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Un riuscito naufragio

La pazza gioia
di Paolo Virzì
Italia, 2016
Con: Valeria Bruni Tedeschi (Beatrice), Micaela Ramazzotti (Donatella), Valentina Carnelutti (Fiamma Zappa), Anna Galiena (Luciana Brogi), Marco Messeri (Floriano Morelli).
Trailer del film

Beatrice Morandini Valdirana è ospite di una struttura di recupero psichiatrico. È estroversa, chiacchierona, elegante, ricca e decaduta, un po’ razzista e molto imbrogliona. Arriva Donatella Morelli, che invece è fisicamente malmessa, riservata, sciatta, senza un soldo.
Per quali ragioni queste due donne siano lì ricoverate, che cosa abbiano commesso, lo si scopre a poco a poco. Sino alla reciproca confidenza dell’«essere nate tristi». Approfittando di una circostanza casuale, fuggono dalla struttura, alla ricerca della felicità perduta e del figlio di Donatella, che le è stato sottratto in quanto giudicata «inidonea alla genitorialità». Si susseguono una serie di avventure, incontri, confronti con amici, genitori, ex mariti e precedenti amanti. La vita pulsa in questa pazza gioia, sino alla fine.
Due attrici in stato di grazia scolpiscono delle figure fragili e forti. Valeria Bruni Tedeschi, in particolare, disegna uno dei suoi personaggi meglio riusciti. Entrambe sono credibili, matte senza essere caricaturali, tenere e insieme violente. Il film dà voce al discorso folle e lo fa con misura, sempre in equilibrio tra divertimento e tragedia.
Nell’atroce mondo in cui siamo gettati, la pazzia è spesso una risposta naturale e inevitabile, pur se perdente. Di questo riuscito naufragio il film sa mostrare anche la gioia.

Antropologia italica

Il capitale umano
di Paolo Virzì
Con: Valeria Bruni Tedeschi (Carla Bernaschi), Fabrizio Bentivoglio (Dino Ossola), Fabrizio Gifuni (Giovanni Bernaschi), Matilde Gioli (Serena Ossola), Valeria Golino (Roberta Morelli), Luigi Lo Cascio (Donato Russomano), Bebo Storti (l’ispettore), Gianluca Di Lauro (il ciclista), Giovanni Anzaldo (Luca Ambrosini), Gugliemo Pinelli (Massimiliano Bernaschi)
Italia, 2014
Trailer del film

Capitale_umano_Dino_OssolaLe parole sono il mondo, si sa. Definire un ente e un evento in una maniera o in un’altra significa conferirgli una diversa realtà. Nell’epoca dell’ultraliberismo vincente e di sinistra -da almeno vent’anni- uomini e donne che lavorano sono diventate delle risorse umane, la fine dei finanziamenti a fondamentali bisogni sociali si chiama spending review, la subordinazione della politica alla finanza ha preso il nome di governamentalità, le più squallide operazioni di potere e una miriade di intrallazzi vengono definite responsabilità. E così via nello schifo che soltanto il servilismo dei giornali e dei giornalisti di proprietà delle banche e dei partiti può trasformare in profumo.
Questo in tutto l’Occidente e, di fatto, nel mondo. In Italia, solita fortunata, si aggiunge da vent’anni la presenza di un bandito ricattato e ricattatore, le cui televisioni -come Pasolini ben aveva previsto- hanno trasformato non soltanto il vivere sociale ma assai più a fondo l’antropologia di questo popolo, il quale possedeva già comunque tutte le condizioni per diventare ciò che è. Tale popolo ha infatti per due volte nello stesso secolo dato credito e gloria a due scaltri buffoni carismatici come Mussolini e Berlusconi. Il risultato è un modo di esistere e di pensare che il film di Virzì ben esprime attraverso una storia brianzola (la Brianza di Carlo Emilio Gadda!) intrisa di ferocia, di tracotanza, di culto verso il denaro, di dissoluzione di ogni legame sociale, di provincialismo e soprattutto di volgarità. Una volgarità culturale (nel senso antropologico) incarnata da due magnifici attori che interpretano -rispettivamente- la cialtroneria del piccolo imprenditore che vuole diventare ricco in poco tempo (Dino Ossola) e l’elegante spietatezza di uno squalo della finanza (Giovanni Bernaschi).
Assistendo alla progressiva parabola discendente di questi e degli altri personaggi ho goduto, augurando a tutti i loro emuli e consimili nella vita reale il medesimo destino.  Il loro personale «lieto fine» con il quale il film si chiude è, certo, l’ammissione della sconfitta di una giustizia più alta di quella del diritto, l’ammissione del fatto che «sulla terra è la volgarità che è immortale» (J. Burckhardt, Sullo studio della storia, Boringhieri 1958, p. 214) ma è anche la conferma della nullità assoluta di queste vite, degne soltanto di disprezzo. Lo stesso disprezzo che meritano gli italiani.

 

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