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Oscurantismi, censure, ortodossie

Contro il politicamente corretto
in I linguaggi del potere.
Atti del Convegno internazionale di studi
(Ragusa Ibla, 16-18 ottobre 2019)
A cura di Felice Rappazzo e Giuseppe Traina
Mimesis Edizioni, 2020, pp. 532
Pagine 25-35

Nell’ottobre del 2019 si svolse a Ragusa Ibla un Convegno i cui giorni furono splendidi per lo scambio scientifico e la condivisione tra amici in un luogo tra i più belli del Mediterraneo.
Come si vede dall’indice del corposo volume che ne raccoglie gli Atti, la relazione tra linguaggi e potere è stata in quest’occasione affrontata da prospettive diverse, feconde, disvelatrici.
Ribadisco la mia gratitudine agli amici e colleghi Rappazzo e Traina per avermi dato l’occasione di discutere in modo critico del Politically Correct, delle sue radici, dei suoi danni, dell’impoverimento linguistico e dunque sociale che produce.
Qualche mese fa avevo messo a disposizione il file audio del mio intervento, al quale aggiungo ora il testo pubblicato, che si divide nei seguenti paragrafi:
-Intellettuali, un tramonto?
-Umanitarismi vs marxismi
-Una globalizzazione politicamente corretta
-Politicamente spettacolare
-Un caso linguistico-culturale italiano
-Conclusione: λόγος – Linguaggio

 

Mazzarella, il nulla la luce

La poesia è il mondo stesso che prende la parola. Per nominare Dio
il manifesto
7 agosto 2020
pagina 11

La poesia, afferma con passione teoretica Eugenio Mazzarella, è «istituzione linguistica del mondo» è la custodia necessaria di ciò che accade mentre sta accadendo: «custodia della soglia del senso, nella carne del mondo». La poesia è il mondo stesso che prende la parola, che si fa parola, in modo che dei corpimente possano comprendere l’infinito eventuarsi della luce, la cui sostanza è inseparabile dall’ombra.
La scaturigine unitaria e molteplice di teoresi e poesia nel pensare e nel dire di Eugenio Mazzarella costituisce una delle cifre più evidenti della sua filosofia. In Perché i poeti. La parola necessaria Mazzarella ha dato voce alla poetica che sostiene il suo cammino teoretico, una poetica inseparabile dai suoi stessi versi, i quali ricevono luce, chiarimento e spiegazione da un libro che illumina la sostanza della scrittura poetica.

 

Una festa, nonostante tutto

Poco si è salvato della lirica greca tra VIII e V secolo, inghiottita come tante altre testimonianze nei gorghi del tempo e soprattutto in quelli della distruzione cristiana. Molti poeti sono solo nomi. Di altri è rimasto qualche frammento musicale. Inseparabile dalla musica è infatti la poesia greca, come la tragedia. Questo non va dimenticato mai, anche quando dei lirici greci leggiamo soltanto il testo. Che però è sempre un canto, la cui eco è ben reale nelle traduzioni di Pontani [Lirici greci, a cura di Simone Beta, trad. di Filippo Maria Pontani, Einaudi, Torino 2018], che per quanto a volte apparentemente così lontane dalle lettera pure ne restituiscono sino in fondo la potenza.
Un canto che trasmette contenuti molteplici e tra di loro in contrapposizione, a conferma che la differenza è il tratto peculiare dell’Ellade. Se Solone elogiava la vecchiaia, Mimnermo la definisce «male inestinguibile che agghiaccia più di morte» (p. 61). Se l’epica omerica, se la storiografia, se anche molta poesia esaltano la guerra e l’eroismo, alcuni poeti si vantano di aver abbandonato la battaglia e – più in generale – Pindaro afferma che «dolce [è] la guerra / a chi non sa: chi sa, / come s’accosta, trema forte in cuore» (225). Se Pindaro esprime la passione dell’intera società greca verso gli eroi sportivi, premiati e trattati come dèi, Senofane manifesta con asprezza il suo dissenso: «Pure non vale quanto me: la nostra scienza / ha più vigore di cavalli e d’uomini. / Avventati criteri! Non è giusto preferire / alla filosofia la forza fisica» (81).
La poesia greca è insieme e sempre profondamente esistenziale e intensamente teoretica. Solone canta la giustizia: «Per sancire i diritti di ciascuno / scrissi norme per umili e potenti» (57). Saffo, Anacreonte, Alcmane cantano l’amore. Persino Teognide lo fa, riconoscendo che Zeus diede ad Afrodite «questo privilegio immenso: / prostri le menti solide degli uomini, e non c’è / uomo, gagliardo o saggio, che ti sfugga» (77). Saffo si sente vibrare, «sono ancora nel turbine: mi strema / Amore, / dolcezza amara, inesplorata fiera…» (109) e Anacreonte dice di Eros che «chi domina gli dèi / è lui, chi doma gli uomini / è lui» (137).

La saggezza e la sapienza antropologica dei Greci sono immense.
Essi sanno che la finitudine è la sostanza stessa dell’umano e di ogni altro ente nel tempo: «Non c’è un uomo felice, sono sciagurati / tutti i mortali che contempla il sole» (Solone, 51).
Sanno che «ἀπείρον γενέθλα, ‘fine non ha la razza degli stolti’» (Simonide, 170).
Sanno che la vendetta è spesso sinonimo di giustizia, e viceversa: «εἶναι δὲ γλυκὺν ὧδε φίλοις, ἐχθροῖσι δὲ πικρὸν, ‘ch’io sia dolce agli amici, ai miei nemici amaro’» (Solone, Alle Muse, v. 6, p. 44; anche Archiloco e Teognide, tra gli altri, ribadiscono e radicalizzano questo principio).
Sanno che l’educabilità umana ha dei limiti, che la natura e il carattere dominano le azioni che compiamo, come afferma Eraclito: «ἦθος ἀνθρώπῳ δαίμων» (119 DK; 63 Mouraviev) e che dunque «l’educazione / non farà mai l’uomo cattivo buono» (Teognide, 69).
Sanno che quando si trasforma in panico e terrore, la paura non svolge più la sua funzione di protezione ma diventa essa stessa un pericolo: «Quando si trema, ogni valore è spento» (Tirteo, 39).
Sanno che la parola, la poesia, il canto, costituiscono garanzie di durata degli umani e delle città nel tempo: «Canto sarai nei secoli, per chi del canto è vago, / finché la terra duri e duri il sole» (Teognide, 69), come mostra ad esempio la lode che Pindaro rivolse ad Ἀκράγας, ad Agrigento: «καλλίστα βροτεᾶν πολίων, ‘splendida fra le città degli uomini’» (Pitica 12, verso 1, p. 210).
Soprattutto, i Greci sanno che Ἀνάγκη è la vera signora del mondo e che i nomi degli dèi sono manifestazioni della Necessità: «Ai mortali la Parca reca beni e reca mali, / e ai doni degli dèi scampo non c’è» (Solone, 47), lo stesso principio viene ribadito da Archiloco, da Pindaro e da chiunque conosca il destino.
Sanno infine i Greci che la vita può essere nonostante tutto una festa: «Musa, lascia le guerre, e canta tu con me / le nozze degli dèi, canta i conviti / degli uomini, le feste dei beati» (Stesicoro, 159) «ché la cosa per l’uomo più preziosa / è una vita gioiosa»  (Pindaro, 229).
Perché, ed è questa la verità del mondo umano, «in favolosi mari d’opulenza tutti / nuotiamo / verso mendaci rive» (Pindaro, 227-229).

Chomsky

Is the Man who is Tall Happy? An Animated Conversation With Noam Chomsky
di Michel Gondry
Francia 2013
Con: Noam Chomsky, Michel Gondry
Trailer del film

La bella e profonda voce di Noam Chomsky, probabilmente il maggior filosofo vivente, dispiega concetti che la matita di Michel Gondry anima rendendoli ancora più trasparenti. Rispondendo alle domande del regista, Chomsky parla delle proprie infanzia, formazione, cultura, famiglia. Accenna all’impegno politico – il filosofo è un anarchico – e fa emergere la saggezza alla quale ogni mente sensata perviene: «Polvere siamo e ritorneremo e la vita non ha senso alcuno. Ma gli esseri umani hanno bisogno di credere che non sia così».
Soprattutto, Chomsky spiega in modo semplice la sua ipotesi di Grammatica Generativa, vale a dire l’infinità semantica della mente umana che permette di combinare pochi segni – lettere, fonemi, parole – in modi potenzialmente illimitati in tutte le lingue conosciute. Una struttura che il filosofo ritiene dunque e giustamente innata, contro le ipotesi comportamentistiche e cognitivistiche della tabula rasa. È quanto in un suo testo Chomsky esprime in questo modo: «Grammatiche generative che “fanno un uso infinito di mezzi finiti” e che esprimono la ‘forma organica’ del linguaggio umano, “questa meravigliosa invenzione – secondo le parole della Grammaire di Port-Royal – di comporre con venticinque o trenta suoni questa infinita varietà di parole, che, pur non avendo in se stesse niente di simile a ciò che accade nel nostro spirito, tuttavia non mancano di svelarne agli altri ogni segreto e di far capire a quelli che non possono penetrarlo tutto ciò che concepiamo e tutti i diversi moti della nostra anima”» (Il linguaggio e la mente [Language and Mind. Third Edition], trad. di A. De Palma, Bollati Boringhieri 2010, p. 50).
La persona che ha la padronanza di una lingua, infatti, è capace non soltanto di comprendere ogni nuova combinazione di lettere, sillabe e termini ma anche di generarne a sua volta un numero indefinito. E questo accade nonostante non si dia alcun legame prefissato e rigido tra i suoni delle parole e il loro significato. Non si tratta infatti semplicemente di associare dei suoni a dei significati, di possedere una corretta competence sintattico-semantica; la performance di una lingua nei parlanti comporta la relazione costante con l’intero mondo nel quale colui che parla è immerso.
Ho apprezzato molto la pacatezza e la forza con le quali vengono enunciate e argomentate altre tesi assai importanti come il rifiuto di ogni riduzionismo – «Il mondo fisico è solo una componente tra gli altri» – e la conseguente spiegazione del rompicapo platonico della ‘nave di Teseo’ (Fedone 58A), questione che mostra come il mondo non sia fatto soltanto di elementi materici (i dati) ma di elementi materici più il significato che il linguaggio umano loro attribuisce (la semantica). In gergo tecnico: gli enti sono senso e non soltanto riferimento, connotazione e non solo denotazione. La «continuità cognitiva» della quale parla Chomsky nel film è ciò che in Temporalità e Differenza ho cercato di riassumere in questo modo: «Navi, carri, mattoncini sono entità temporali, sono quark, atomi, molecole, macrostrutture in continuo dinamismo, sono entità/eventi ai quali è l’osservatore a conferire un’identità sempre provvisoria, cangiante e insieme perdurante; temporale, quindi» (§ 3, p. 13).
Le animazioni di Gondry, apparentemente infantili ma assai raffinate, costruiscono un film teoretico, drammatico e divertente.

Il dominio della lotta

Metafore politiche contemporanee
in Vita pensata, numero 21, gennaio 2020
pagine 87-90

Tre film. Tre narrazioni simboliche del sociale e della sua violenza. Una narrazione è infatti e alla fine la vita degli umani. Di questi animali che nutrono lo struggente e magnifico desiderio di comprendere con la parola e con la scrittura il mondo del quale sono parte. Essi che «invecchiarono senza avere requie; morirono, non trovavano alcuna verità, non conoscevano il Dio della verità. Fu così che tutta la creazione divenne schiava per tutta l’eternità, dalla fondazione del mondo fino a adesso. Presero mogli e generarono figli dalle tenebre, a immagine del loro spirito; chiusero i loro cuori, e dalla insensibilità dello spirito di opposizione, divennero insensibili fino a adesso»1. E oltre.

Nota
1. «Apocrifo di Giovanni», in Testi gnostici, a cura di Luigi Moraldi, Utet 1997, § 30, p. 161.

Linguaggio e oscurantismi

Dal 16 al 18 ottobre 2019 la sede di Ragusa Ibla del Dipartimento di Scienze Umanistiche di Catania ospiterà un denso convegno dedicato ai Linguaggi del potere. Nel pomeriggio di venerdì 18 (alle 15,15) interverrò con una relazione dal titolo Contro il politicamente corretto. Sarà un’occasione per cercare di argomentare alcune delle ragioni sulle quali si fonda la mia critica alla censura e alle imposizioni del linguaggio politically correct.
La prima è che «das In-der-Welt-sein des Menschen ist im Grunde bestimmt durch das Sprechen. Die Weise des fundamentalen Seins des Menschen in seiner Welt ist, mit ihr, über sie, von ihr zu sprechen. So ist der Mensch gerade durch den λόγος bestimmt», «l’ ‘essere nel mondo’ dell’uomo è determinato, nel suo fondamento, dal parlare. Il modo dell’essere fondamentale dell’uomo nel suo mondo è il parlare con il mondo, sul mondo, dal mondo. L’uomo, insomma, è determinato proprio dal λόγος» (Heidegger, Concetti fondamentali della filosofia aristotelica, Adelphi 2017, § 5, p. 53; trad. di G. Gurisatti) ed è per questo che l’umano è un’entità politica la quale per costruire una vera comunità ha bisogno di un parlare libero, che non sia censurato o autocensurato dal timore che qualcuno si possa sentire offeso dal nostro linguaggio ideologico, etico, religioso, filosofico.
Per non offendere nessuna visione del mondo sarebbe infatti necessario stare zitti. Che è, di fatto, il vero esito di ogni dire politicamente corretto, il cui dispositivo non può che risultare oscurantista. Chi non rispetta la molteplicità delle parole non rispetterà, alla fine, neppure la molteplicità delle persone.

L’ironia, lo splendore

Nel primo dei tre incontri dedicati alla narrativa di Friedrich Dürrenmatt organizzati la scorsa primavera dall’Associazione Studenti di Filosofia Unict (Dipartimento di Scienze Umanistiche, 14.3.2019) abbiamo analizzato sette racconti: Il figlio, Il torturatore, Il vecchio, Pilato, La caduta, La guerra invernale del Tibet, Minotauro. Una ballata.
In essi sono detti l’enigma, la storia, l’ironia, l’amore che manca, il buio dell’essere, lo splendore della parola, la Gnosi.
La registrazione dura due ore e tre minuti e quindi è davvero proibitiva ma un file mp3 può essere ascoltato camminando, cucinando, correndo, poltrendo…
Per chi vuole, c’è anche la possibilità di ascoltare l’audio e scorrere le diapositive che ho utilizzato durante la lezione: Dürrenmatt. I racconti 
Gli ultimi venti minuti sono dedicati al dialogo molto intenso con gli studenti, forma ed espressione della Communitas che l’Università di Catania è.

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