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«Architetto della vita felice»

«O tenebris tantis tam clarum extollere lumen / qui primus potuisti inlustrans commoda vitae, / te sequor, o Graiae gentis decus». Così Lucrezio si rivolge al suo maestro nell’incipit del terzo libro del De rerum natura (1-3): «O tu, che in mezzo a così grandi tenebre primo potesti / levare una luce tanto chiara, illuminando le gioie della vita, / io seguo te, o onore della gente greca» (trad. di Francesco Giancotti).
Gioia della vita è la libertà, che per Epicuro significa assenza di timori sul presente e sul futuro, significa serenità. Il mondo fisico è per questo filosofo il presupposto scientifico dell’etica. Si tratta di un universo atomistico, quantitativo, in cui il movimento degli atomi nel vuoto costruisce e dissolve mondi. La casualità fisica e la libertà del volere sono le conseguenze della παρέγκλισις e ἔγκλισις -il «clinamen principiorum» di Lucrezio (De rerum natura, Liber II, v. 292)-, la piccola ma decisiva deviazione e spostamento degli atomi nel loro movimento dentro lo spaziotempo.
Gli strumenti metodologici di cui Epicuro si serve per delineare questo universo sono l’inferenza, l’analogia, la spiegazione multipla. Da una esperienza nota, mediante accostamenti e deduzioni, si perviene a formulare varie ipotesi su ciò che non è possibile cogliere empiricamente.
In questo mondo pervaso di razionalità, gli dèi costituiscono una comunità felice, imperturbabile, che non distribuisce premi o castighi e che in nulla deve preoccupare i mortali. Tanto più che la persona umana è composta di due elementi tra di loro inseparabili, è un indissolubile «complesso di ψυχή e σῶμα, dotato di determinati moti» (A Erodoto, §§ 65-66, p. 171, in Opere, a cura di Margherita Isnardi Parente, Utet 1983; le successive citazioni sono tratte da questo volume) e dunque «non bisogna temere le pene degli inferi perché le anime con la morte si dissolvono né vi sono inferi di sorta» (Testimonianze, Lattanzio, Div. inst., III, 17,42; p. 364).
Se così è, neppure il morire può diventare causa d’angoscia. Esso rappresenta infatti il momento di dissoluzione del composto umano, che nasce dalla materia e alla materia è destinato a tornare. Della morte è dunque impossibile fare esperienza «dal momento che, quando noi ci siamo, la morte non c’è, e quando essa sopravviene noi non siamo più» (A Meneceo, § 125, p. 198). E dunque il saggio «del tempo cerca di godere non il più lungo, ma il più dolce» (Ivi, § 126, p. 199).
Avendo compreso come è fatto il mondo e quali forze lo determinano, eliminata la paura degli dèi, della morte e di ciò che la segue, ci si può volgere a un piacere che è frutto di moderazione, libertà dalle passioni, rifiuto di ogni ὕβρις: «La saggezza è sobrietà e ordine nei desideri», come sintetizza Plutarco nel Gryllus (6, 989 b; p. 449). «Quando dunque diciamo che il piacere è un bene, non alludiamo affatto ai piaceri dei dissipati che consistono in crapule, come credono alcuni che ignorano il nostro insegnamento o lo interpretano male; ma alludiamo all’assenza di dolore nel σῶμα, all’assenza di perturbazione nella ψυχή» (A Meneceo, § 131, p. 201).
La serenità è possibile, da essa nasce e a essa mira la filosofia. Serenità, ἀρετή e sapere sono inseparabili; è questo il tratto socratico di Epicuro. E bisogna pertanto, quando è necessario, saper rinunciare, saper capire, essere padroni di se stessi. Per questo «il saggio è sempre felice» (Testimonianze, Cicerone, Tusc. disp., V, 10,31; p. 499).
E dunque la più esatta definizione di Epicuro l’ha forse data Cicerone quando lo definisce non soltanto «inventore veritatis» -scopritore della verità- ma anche «architecto beatae vitae», architetto della vita felice (De finibus, I, 32; p. 413).

 

Si trasfigurava in gloria

Inside Magritte
Milano – Fabbrica del Vapore
A cura di Julie Waseige
Sino al 10 febbraio 2019

Lo dico subito: una mostra di pittura senza nemmeno un quadro lascia perplessi. Ma se c’è un artista che può essere attraversato mediante strumenti multimediali, è Magritte. E questo anche perché fu lo stesso Magritte in alcuni suoi brevi film a tentare di dare movimento ai suoi quadri, di ripensarli come video.
La milanese Fabbrica del Vapore si presta benissimo all’operazione. Nello spazio di ingresso svetta una grande bombetta, intorno alla quale si squadernano riproduzioni a parete del magnifico Empire des Lumières e di Golconda, gli omini vestiti di tutto punto e sospesi nel cielo azzurro come gocce di pioggia nello spazio. Nella sala successiva campeggiano degli schermi -accompagnati da titoli e frasi di Magritte- sui quali in ordine cronologico si susseguono le opere nella molteplicità delle loro fasi, dagli inizi astrattisti al surrealismo, dal periodo vache alle continue invenzioni oniriche, ossimoriche, ludiche. Il cuore dell’esposizione è una grande sala entrando nella quale si sta dentro le tele, in un flusso continuo che si dipana alle pareti, sul pavimento, dentro gli specchi, dentro la musica.
Scorre la varietà e molteplicità dell’opera di Magritte, la sua ricchezza linguistica ed espressiva, la realtà oltre la realtà, l’esaltazione della luce, delle ombre, delle figure, dei vuoti. Gli oggetti e i soggetti dei quadri acquistano movimento, diventano il dinamismo che è loro intrinseco, la tridimensionalità alla quale sembrano aspirare sin dalla loro concezione. Anche se la pittura non è cinema e non può diventare video, si tratta di un’immersione in ogni caso divertente e dissacrante come voleva essere l’arte di Magritte nella sua paradossale precisione della figura, nel rigore geometrico, nel suggerimento teoretico ed emotivo che vuole offrire a chi la osserva. Come si può forse vedere in questo brano:
«Tante volte dentro di sé e nella realtà che chiamano oggettiva se ne era andato. E anche lei, tante volte dentro di sé e nella realtà che chiamano oggettiva se ne era andata. Ma il rischio per lei era troppo grande. Lo sapeva. Glielo aveva anche detto mentre lo abbracciava: ‘immenso è il tuo orgoglio, lo so. Sei capace di stare senza respiro pur di non dire il bisogno che hai di me. Sei capace di morderti la vita prima che la morte del tuo io ti si pari innanzi nell’umiliazione della supplica. Lo sapevo già, dio della mia vita, dai tuoi racconti di chi non hai più amato dopo essere state per te tutto l’universo. Non le hai più volute neppure leggere negli inutili fogli della loro speranza. Per questo ogni volta che l’impulso mi è nato di lasciarti, ho messo le guardie alla mia follia e ho taciuto’. Così diceva, impaurita sorridente e forte del suo incanto. Ma alla fine era caduta nell’errore che pure conosceva. Ed era stata sintesi di tutto, lei, un riassunto dell’abbandono nel quale avevano tentato di costringerlo e che invece ogni volta e matematicamente si trasfigurava in gloria».
Magritte è anche questa gloria.

Ça va?

Hemingway
di Paolo Conte
Appunti di viaggio (1982)

[audio: https://www.biuso.eu/wp-content/uploads/2018/11/Conte_Hemingway.mp3]

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Et alors, Monsieur Hemingway, ça va?
Era persona dura e anche per questo alla lunga le donne non lo tolleravano. Ma non molto gliene importava. E ripeteva impettito e imperterrito a se stesso «conduco le persone a un’altezza tale da far venir loro le vertigini, più non reggono e tornano là da dove le ho tratte». Superbo e sciocco come il secolo. Così si ritrovava solo, poveretto. Ma ora no, ora sentiva tutta la felicità del liberarsi, del librarsi la vita ad altri istanti, del porre una distanza irrimediabile tra sé e i lati di lei che non amava. Che da nulli, all’inizio, o solo in germe, si erano moltiplicati come i pani, cresciuti come alberi fronzuti, come bestie da preda alla riscossa. E avevano divorato il loro amore. Sempre così, sempre così funziona, non lo sai? Bisogna possedere almeno un poco di nobiltà per continuare a rispettare una persona che ti ama molto e che si prostra ai tuoi piedi, al tuo cuore. Lei così nobile non era. E più non rispettava i suoi silenzi. Non rispettava la vigile attenzione, il sorriso l’affetto il desiderio. Ora diceva a se stesso -sempre così sempre così la va-, si diceva che lei neppure era esistita, che l’aveva plasmata dal suo cuore, dal desiderio infinito dell’amore. E quando la statua l’illusione e il triste inganno s’erano dispersi come vento, nulla era rimasto tra le mani ma soltanto la nostalgia di una che mai era stata. E di lui che quel nulla aveva amato. Si ama sempre questo nulla, infine.
Et alors, Monsieur Hemingway, ça va mieux?


[Foto di Cartier-Bresson, La Lune au Bois de Boulogne, particolare]

Revenge

Piccolo Teatro Strehler – Milano
La tragedia del vendicatore
(The Revenger’s Tragedy, 1606)
di Thomas Middleton
Traduzione di Stefano Massini
Con Ivan Alovisio (Lussurioso), Alessandro Bandini (Junior), Marco Brinzi Giudice), Fausto Cabra (Vindice), Martin Ilunga Chishimba (Direttore del carcere), Christian Di Filippo (Supervacuo), Raffaele Esposito (Ippolito), Ruggero Franceschini (Vescovo), Pia Lanciotti (Duchessa / Graziana), Errico Liguori (Spurio), Marta Malvestiti (Castizia), David Meden (Ambizioso), Massimiliano Speziani (Duca), Beatrice Vecchione (medico)
Scene e costumi di Nick Ormerod
Drammaturgia e regia di Declan Donnellan
Sino al 16 novembre 2018
Trailer dello spettacolo

Nomi parlanti quelli dei personaggi -Vindice, Ambizioso, Spurio, Castizia, Lussurioso…-; trame intricate, grottesche e crudeli, dentro le quali la natura umana si incarna, emerge e si svela più feroce di qualunque altro animale; uno sguardo disincantato, sarcastico e rigido verso la Corte -qualunque Corte- e i suoi intrighi che fottono e cummannano.
Per The Revenger’s Tragedy di Thomas Middleton e per il suo regista Declan Donnellan «possono essersi, in una certa misura, modificate talune strutture politiche e sociali, ma di certo non la natura umana» (La tragedia del vendicatore, Piccolo Teatro di Milano, 2018, p. 12). Il risultato è la perduta follia delle passioni, la loro dismisura che -insieme al continuo riferimento al peccato- fa di questa tragedia della vendetta un’opera profondamente cristiana. Rispetto alla violenza pur ben presente nelle tragedie greche, infatti, qui si vede tutto. Nessuna discrezione, nessun racconto di fatti atroci -come è norma nel teatro antico- ma tali fatti in atto: copule, torture, pezzi di carne tagliati e insacchettati, teschi di fidanzate uccise che avvelenano i loro uccisori, coltelli dentro i corpi. Sino a chiudersi su un sabba nel quale la vendetta dissolve se stessa nella morte di tutti.
La tragedia del vendicatore è dunque una danza macabra, genere tipicamente cristiano; si vedano, ad esempio, le feste messicane della morte, con le quali ha inizio anche 007 Spectre di Sam Mendes. Un genere con il quale e dentro il quale quella concezione del mondo svela in modo esplicito il nichilismo dal quale è tutta attraversata, l’intera e radicale negazione di questo mondo in vista di un altro del quale essere davvero cittadini. È il tipo di tragedia che sarebbe piaciuto all’autore del De civitate Dei. Un contemporaneo, amico un poco più anziano e collaboratore di Thomas Middleton, Shakespeare, mostra ancora una volta la sua unicità anche in questo: le sue tragedie accadono infatti in un mondo nel quale il cristianesimo sembra non esserci mai stato.
In ogni caso lo spettacolo in scena sino al 16 novembre allo Strehler è coinvolgente, danzante e divertente. Molto ben recitato, tiene desta l’attenzione sulla natura umana.

«Io sono Don Chisciotte»

L’uomo che uccise Don Chisciotte
(The Man Who Killed Don Quixote)
di Terry Gilliam
Gran Bretagna – Spagna, 2018
Con: Jonathan Price (Don Chisciotte), Adam Driver (Toby), Joana Ribeiro (Angelica), Olga Kurylenko (Jacqui), Stellan Skarsgård (Il boss), Óscar Jaenada (lo zingaro), Jordi Mollà (Alexei Miiskin)
Sceneggiatura di Tony Grisoni e Terry Gilliam
Trailer del film

Siamo noi. Ciascuno con le proprie ossessioni, con le memorie continuamente cangianti, con i desideri possibili e impossibili, con i ritmi temporali della vita che a volte corrono, rallentano, mutano, ci portano nell’altrove dell’euforia e nel consueto del disincanto. Don Chisciotte siamo noi, quando dietro le  nostre abitudini, mestieri e costrizioni appare un sogno. Per lo più si chiama amore ma può essere ed è un qualsiasi traguardo assoluto, un raggiungimento, un’avventura. Allora ambienti e personaggi di solito così comuni si trasfigurano nello spazio della possibilità e della meraviglia. E il mondo diventa interessante. Diventa immaginazione, parola, letteratura, romanzo.
Terry Gilliam giunge a uno dei nuclei della storia inventata da Cervantes, a uno degli elementi che rendono l’Ingenioso Hidalgo Don Quijote de la Mancha una figura del sempre. Il suo film è tante cose: è cinema dentro il cinema, è fusione del paesaggio interiore con quello orografico, è gioco, è ironia, è tragedia. The Man Who Killed Don Quixote lascia il retrogusto amaro di una sconfitta ma rimane aperto alla potenza di un archetipo che non muore. Fedele al romanzo di Cervantes e insieme a fondo stravolgendolo, il film ha la capacità di transitare su piani ontologici diversi senza dare alcuna impressione di forzatura e di artificio ma come se fosse del tutto naturale muoversi in modo immediato e veloce tra luoghi differenti, tempi lontani, oggetti che trasmutano, veli che si squarciano, miserie riscattate, miserie ripetute. È infatti naturale tutto questo e lo chiamiamo vita.
«Io sono Don Chisciotte della Mancha».

Dickinson

A Quiet Passion
Regia e sceneggiatura di Terence Davies
Gran Bretagna – Belgio – USA, 2017
Con: Cyntia Nixon (Emily Dickinson), Jennifer Ehle (Vinnie Dickinson), Keith Carradine (Edward Dickinson), Duncan Duff (Austin Dickinson), Catherine Bailey (Vryling Buffam), Emma Bell (Emily Dickinson da giovane), Joanna Bacon (La madre Emily Norcross)
Trailer del film

Un poeta è uno straniero, sempre. Straniero alla paura, straniero alla serietà, straniero alle consuetudini, straniero alla morale. Lo è anche Emily Dickinson (1830-1886), che già in collegio era consapevolmente estranea alla fede cristiana del suo mondo e poi si fece libera nell’autoreclusione dentro la casa paterna. In questo mondo le si sbriciola la vita, certo. Le si sbriciola nella famiglia tanto amata ma con la quale dovette in ogni caso lottare per difendere la propria anima. Le si sbriciola nel desiderio mai appagato di un umano con il quale essere una cosa sola. Le si sbriciola nella morte dei genitori, figura e promessa della propria. Le si sbriciola nella malattia e nella fine. Le si sbriciola nella quiet passion del divenire. Eppure gli attimi che cospargono la terra cadendole dalle dita sono pieni di una luce inconsueta, sono colmi della libertà di chi comprende l’essere e lo sa dire.
Il film di Terence Davies narra questa esistenza piena e solitaria con una sceneggiatura scolpita di sentenze  e affilata di colori. E con il coraggio certamente inconsueto di mostrare due agonie, due moribonde mentre muoiono non colpite da pallottole o da metafore ma tremanti, soffocate, stravolte, dissolte dal limite: l’agonia della madre di Emily e poi quella di lei.
Intriso dei versi di Dickinson, anche questo film conferma tuttavia che l’esistenza di un poeta non si può rappresentare. La vita di un poeta sono le sue parole, soltanto le sue parole. Scavate negli istanti, estratte dal niente, tremanti dentro il corpo, donate dagli dèi. Soltanto le parole.

Tulipani

Tulip Fever
(Titolo italiano: La ragazza dei tulipani)
di Justin Chadwick
Gran Bretagna – USA, 2017
Con: Alicia Vikander (Sophia Sandvoort), Christoph Waltz (Cornelis Sandvoort), Dane DeHaan (Jan van Loos), Holliday Grainger (Maria), Judi Dench (La badessa), Jack O’Connell (II) (Willem Brok)
Trailer del film

Sempre pessima la consuetudine italiana non soltanto di doppiare sistematicamente i film girati in altra lingua ma anche di modificarne i titoli. In questo caso l’originale Tulip Fever è assai più descrittivo di che cosa il film sia, ponendo al centro non la protagonista umana ma i fiori che nell’Olanda del Seicento crearono una bolla speculativa molto simile alle strutture e ai rischi della finanza del XXI secolo.
Sui tulipani, infatti, si investiva prima ancora che fossero fioriti. La rarità di alcune specie rendeva il bulbo di un singolo fiore più prezioso dell’oro. Sembrava che dai tulipani si generasse una ricchezza senza fine, come per i titoli azionari, i derivati e le altre espressioni contemporanee di una finanza tutta cartacea e drogata, una finanza febbrile appunto. Febbre che si rivelò mortale, portando alla rovina intere famiglie, così come è accaduto negli USA e poi in tutto il mondo con la crisi immobiliare e bancaria del 2007-2009, della quale noi semplici cittadini continuiamo a pagare le conseguenze. Allo stesso modo della Tulip Fever olandese, è stata infatti e continua a essere mortale l’odierna crematistica, presentata invece dai quotidiani e da altri media -finanziati dalle banche- come un modo ovvio di utilizzare il denaro e di moltiplicarlo.
Su questo sfondo del tutto attuale si staglia la vicenda dell’orfana Sophia, del suo anziano marito e commerciante Cornelis, dei vani sforzi di avere un erede, dell’amore tra la ragazza e il pittore incaricato da Cornelis di ritrarli. Una storia d’amore come tante che da un certo momento in poi comincia però a crescere nella inverosimiglianza, negli intrichi e intrighi, in un finale chiaramente artificioso.
Ciò che rimane interessante -e che spiega perché il titolo originale è più esatto- è che tutti i personaggi, compresa la determinata badessa del convento-orfanotrofio di Sophia, si rivolgono ai tulipani nei loro progetti di vita, nei loro sogni d’amore, nelle loro fortune e nelle loro disgrazie.
La messa in scena è sontuosa, soprattutto gli interni, e assai cromatica. I calvinisti olandesi sono sempre quelli descritti da Max Weber: persone convinte che la moltiplicazione del denaro sia un segno quasi certo che il Dio cristiano li ami. Da qui è germinata la profonda ingiustizia della modernità, da questa implacabile visione che coniuga l’esigenza della salvezza con la centralità del denaro. Se i nazareni costituiscono una setta da sempre pericolosa per l’equilibrio del mondo, la loro variante puritana si è mostrata la più rovinosa. Se «li riconoscerete dai loro frutti. Si raccoglie forse uva dalle spine, o fichi dai rovi? Così, ogni albero buono fa frutti buoni, ma l’albero cattivo fa frutti cattivi. Un albero buono non può fare frutti cattivi, né un albero cattivo fare frutti buoni» (Mt., 7, 16-18), il frutto più maturo del calvinismo -gli Stati Uniti d’America- era già tutto dentro l’ossessione olandese per i tulipani e per i favolosi guadagni da essi garantiti.

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