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Les Enfants

I 400 colpi
(Les Quatre Cents Coups)
di François Truffaut
Francia, 1959
Con: Jean-Pierre Léaud (Antoine Doinel), Claire Maurier (Gilberte Doinel, la madre), Albert Rémy (Julien Doinel), Patrick Auffay (René), Guy Decomble (l’insegnante di francese)
Trailer del film

i_400_colpiIn francese il titolo significa ‘fare il diavolo a quattro’. E il dodicenne Antoine Doinel è in effetti una mescolanza di Pinocchio e di Gian Burrasca. Ma è lontano da entrambi per la malinconia, la rassegnazione quasi, con le quali vive la sua solitudine di bambino non amato, il susseguirsi delle punizioni e della desolazione, la sua stessa radicata monelleria. Parigi e la Francia alla fine degli anni Cinquanta del Novecento vi appaiono nella loro identità immediata e profonda, irreversibilmente dissolta, oggi. Come svanito è un modo di educare che nel nostro tempo è diventato esattamente l’opposto rispetto a quello descritto e condannato nel film, oggi che i bambini e i ragazzini di tutte le età sono diventati i tiranni delle famiglie.
La narrazione procede senza nessuna sbavatura, del tutto priva di retorica anche se totalmente intrisa di pietà. Il cinema, la letteratura, il teatro è naturalmente sempre dell’umano che parlano ma le opere che valgono lo fanno senza alcun sentimentalismo. Les Quatre Cents Coups è un grande film anche per questo. Da qualche mese l’opera è tornata nelle sale, restaurata e quindi capace di sprigionare ancora e di nuovo tutta la sua bellezza formale, la sua maestria di racconto per immagini.

Brecht in Afghanistan

El Teatre Lliure – Barcellona
La ronde de nuit
Una creazione collettiva da un’idea di Ariane Mnouchkine, messa in scena da Hélène Cinque
Con: Haroon Amani, Aref Banahar, Taher Beak, Saboor Dilawar, Mujtaba Habibi, Mustafa Habibi, Sayed Ahmad Hashimi, Farid Ahmad Joya, Shafiq Kohi, Asif Mawdudi, Wioletta Michalczuk, Caroline Panzera, Ghulam Reza Rajabi, Omid Rawendah, Shohreh Sabaghy, Harold Savary, Wajma Tota Khil
Coproduzione del Théâtre du Soleil con il Théâtre Nanterre – Armandiers
Sino al 22 giugno 2014

 

ronde_nuit

Nader viene dall’Afghanistan e finalmente ha trovato lavoro come guardiano notturno in un teatro parigino. Nel quartiere girano clochard, prostitute, tossici, poliziotti. E molti Sans-papier, i senza documenti, gli ‘extracomunitari’, insomma. Un amico di Nadier che ha ottenuto il passaporto francese sta per ripartire alla volta di Kabul ma gli chiede di dare ospitalità per quella sola notte a un gruppo di migranti che non ha dove ripararsi dall’ondata di gelo che incombe. Nadier accetta e la notte si trasforma nei racconti, nei sogni, negli incubi che prendono forma tra le quinte del teatro.
Antiche storie, ripetute violenze, desideri inconfessati, volontà di riscatto danzano tra il sonno, i dialoghi su Skipe con le loro terre lontane, i timori per i soldati e i poliziotti che irrompono, le memorie diventate immagini-corpi.
Intriso di umorismo e di tragedia, questo esperimento di Ariane Mnouchkine e Hélène Cinque con gli attori del Théâtre Aftaab (che in lingua dari significa ‘sole’) mi è sembrato un esempio di teatro brechtiano didascalico e commovente, politico e onirico, storico ma soprattutto interiore. La recitazione è eccellente, forse anche perché questi attori non soltanto recitano ma rivivono il loro stare al mondo.

 

Immanenza verticale

Modigliani, Soutine e gli artisti maledetti. La collezione Netter
Palazzo Reale – Milano
A cura di Marc Restellini
Sino all’8 settembre 2013

Storie anche di umani. Di persone che lasciano le loro terre e si trasferiscono a Parigi, confermando ancora una volta ed esaltando il ruolo principe di questa città nell’arte. Storie anche di miseria, di alcolismo, di dolore: Jeanne Hébuterne, la compagna di Modigliani, si uccide il giorno successivo a quello della morte del pittore; Utrillo è così perdutamente alcolizzato da arrivare a bere la trementina e l’acqua di colonia; la povertà attanaglia molti di questi artisti. Storie anche di successi e di ricchezza, come quella di Soutine e, naturalmente, dei mercanti d’arte. Storie di passione per le opere e di paziente e intelligente raccolta, quella che diede vita alla collezione di Jonas Netter.
Ma storie soprattutto di coraggio, di bellezza e di forma. Il coraggio che spinge a tentare strade sempre nuove nell’esprimere il mondo, gli umani, i luoghi. La bellezza che trasfigura anche gli spazi più miserabili -come molti angoli di Montmartre e Montparnasse- in autentiche epifanie della meditazione e dell’incanto. La forma che, in tutti i pittori qui raccolti ma soprattutto in Soutine, si mescola e rimescola; i colori che si ibridano e diventano anch’essi la densa sostanza del tempo.
Su tutto si staglia, ma senza nessuna prevaricazione, la geometria di Modigliani, la sua immanenza verticale, l’antico debito con la tradizione toscana e italiana, la capacità di trasformare gli effimeri soggetti che ritrae in sfavillanti icone della fede nella figura.

 

Parigi inventata

Robert Doisneau. Paris en liberté
Spazio Oberdan – Milano
Sino al 5 maggio 2013

Parigi tra il 1934 e il 1991. Questa città, che vive di un’identità esatta e di una differenza che la rende sempre nuova, oggi non è più quella che gli occhi di Doisneau hanno inventato. Inventato, sì, perché di se stesso il fotografo diceva di essere un «falso testimone». Basta infatti fermare in un’immagine il fluire senza posa delle vite per creare un falso che dei luoghi e degli umani dice assai più della piatta verità di ogni ingenuo empirismo cronachistico. La celebre fotografia del Bacio dell’Hotel de Ville (1950) sembra rubata al fiume della gente parigina e invece venne costruita -racconta l’artista- in modo meticoloso e consapevole poiché «vedere, a volte, significa costruirsi, con i mezzi a disposizione, un teatrino e aspettare gli attori» (Doisneau, 23.10.1984). 
Recitano dunque in questa bella mostra i pedoni che corrono in Place de la Concorde per sfuggire alla muta delle automobili; recitano i venditori delle Halles prima che nel 1971 venissero demolite; recitano personaggi noti come Buñuel, Giacometti, de Beauvoir, Simenon, Greco, Binoche e numerosi altri; recitano centinaia di sconosciuti: ragazzini, turisti, prostitute, pescatori, ballerine, passanti. Recita la città -i suoi spazi, i suoi umani- sempre viva, vivace, vitale. Una Parigi quotidiana e insieme turistica, radicalmente finta e profondamente vera. Una città che il suo amante, Doisneau, ha messo in posa e dalla cui immagine ha tratto per sé e per noi una semplice felicità, una testarda tenerezza. 

Il cinema/mente

Hugo Cabret
di Martin Scorsese
Con: Asa Butterfield (Hugo), Ben Kingsley (George Meliès), Chloe Moretz (Isabelle), Sacha Baron Cohen (Ispettore ferroviario), Helen McCrory (Mamma Jeanne), Jude Law (il padre di Hugo), Michael Stuhlbarg (René Tabard), Ray Winstone (zio Claude)
Ispirato a La straordinaria invenzione di Hugo Cabret, di Brian Selznick
USA 2011
Trailer del film

 

Anni Venti del Novecento. Dall’alto del panorama parigino e delle magnifiche luci che lo intessono si scende vorticosamente verso Gare Montparnasse. Tra il brulichio della stazione si muove Hugo Cabret, un ragazzino senza famiglia, il cui padre orologiaio è morto prima di riuscire a riparare uno strano automa capace di scrivere. Hugo vive tra i meccanismi del grande orologio della stazione e ha l’obiettivo di far funzionare l’automa, convinto che in esso stia racchiuso l’ultimo messaggio del padre. Per questo ruba piccoli ingranaggi da un negozio di giocattoli, fino a che il proprietario lo scopre e gli porta via il taccuino di appunti del padre. Quest’uomo, però, è George Meliès, il primo grande regista di film fantastici, che dopo il grande successo della Belle Époque è ora caduto in disgrazia. I rapporti tra Meliès, l’automa, il padre, delineano la favola di questo film il cui profluvio di effetti illusionistici è una cosa sola con la trama.

«Il tempo è tutto» dichiara lo zio Claude, anch’egli orologiaio. Il cinema è l’immagine-movimento (Deleuze) mediante la quale il passato ritorna ogni volta che lo vogliamo, l’immaginazione produce il mondo, il presente del singolo fotogramma è inseparabile dal movimento che lo trascina, esattamente come l’istante è inseparabile dal fluire dell’avvenire-essente stato-presentante. Eventi, sogni, fantasie, favole, timori, progetti, si fanno sullo schermo realtà, diventano un flusso di coscienza iconico che è capace di superare d’un balzo enormi distanze spaziotemporali o di racchiudersi per lungo tratto nello scrigno del presente. Il cinema è metafora e incarnazione della psiche, della sua distensio, della struttura anche costruzionistica e non soltanto rappresentativa della mente temporale.

Le donne del 6°piano

di Philippe Le Guay
(Les Femmes du 6ème ètage)
Con: Fabrice Luchini (Jean-Louis Joubert), Sandrine Kiberlain (Suzanne Joubert), Natalia Verbeke (Maria)
Francia, 2011
Trailer del film

La struttura e l’altezza dei palazzi di Parigi vennero stabiliti dal barone Haussmann durante il Secondo Impero. L’ultimo piano delle case fu riservato alla servitù. E così ancora nel 1962 sopra il quinto piano, dove abitano il finanziere Joubert e sua moglie, alloggiano nelle loro piccole stanze con i servizi in comune alcune donne che hanno lasciato la Spagna di Franco per trovare lavoro nella capitale. E dunque dopo il licenziamento della vecchia domestica, in insanabile contrasto con la padrona, la coppia assume Maria, una delle più giovani, vitali, determinate e malinconiche fra queste inquiline. A poco a poco mentre la signora Joubert continua i propri riti borghesi, banali e sempre identici, nella vita del marito entra un’aria nuova portata da Maria e dalle sue compagne.

Il film narra l’incontro tra classi sociali, lingue, modi di vivere assai diversi. Lo fa in un tono favolistico e lieve sino alla superficialità. L’intreccio tra politica, amore e costume è comunque gradevole e risulta estremamente accurata -sino ai minimi dettagli- la ricostruzione del milieu borghese e popolare degli anni Sessanta. Sembra soltanto una garbata -e ben recitata- commedia che può però essere letta anche alla luce dei problemi che gli anni Dieci del nostro secolo pongono all’incontro tra gli indigeni europei e i nuovi migranti.

Complices

di Frédéric Mermoud
Con Cyril Descours (Vincent), Nina Meurisse (Rebecca), Gilbert Melki (Cagan), Emmanuelle Devos (Mangin), Joanna Preis.
Francia-Svizzera, 2009
Trailer del film

Vincent e Rebecca, poco più che adolescenti, si incontrano, si amano, superano anche la rivelazione del prostituirsi di lui, del suo vivere in un gorgo dalle conseguenze drammatiche.
Cominciando dalla fine della vicenda, il montaggio alterna il sentimento dei due ragazzi e l’inchiesta della polizia, condotta da un commissario poco ligio alla procedura e molto attento all’umanità delle persone che incontra. Un noir interiore e con protagonista la sempre bella Parigi, anche quando è tenebrosa. Ma soprattutto un film sulla solitudine profonda degli umani, di qualunque età, e sul paradossale dualismo che permette di vendere il proprio corpo illudendosi di rimanere liberi, come se il corpo fosse l’Altro quando invece è il più intimo .

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