La storia esistita finora è certamente storia di lotta tra le classi e storia della continua metamorfosi dei modi di produzione. Ma è anche storia delle lotte tra credenze simboliche, tra progetti politici, tra convinzioni religiose, tra modelli scientifici, in una parola tra concetti. È nell’ambito di tali simboli e concetti che assume tutta la sua rilevanza e il suo spazio l’azione metapolitica, vale a dire quella che non si esercita direttamente nelle istituzioni che amministrano il potere e la cosa pubblica ma quella che agisce nell’ambito delle idee, dei modelli generali di convivenza tra gli umani e degli umani con i loro ambienti, nell’ampio ambito dei segni religiosi, artistici, etici, nelle questioni che riguardano le ragioni del vivere e del morire.
Anche per questo, negare ciò che ci ha preceduto, censurare il passato – sia nel senso di condannarlo sia in quello di nasconderlo e persino di cancellarlo – è un’operazione insieme astratta, e quindi ultraculturalista, e barbarica e quindi veramente rozza. Ma è soprattutto un’azione impossibile, il cui successo coinciderebbe con la dissoluzione di una società, così come accade a un individuo affetto dal morbo di Alzheimer, che dimentica progressivamente ogni elemento della propria vita passata, sino a morire di tale oblio.
«Le lampadine dell’Illuminismo si sono fulminate». Così inizia una riflessione di Eugenio Mazzarella sui patetici avvenimenti parigini di questi giorni (Il Fatto Quotidiano, 30.7.2024; cliccare sull’immagine dell’articolo per leggerlo più comodamente). L’intero articolo è segno dell’intelligenza, della παρρησία, dell’ironia di un Maestro del quale sono orgoglioso di essere stato ed essere allievo.
Condivido certamente il richiamo alla libertà rivendicato da Thomas Jolly, la cui «fantasia kitsch» ha ideato il LGBTQQIA+ pride parigino mascherato da Giochi Olimpici. Ho infatti sempre spinozianamente sostenuto il diritto di assoluta libertà di espressione da parte di chiunque e su qualsiasi tema.
Tale libertà deve dunque valere per tutti: per Jolly che prende in giro la fede cristiana o ellenica; per chi prende in giro i terroni (quale io sono) senza per questo essere poi accusato di antimeridionalismo; per chi prende in giro i gay e i vari LGBTQQIA+ senza essere accusato di omofobia; per chi prende in giro gli islamici senza essere accusato di islamofobia; per chi prende in giro gli ebrei senza essere accusato di antisemitismo; per chi prende in giro i negri o gli asiatici senza essere accusato di razzismo.
Siamo d’accordo?
Jolly si è poi difeso affermando che quella da lui ideata e inscenata sarebbe «…una grande festa pagana legata agli dei dell’Olimpo, e dunque all’Olimpismo». L’ignoranza mostrata da tali ‘creativi’ diventa a questo punto imbarazzante. L’olimpismo non è legato «agli dèi dell’Olimpo» ma alla città di Olimpia, sede dei giochi della Grecia antica. Dioniso è il sorriso sacro e implacabile, non è una drag queen. Auspico che questa gente decida una buona volta di ispirarsi soltanto ai divi hollywoodiani e alle mitologie statunitensi, del tutto consoni alla sua Stimmung, e lasci in pace gli dèi delle religioni mediterranee.
Sperando che né Veneri né Cupidi, né yankee né giornalisti abbiano a risentirsi, e tantomeno a piangere, cittadino Emmanuel Macron bevi un bicchiere.
La Francia del Secondo Impero e della Terza Repubblica è stata dipinta soprattutto da due italiani: Giovanni Boldini e Giuseppe De Nittis. A essi si è aggiunto il più profondo e completo artista capace di dipingere con le parole, Marcel Proust. E in effetti i quadri che De Nittis creò vivendo a lungo a Parigi, lui mediterraneo proveniente dalla Puglia, costituiscono anche la raffigurazione per immagini dell’umanità parigina che il Narratore della Recherche descrive in ogni sinuosa sfumatura e nella limpidezza sociologica della potenza di due classi che si divisero ancora a lungo la ricchezza e il prestigio, l’alta borghesia e l’aristocrazia ben presente nonostante i giacobini, nonostante Bonaparte.
De Nittis ama ciò che dipinge come se fosse creatura sua. Non soltanto la moglie e modella Léontine Gruvelle ma anche le signore che passeggiavano nel Bois de Boulogne; che assistevano alle corse dei cavalli a Auteuil e a Longchamp; che camminavano veloci o spensierate per le strade di Parigi.
Il modo con il quale De Nittis vede i luoghi e gli umani coglie una realtà sempre in divenire e suggerita dallo scorcio nel quale ci si trova, da una prospettiva necessariamente parziale ma insieme totalizzante. Il suo è quindi un punto di vista fotografico che mediante pastelli, acquarelli e oli (eccelleva in tutte le tecniche) ferma sulla tela la mondanità, la luce, la forma, la frenesia, la meditazione.
Anche i ritratti dedicati a Londrafotografano una città al confine tra la miseria e la potenza. Le opere mediterranee, l’Ofanto, Napoli, Pompei, il Vesuvio, sono immerse in una luce antica e in un’energia sempre nuova.
Ovunque i corpi disegnati da De Nittis non hanno pose somatiche né psichiche ma sono specialmente figure sociali, forme amate del tempo individuale e collettivo. I dipinti en plein air costituiscono delle mescolanze assai belle tra Giovanni Fattori e Claude Monet. Ma De Nittis non è un macchiaiolo né un impressionista, non è un pittore di genere né un paesaggista. De Nittis è il sogno del XIX secolo.
Ed è un uomo libero, che amava la Francia e Parigi come la sua casa ma che mantenne anche la lucidità che lo spinse a lasciare la metropoli con queste parole: «Prima di tutto ce ne andremo da Parigi, dove la vita mi soffoca: Parigi distrugge tutti. E se poi, un bel giorno, mi dovessi ritrovare simile agli altri, immeschinito dall’ambizione, dalla stanchezza, dalla collera?». Si trasferì dunque nella campagna di Saint-Germain-en-Laye, dove morì all’improvviso il 21 agosto 1884. Parigi lo accolse ancora una volta al Père Lachaise, dove la sua tomba reca un epitaffio dettato da Alexandre Dumas figlio: «Qui giace il pittore Giuseppe De Nittis morto a trentotto anni. In piena giovinezza. In pieno amore. In piena gloria. Come gli eroi e i semidei».
La mostra al Palazzo Reale di Milano permette di seguire, apprendere e gustare con empatia l’arte di questo autentico europeo.
Brassaï, pseudonimo dell’ungherese Gyula Halász (1899-1984), è stato uno dei grandi fotografi che in Francia hanno documentato la pienezza della vita, dell’eros, degli spazi, di Paris città-mondo, e in tutto questo hanno percepito con lucidità, rassegnazione, forza, malinconia, che stavano fotografando e descrivendo «le ultime vestigia un mondo che stava scomparendo», come Brassaï sinceramente dirà. Il suo metodo per scoprire, alla lettera, il reale, per dargli significato e dunque trasformarlo restandogli fedele, è ciò che definiva «ubbidire alla dittatura dell’occhio». E l’occhio di Brassaï vede tutto, di tutto è curioso, tutto documenta, tutto cerca di ricordare, a tutto vuole offrire la pienezza della forma. L’acciottolato delle strade nelle notte riverbera di luce lo spazio. Un rigagnolo lungo la strada ha la sinuosità di un grande fiume.
Una patata e delle gocce d’acqua sulle foglie diventano sculture e volumi sferici in uno spazio astratto. Dei vetri frantumati scandiscono il ritmo musicale del pieno e del vuoto. Il banale è trasformato in paradosso.
Una lunga galleria di ritratti di pittori e scrittori del Novecento (tra i quali Picasso, Braque, Léger, Giacometti, Cocteau, Beckett, Ionesco, Nin, Dalí, Breton…) si alterna a immagini che descrivono ambienti sociali e circostanze tra loro molto diversi: proletari, bande di piccoli delinquenti, prostitute, feste e personaggi dell’alta società e del mondo della moda. Una curiosità antropologica inesauribile anima infatti questo artista.
Due sezioni sono dedicate ai graffiti di Parigi e di altri luoghi – nei quali Brassaï scorgeva forme espressive di grande significato e valore – e alle sculture e ai disegni. Soprattutto le sculture sono di grande pulizia e suggestione formale. E poi i luoghi proustiani, il Bois de Boulogne, i ponti, le chiatte, la Senna, le balere, le trattorie, i bordelli, i bistrot, le ballerine, un bacio sulla ruota vorticosa di un luna park, bacio reso immobile dalla tecnica raffinata del fotografo. Il quale nella camera oscura operava sulle lastre creando ciò che chiamava «la seconda realtà», e invocando attraverso il proprio sguardo, mediante l’occhio e la sua ‘dittatura’, con l’ausilio di ogni possibile strumento tecnico, invocando il tempo. Brassaï scrive esplicitamente che la sua opera è un tentativo di andare «alla ricerca della poesia del tempo». Per restituirne la musica, il segreto, la potenza.
L’immagine di apertura si intitola Les Escaliers à Montmartre (1932) e (durante una conferenza tenuta a Boston nel 1977) di essa Brassaï disse che «prima di essere colpito dal soggetto, l’occhio dello spettatore deve essere catturato dalla sua forma, dalla struttura dell’immagine […] Solo le immagini rigorosamente costruite possono entrare nella memoria e diventare indimenticabili. La composizione di questa fotografia deve risultare istintiva e non studiata». Parole e immagine dove c’è per intero Brassaï, dove emerge la struttura dello spaziotempo come ombra e come luce.
Indice
-Introduzione
-Proust sociologo
-Linguaggio
–Du coté de chez Swann
–À l’ombre des jeunes filles en fleurs
–Lecôté de Guermantes -Sodome et Gomorrhe –La Prisonnière
–Albertine disparue –Le Temps retrouvé -La Recherche come filosofia
Proust è un sociologo, è un narratore, è un metafisico. Nella Recherche vivono, agiscono, amano, invecchiano, parlano, ricordano centinaia di personaggi che abitano una molteplicità di luoghi: Illiers/Combray, Parigi, Cabourg/Balbec, Amiens, Venezia. In questo saggio ho cercato di presentare alcuni di tali personaggi, luoghi, temi. La prima parte è dedicata alla spesso sottovalutata ma in realtà primaria dimensione storica e sociologica dell’opera proustiana; la seconda a un sintetico percorso dentro la Recherche; la terza a una riflessione sulla struttura metafisica dell’opera.
Ma nuit di Antoinette Boulat Francia, Belgio, 2021
Con: Lou Lampros (Marion), Tom Mercier (Alex) Trailer del film
La notte di Marion, diciottenne che si è allontanata dalla madre dopo la morte della sorella e l’abbandono del padre. La notte. Prima trascorsa con alcune amiche che nello sballo, nell’erba e nei giochi ritrovano soltanto sonno e pianto. Poi con Alex, un solitario come lei ma di lei più saggio, che le insegna un poco di misura e di calma, che le ricorda che «la libertà è il sentimento di non aver paura». E le regala persino una traccia di sorriso quando il giorno ricompare nel suo fulgore e Marion può dire: «Ce l’ho fatta. Ho superato la notte». Camminando tra le strade nella luce del giorno, Marion indirizza lo sguardo e le braccia verso il cielo, per toccarlo.
C’è qualcosa di giusto nella tristezza che afferra e che intesse questi ragazzi al transito tra adolescenza e adultità. Il vuoto che si è merita il vuoto che si fa. Sapere (lo sanno ormai tutti sin dalle scuole medie) che alcuni comportamenti sono autodistruttivi e nonostante questo praticarli, merita la distruzione. Il mancato rispetto e persino odio nei confronti del tempo merita che il tempo punisca sbriciolando in angoscia il proprio passare e in lacrime le ore.
Marion ha il dono di uno sguardo intenso dentro un viso da capra, Alex ha l’energia e la dolcezza di un umano diventato un poco più adulto, Parigi ha il normale dolore di una città umana, la regista alterna i primissimi piani con i paesaggi urbani e antropici di una contemporaneità scandita dall’assenza.