Nel periodo natalizio sono apparsi dei manifesti con la seguente scritta: «Non è festa senza i marò liberi. L’Italia alzi la voce». Firmato: ‘Alleanza Nazionale’. Dunque non ci sarebbe stata festa per l’intero popolo italiano senza la rinuncia da parte dell’India a processare due militari accusati di un odioso e gratuito omicidio di classe e di etnia. Dalle loro ben protette navi militari, infatti, costoro avrebbero sparato a degli inermi pescatori indiani.
Nulla invece è stato detto, da parte di questi così solerti ‘patrioti’, sull’orribile morte preceduta da efferate torture di Giulio Regeni, un giovane ricercatore massacrato dalle squadre della morte agli ordini del governo militare egiziano. Anche Regeni era un italiano ma mentre i due che conducono una tranquilla e dispendiosa vita ‘rinchiusi’ in alberghi indiani di lusso (a spese dei nostri contribuenti) sono dei militari, Regeni era un intellettuale, uno studioso, un uomo che cercava di capire con gli strumenti scientifici le modalità e le strutture della dittatura egiziana guidata dal generale Abd al-Fattah al-Sisi.
Dittatura nata dall’inganno -fomentato dalla Nato- delle cosiddette ‘primavere arabe’. Dittatura esaltata -come quella dell’Arabia Saudita e altre- dall’abominevole presidente del consiglio e segretario del Partito Democratico. È con i massacratori egiziani che il nostro Paese dovrebbe «alzare la voce». Ma alla spregevole destra italiana, che sia quella degli eredi del fascismo o quella tecnocratico-americanista del Partito Democratico, non interessano gli uomini liberi, non interessano le vittime di un potere dittatoriale come quello dell’alleato egiziano. Interessa invece la difesa degli assassini in uniforme.
Anche per questo il patriottismo delle destre è infame.
Le recenti elezioni politiche portoghesi hanno visto la vittoria di una sinistra critica nei confronti dell’Europa delle banche. È bastato questo perché il presidente della Repubblica -Anibal Cavaco Silva- attuasse una sorta di colpo di stato, affidando la formazione del governo alle forze sconfitte, favorevoli alla Troika (Commissione Europea, Banca Centrale Europea, Fondo Monetario Internazionale).
Come si sa, in Grecia la volontà dei cittadini è stata calpestata in vari modi.
Se in Italia il Movimento 5 Stelle vincesse le elezioni, ipotizzo che la conseguenza sarebbe un colpo di stato anche violento, orchestrato dalle massonerie e dalle mafie che dominano i partiti -in primo luogo Forza Italia e il Partito Democratico-, le quali stanno letteralmente spolpando la nostra società e la nostra economia.
Sono, questi, alcuni degli eventi che provano come di fatto la democrazia in Europa non esista più, sostituita dalla Troika, dai criminali della finanza. Un processo che consegue dalla vittoria del liberalismo totalitario, il quale in tutto il mondo sta distruggendo con inesorabile miopia culture, differenze, libertà, popoli, pensiero, economie. Lo fa non soltanto con le armi che uccidono i corpi ma anche e soprattutto con l’enorme «manipolazione di massa che è in atto nel mondo occidentale con lo scopo di annientare tutti gli anticorpi in grado di ostacolare la diffusione del pensiero unico liberale, molla e, nel contempo, veicolo del più grande progetto di colonizzazione e sradicamento che l’umanità ha conosciuto» (M. Tarchi, in Diorama letterario, n. 324, p. 3).
È questo imperialismo liberista a produrre fenomeni apparentemente antitetici ma di fatto convergenti verso il tramonto del pensiero. Così nasce anche l’ISIS, che ha tra i suoi scopi il cancellare la memoria storica e i documenti antropologici di intere civiltà la cui struttura è stata o è diversa rispetto all’economicismo ultraliberista. E infatti, a proposito di Palmira e di altre grandi città, Tarchi ha ragione a osservare che
non vi è dubbio che chi rispondesse che, per quanto tragica sia la perdita di vite umane, la cancellazione della testimonianza di una civiltà fiorita due millenni orsono sarebbe un crimine ancor più orrendo, perché attenterebbe alla memoria collettiva di interi popoli, che trascende la somma delle individualità che li hanno composti, sarebbe inchiodato al muro della vergogna mediatica e trattato alla stregua di un cinico barbaro, privo di sentimenti e di spirito civico (Ivi, p. 1).
Analoga a tale devastazione è quella che gli organismi finanziari dominanti esercitano sui lacerti di democrazia appesi al gancio dell’estremismo liberista. Assai chiaro è quanto «ha detto senza fronzoli Jean-Claude Juncker, portavoce degli strangolatori liberali e in subordine presidente della Commissione europea, ‘non ci può essere scelta democratica contro i trattati europei’ (sic)» (A. de Benoist, ivi, p. 6).
Una frase che ha il pregio della chiarezza.
Lo stile, nella politica come nella vita, dice molto delle persone e dei movimenti.
Lo stile del Partito Democratico e del suo Duce è ben descritto in un editoriale di Alberto Burgio, uscito sul manifesto di oggi. In esso Burgio evidenzia con ottime argomentazioni che cosa siano il «thatcherismo plebeo» del Partito Democratico e lo «lo squadrismo verbale del novello Farinacci» che lo guida, godendo dell’entusiastico sostegno -dentro il Partito- di «un uditorio di facinorosi, di frustrati, di smaniosi di vincere con qualsiasi mezzo — magari vendendosi e svendendosi nelle aule parlamentari».
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Ne ha dette, ne dice giornalmente tante e tali che non ci si dovrebbe più far caso. Ma una delle ultime esternazioni del presidente del Consiglio urta i nervi in modo particolare, sì che si stenta a dimenticarsene. «I sindacati debbono capire che la musica è cambiata», ha sentenziato con rara eleganza a margine dello «scandalo» dell’assemblea dei custodi del Colosseo. Non sembra che la dichiarazione abbia suscitato reazioni, e questo è di per sé molto significativo. Eppure essa appare per diverse ragioni sintomatica, oltre che irricevibile.
In effetti la rozzezza dell’attacco non è una novità. Come non lo è il fatto che il governo opti decisamente per la parte datoriale, degradando i lavoratori a fannulloni e i sindacati a gravame parassitario che si provvederà finalmente a ridimensionare. È una cifra di questo governo un thatcherismo plebeo che liscia il pelo agli umori più retrivi di cui trabocca la società scomposta dalla crisi. Sempre daccapo il «capo del governo» si ripropone come vendicatore delle buone ragioni, che guarda caso non sono mai quelle di chi lavora. E si rivolge, complice la grancassa mediatica, a una platea indistinta al cui cospetto agitare ogni volta il nuovo capro espiatorio.
Sin qui nulla di nuovo dunque. Nuova è invece, in parte, l’ennesima caduta espressiva. Un lessico che si fa sempre più greve, prossimo allo squadrismo verbale di un novello Farinacci. Così ci si esprime, forse, al Bar Sport quando si è alzato troppo il gomito. Se si guida il governo di una democrazia costituzionale non ci si dovrebbe lasciare andare al manganello.
«La musica è cambiata», «tiro dritto» e «me ne frego». Senza dimenticare i beneamati «gufi». Quest’uomo fu qualche mese fa liquidato come un cafoncello dal direttore del più paludato quotidiano italiano. Quest’ultimo dovette poi prontamente sloggiare dal suo ufficio, a dimostrazione che il personaggio non è uno sprovveduto. Sin qui gli scontri decisivi li ha vinti, e non sarebbe superfluo capire sino in fondo perché. Ma la cafoneria resta tutta. E si accompagna alla scelta consapevole di selezionare un uditorio di facinorosi, di frustrati, di smaniosi di vincere con qualsiasi mezzo — magari vendendosi e svendendosi nelle aule parlamentari.
Secondo un’idea della società che celebra gli spiriti animali e ripudia i vincoli arcaici della giustizia, dell’equità, della solidarietà.
Di fatto il tono si fa sempre più arrogante, autoritario, ducesco. Gli altri debbono, lui decide. Ne sa qualcosa il presidente del Senato, trattato in questi giorni come quantità trascurabile. E qualcosa dovrebbe saperne anche il presidente della Repubblica, che evidentemente ha altro a cui pensare, visto che non ha fatto una piega — un silenzio fragoroso — quando Renzi ha minacciato di chiudere il Senato e trasformarne la sede in un museo — per fortuna non più in «un bivacco di manipoli». E forse proprio qui sta il punto, ciò che non permette di liberarsi di questo fastidioso rumore di fondo.
Questa ennesima villania non aggiunge granché a quanto sapevamo già dell’inquilino di palazzo Chigi, del suo profilo, del suo, diciamo, stile. Dice invece qualcosa di nuovo e d’importante su noi tutti, che ci stiamo assuefacendo, che ci disinteressiamo, che registriamo e accettiamo come normale amministrazione una volgarità e una violenza che dovrebbero destare allarme e forse scandalizzare. Tanto più che non si tratta, almeno formalmente, del capo di una destra nerboruta.
Nessuno ha protestato, nessuno ha reagito: men che meno, ovviamente, gli esponenti della «sinistra interna» del Pd […]. Quest’ultima aggressione si armonizza appieno con la «musica» che questo governo suona da quando si è insediato. Ma la forma è sostanza, soprattutto in politica. E il sovrappiù di aggressività e di volgarità che la contraddistingue stupisce non sia stato nemmeno rilevato.
Evidentemente ci va bene essere governati da uno che — al netto delle sue scelte, sempre a favore di chi ha e può più degli altri — non sa aprir bocca senza minacciare insultare sfottere ridicolizzare.
[…]
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L’intero articolo si può leggere sul manifesto.
Intere città amministrate da delinquenti, i quali quando vengono scoperti rivendicano la loro sistematica attività di latrocinio come fosse un diritto, una volta che sono stati eletti. Interi stati in mano a corrotti assoluti, i quali stipulano accordi con qualunque potere mafioso e criminale pur di continuare a governare in nome degli interessi delle loro persone e dei loro gruppi. Così, ad esempio, Matteo Renzi difende Giuseppe Castiglione, sottosegretario all’agricoltura accusato di vari reati in merito alla gestione dei centri di accoglienza dei migranti in Sicilia. Castiglione è di Bronte, come me, è genero di Pino Firrarello, ex senatore e da poco ex sindaco del paese, il quale amministrava Bronte già quando ero studente liceale. Firrarello è poi stato deputato regionale e deputato nazionale, transitando dalla Democrazia Cristiana ai vari partiti nati dalla sua dissoluzione, aderendo a Forza Italia e ora al Nuovo Centrodestra alleato di ferro del Partito Democratico, nel quale sembra che Castiglione e Firrarello abbiano intenzione di entrare.
Interi continenti sotto il tallone delle banche, del Fondo Monetario Internazionale, della finanza impersonale e feroce, per la quale i governi sono legittimi soltanto se ubbidiscono alle loro volontà e devono invece essere cancellati se difendono gli interessi dei popoli che li hanno eletti.
Quanto accade nella vita politico-mafiosa della piccola Italia e nelle dinamiche finanziarie dell’Europa mostra con assoluta evidenza che la democrazia è finita da tempo, che a governare sono i grandi capitali finanziari legati alle attività criminali internazionali.
Contro la violenza quotidiana e implacabile degli amministratori locali, dei capi di governo, delle strutture internazionali, io auspico la violenza della ribellione, la violenza dei popoli, l’uccisione di quanti affamano le persone, rubano il futuro, asserviscono il presente alla patologia del denaro. Senza la violenza politica, quale gesto di legittima difesa che liberi le comunità sociali dalla presenza di questi violenti, nessuna giustizia è possibile.
Con l’imposizione del voto di fiducia su una questione che riguarda lo stesso futuro del corpo sociale e la sua formazione nel presente, la scuola italiana è stata violentata. Lo stupratore ha le fattezze di un Partito Democratico il cui volto è ormai quello degli industriali, delle privatizzazioni, del fascismo come sistema di pensiero e di gestione dei rapporti sociali. Si tratta di un crimine che la scuola italiana e i suoi docenti non dimenticheranno. Con questa fiducia comincia la fine del Partito Democratico e del prestanome che lo domina.
Un gruppo di docenti dell’Università di Catania ha sottoscritto il documento che pubblico qui sotto.
Il Ddl buona scuola? Non in nostro nome
Onorevoli Senatori e Parlamentari della Repubblica,
siamo docenti e ricercatori dell’Università di Catania. Come cittadini e come professori intendiamo manifestarvi la nostra contrarietà alla “riforma” scolastica proposta dal Governo. Vi indichiamo, in estrema sintesi, soltanto le principali ragioni di un dissenso ampio e motivato.1) L’attribuzione al Dirigente scolastico di un’autorità che vada oltre gli aspetti organizzativi, per toccare addirittura la chiamata e la conferma del docente nel suo ruolo professionale, lederebbe il principio costituzionale della libertà di insegnamento (art. 33: «L’arte e la scienza sono libere e libero ne è l’insegnamento»). La “chiamata diretta” dei docenti vanificherebbe inoltre i percorsi formativi e valutativi attualmente in atto (in cui l’Università è coinvolta), non escluso il risultato dei concorsi (tutelato in linea di principio dall’art. 97 della Costituzione).
2) L’evidente incentivo a concentrare i docenti “migliori” nelle scuole “migliori” per gli studenti “migliori” (in concreto: di famiglie più abbienti, disponibili a sostenere le scuole con i loro soldi) – e di conseguenza a concentrare i docenti “peggiori” nelle scuole “peggiori” per gli studenti “peggiori” – appare in contrasto con l’art. 3 della Carta: «È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana».
3) La “riforma” mostra di ignorare che, nonostante il costante definanziamento e i disordinati interventi governativi degli ultimi anni, quella italiana è ancora una “buona”, spesso “ottima” scuola. Lo dimostra il fatto che studenti formatisi in Italia (fra medie superiori e Università) trovano spesso agevolmente lavoro all’estero, vincendo la concorrenza locale e trasferendovi con successo le proprie competenze. L’appiattimento su standard gestionali e formativi di livello genericamente “europeo” sancirebbe invece il definitivo arretramento della competitività del diplomato/laureato italiano a livelli meramente locali.
4) D’altro canto, tutti gli indicatori e i test valutativi provano che la “media” italiana risulta da dati profondamente squilibrati, fra regioni centro-settentrionali (allineate ai valori delle grandi nazioni europee) e regioni centro-meridionali. La diseguaglianza dei risultati non dipende quindi dall’ordinamento interno, ma da fattori decisivi e profondamente diversificati generati dal contesto sociale ed economico. Lo schema del Preside-manager e della competizione fra istituti opererebbe in senso negativo, come un moltiplicatore delle diseguaglianze e dei fallimenti scolastici. Tale schema non risponde alle finalità di promozione personale e culturale, proprie della scuola pubblica, ma all’esigenza tutta politica di estendere al mondo della scuola modelli organizzativi e ideologici propri dell’Impresa.
5) La “riforma” elude quello che, da tutti gli insegnanti, è indicato come il principale ostacolo a un efficace svolgimento dei compiti didattici: l’eccessivo numero di studenti per classe. Grave è anche l’umiliazione professionale, con la conseguente dequalificazione sociale, inflitta agli insegnanti da una retribuzione lontanissima dai livelli delle nazioni europee sviluppate: più in generale, non viene dal Governo alcuna svolta nel senso di adeguati investimenti in Istruzione scolastica, Cultura, Università.
6) Al contrario, nel solco dei suoi predecessori, di pur vario segno politico, il Governo propone forme di finanziamento alle scuole private che costituiscono comunque “onere per lo stato” (se non altro come mancate entrate fiscali), in contrasto con l’art. 33 della Costituzione.
Per questi (e altri) motivi, considerato che l’abnorme numero di deleghe al governo previste dal ddl vanificherebbe i vostri eventuali emendamenti di segno migliorativo, vi chiediamo di bocciare la “riforma”, senza cedere al ricatto del voto di fiducia.
Giugno 2015
FIRME:
Attilio Scuderi, Antonio Pioletti, Salvino Giuffrida, Felice Rappazzo, Gianni Piazza, Marcella Renis, Alessandro Pluchino, Giuseppe Mulone, Francesca Vigo, Rossana Barcellona, Anna Zimbone, Erminia Conti, Katia Perna, Maria Luisa Barcellona, Teresa Sardella, Edoardo Tortorici, Ferdinando Branca, Anita Fabiani, Rosa Maria D’Angelo, Antonio Milazzo, Marina Paino, Concetta Sipione, Andrea Manganaro, Luciano Granozzi, Alessandro Mastropietro, Giuseppe Consiglio, Angelo Spadaro, Marco Mazzone, Laura Bottini, Gemma Persico, Stefania Arcara, Mirella Cassarino, Loredana Pavone, Nando Pistarà, Filippo Gravagno, Ernesto De Cristofaro, Giuseppe Russo, Antonio Carbonaro, Antonio Sichera, Alberto Giovanni Biuso, Maria Rizzarelli, Rosario Castelli, Alessandro De Filippo, Federica Santagati, Luigi Ingaliso, Mario Di Raimondo, Iuri Peri, Giuseppe Pezzinga, Andrea Orazio Caruso, Gaetano Ortolano, Francesco Leone, Rita Cirmi, Giancarlo Rappazzo, Sebastiano Battiato, Annalinda Contino, Francesca Zuccarello, Enrico Felici, Stefania Rimini, Rita Pavsic, Francesca Pulvirenti, Domenico Cantone, Riccardo Reitano, Vincenzo Bellini, Antonietta Rosso, Maria Grazia Grimaldi, Giuseppe Di Fazio, Anna Maria Maugeri, Paolo Cipolla, Anna Guglielmo, Francesca Guarino, Alba Rosa Suriano
Appena Roberto Saviano apre bocca su una varietà di argomenti, tutto il mainstream pravdesco ne dà conto. Ora che invece ha dichiarato con estrema chiarezza che «nel Partito Democratico c’è Gomorra», i giornali -tranne il Fatto Quotidiano– tacciono con impressionante silenzio. Nel Partito Democratico Gomorra vuol dire anche sostegno senza condizioni e finanziamento indiscriminato a ‘Grandi Opere’ criminogene come il TAV e l’EXPO. Nel Partito Democratico Gomorra vuol dire anche alleanza politica e strategica con il Nuovo Centrodestra di Angelino Alfano, ex tuttofare di Berlusconi. Nel Partito Democratico Gomorra vuol dire anche aver inserito nelle sue liste elettorali camorristi, vecchi democristiani, migliaia di inquisiti, italoforzuti (come il candidato sindaco del mio paese, Bronte, diventato ora candidato del PD).
Liste costruite per vincere. E per fare che cosa dopo aver vinto? Per devastare il territorio, la scuola, l’università, la sanità, il lavoro, il futuro. Una vittoria che è il trionfo della mafia nel suo più vero significato metafisico: la morte
Allora ripetiamolo: il Partito Democratico è un partito colluso con la mafia, di sicuro in Campania e in Sicilia, molto probabilmente anche altrove. Chi lo vota e chi lo sostiene della mafia si fa complice.
Mia madre
di Nanni Moretti
Italia-Francia-Germania, 2015
Con: Margherita Buy (Margherita), Giulia Lazzarini (Ada), Nanni Moretti (Giovanni), John Turturro (Barry Huggins), Beatrice Mancini (Livia), Enrico Ianniello (Vittorio), Renato Scarpa (Luciano)
Trailer del film
Margherita sta girando un film dedicato alla chiusura di una fabbrica; Giovanni, suo fratello, è un ingegnere che ha deciso di licenziarsi. Entrambi assistono la madre, prima in ospedale e poi a casa. Il film di Margherita stenta a prendere forma, anche a causa dell’apparente scarsa professionalità dell’attore straniero. L’agonia della madre si intreccia con quella degli operai, del loro lavoro.
Stavolta Moretti si è incarnato in una donna. Rendendola scostante come lui. Come lui un intreccio di rigore e approssimazione. Tenerezza, allegria, struggimento scorrono nei personaggi. La tenerezza creata dal morire. L’allegria dell’esuberanza italo-americana. Lo struggimento verso l’inevitabile. Ma se il morire degli umani è necessario, non lo è invece quello della giustizia. Il film annoda la vicenda privatissima con quella sociale, mostrando attraverso la stanchezza della madre quella di un’intera collettività. Germogliano qua e là delle battute divertenti, l’insieme però delinea il più tragico dei film di Moretti. Che è sempre stato un po’ scettico ma adesso probabilmente ha preso atto che anche la madre-partito è morta. Non fa polemiche esplicite, gli basta chiedersi se quel partito sta con gli operai o con i padroni. La risposta è evidente.
[Per una recensione più interna al film, consiglio la riflessione di Luca Illetterati: Realtà e rappresentazione nel cinema di Nanni Moretti ]