiplicata da queste voci avvolgenti, insieme gelide e brucianti. Qualcosa del genere dovette ascoltare Odisseo mentre era legato all’albero della sua nave.
Molto bella ed efficace la soluzione trovata per distinguere le voci dell’amante e dell’amata e per unificarle nel Noi. Se il sentimento amoroso può avere una sua realizzazione, deve essere simile a queste voci che rimangono differenti mentre si fanno una sola cosa; l’intimità, la potenza, la purezza del desiderio trovano la loro completa sanzione in un dire evocativo, essenziale, fermo e categorico, unico, superiore e preferibile a tutto. Sembra che gli amanti non possano fare altro che indicarsi e contemplarsi l’un l’altro là dove si realizza l’utopia dell’amore.

[audio:Just.mp3]

«Dance me very long»

Dance Me to the End of Love
di Leonard Cohen
(da Various Positions, 1984)

«Dance me to your beauty with a burning violin / Dance me through the panic ’til I’m gathered safely in / Lift me like an olive branch and be my homeward dove / Dance me to the end of love […] Dance me to the wedding now, dance me on and on / Dance me very tenderly and dance me very long»
Una danza malinconica e tenace. Cohen afferma di averla pensata anche in relazione ai campi di sterminio ma l’importante è che si tratta di parole e di ritmi capaci di esprimere tutto il desiderio degli amanti di giungere ai limiti del loro sentimento, di esplorare lo spazio e il tempo come un riverbero di energia nel quale finalmente congiungersi. È il vino di cui parla il mistico fiammingo Ruysbroeck, un vino che inebria al solo nome.

[audio:Dance_Me.mp3]

Archetipi / Il Doppio

Il racconto dei racconti
di Matteo Garrone
Italia-Francia-Gran Bretagna, 2015
Con: Salma Hayek (Regina), Christian Lees (Elias), Johan Lees (Jonah), Franco Pistoni (negromante), Toby Jones (Re), Bebe Cave (Viola), Guillaume Delaunay (L’orco), Vincent Cassel (Re), Shirley Henderson (Imma), Hayley Carmichael (Dora), Stacy Martin (Dora ringiovanita).
Trailer del film

Nel cuore dei Seicento Giambattista Basile scrive il suo Cunto de li cunti overo lo trattenemiento de peccerille ma non è ai bambini che si rivolge il film che Matteo Garrone ha costruito traendolo da tre delle 50 fiabe del libro di Basile: La reginaLa pulceLe due vecchie.
Una regina desidera a ogni costo il figlio che non arriva. Si affida a un negromante che fa nascere da lei un bambino gemello di un altro concepito da una serva. Il legame tra i due fratelli è più forte di quello verso la madre. Un re ha passione soltanto per la sua pulce e dà con leggerezza la figlia in sposa a un orco. Un altro re, che si accoppia senza posa, si innamora di una voce, che in realtà è quella di due anziane laide. Quando se ne accorge diventa furioso, sino a che una delle due gli ricompare davanti giovane e bellissima. Ma per quanto tempo?
È nel bosco, naturalmente, che gli enigmi si sciolgono rimanendo tuttavia sempre il labirinto nel quale la regina insegue il figlio avuto dal cuore del drago. Quale drago? Quello delle passioni umane più cupe e più profonde. Quello del possesso dal quale ogni amore scaturisce e a cui ogni affetto si riconduce. Il Figlio è parte del corpo della Madre, al di fuori di esso non può neppure essere concepito. Il Re vorrebbe che la Figlia rimanesse sempre accanto a lui, come la pulce che alleva in segreto. Questo padre all’apparenza così innocuo è tanto orco quanto l’Orco al quale alla fine la consegna. Il corpo della femmina è l’ossessione di un giovane Re, purché sia un corpo giovane e splendente. Il tempo che va e viene nel corpo della vecchia/giovane Dora è l’inganno oltre il quale gli occhi del sovrano non sanno vedere. E quando vedono è l’orrore.
Il Doppio è una cifra della favola. I due gemelli sono nati da madri differenti ma risultano indistinguibili persino agli occhi delle loro genitrici. Il Padre e l’Orco si scambiano l’animalità che li intesse. Le due vecchie sorelle sono disposte entrambe a qualunque atroce lifting pur di negare la potenza del divenire.
L’ente che si sdoppia, l’ente che vorrebbe tornare al luogo originario nel quale il labirinto dell’esistere era la Lichtung, la luce aperta dello spazio senza entropia. L’ente che vorrebbe fare dell’Altro, della differenza e dell’alterità una parte, un riflesso, uno sguardo di se stesso, unico, solitario, signore del tempo e dello spazio. Ma l’umano è una solitudine identitaria che può vincere il suo gelo soltanto al calore della differenza. Anche questo dicono gli archetipi che intessono i racconti di ogni popolo e che li rendono così lontani e insieme così vicini, vicini sino all’inquietudine.
Il genere fantasy è qui pura superficie, pretesto. Questa è un’opera totalmente carnale, è un film assolutamente tragico.

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