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«Né Dio né l’Idf hanno pietà dei bambini»

Non ho nulla da aggiungere alle parole di dolore profondo e di lucida razionalità che Gideon Levy, giornalista israeliano, ebreo, dedica all’olocausto palestinese.

[Cliccando sull’immagine la lettura dell’articolo risulterà più agevole. Ricordo che Idf è la sigla dell’esercito israeliano]

Fonte: l’articolo è stato pubblicato sul quotidiano israeliano Haaretz ed è uscito in italiano sul Sole-24 Ore del 18.12.2023.

Stati Uniti d’America

Soltanto i ciechi e gli accecati non vedono e non vogliono vedere che quanto accade a Gaza è un genocidio, un lucido e voluto genocidio. La domanda è dunque: i palestinesi e un loro Stato hanno diritto a esistere oppure devono essere spazzati via dalla faccia della Terra?
La risposta è chiara: il problema palestinese sarà risolto quando neppure uno di loro abiterà più la Palestina, diventata definitivamente «il grande Israele».
Questo genocidio è in corso da molto tempo, è attuato da Israele ed è sostenuto in tutti i modi dagli Stati Uniti d’America, un Paese che mostra ormai senza infingimenti la propria natura guerrafondaia e terroristica, un Paese che è diventato il più pericoloso per la pace su questo martoriato pianeta.
E allora pongo di nuovo le domande che rivolsi qualche mese fa:
Che cosa autorizza un Paese come gli Stati Uniti d’America a intromettersi nelle decisioni, nella vita, nelle libertà di altri Paesi?
In nome di che che cosa gli USA sono giudici dei destini di ciò che avviene nel continente asiatico, in America Latina, nel Vicino Oriente, in Europa, ovunque?
Da dove proviene questo privilegio assoluto di stabilire per tutti che cosa sia il bene e che cosa il male?
Che cosa legittima la pretesa che gli altri popoli, stati, nazioni debbano obbedire ai giudizi, alle decisioni, alle azioni e alle armi degli Stati Uniti d’America?
Sono davvero interessato a delle plausibili risposte, che non siano l’unica possibile e realistica: «Perché gli Stati Uniti d’America sono attualmente il Paese più forte e militarizzato del mondo e i più forti fanno ciò che vogliono dei più deboli».

[La fotografia di apertura è stata scattata da Davide Amato in occasione di un evento organizzato lo scorso maggio dall’ASFU e dedicato alla guerra]

Gaza 2023

Nel 2014, in occasione di un’altra fase del genocidio palestinese, commentavo un’affermazione del tutto condivisibile di Noam Chomsky e ricordavo che una deputata dell’estrema destra israeliana aveva scritto che «tutti i palestinesi meritano di morire» (Fonte: Televideo, 20/07/2014, 00:05). Aggiungevo che le generazioni future si vergogneranno di un’epoca “democratica” che ha permesso il genocidio giustificando in tutti i modi i carnefici. Si chiederanno come sia potuto accadere. Troveranno le risposte nel razzismo degli eletti da Dio, nel fanatismo, nella geopolitica, negli interessi finanziari, nella menzogna, nell’indifferenza (Non è una guerra; 21 luglio 2014).
A nove anni di distanza la situazione dei palestinesi è peggiorata. Questo popolo vive in un regime di vera e propria segregazione (apartheid) che nella cosiddetta «Striscia di Gaza» diventa miseria, frequente mancanza di acqua, elettricità, cibo, incertezza sulla vita e sulla morte, pervasiva e quotidiana umiliazione rispetto ai padroni israeliani.
Tra le tante ragioni, molte piuttosto oscure, dell’attacco dell’organizzazione Hamas contro Israele credo ci sia anche la disperazione di chi cerca di morire non come un topo in trappola ma almeno combattendo contro chi lo sta portando alla fine. È sufficiente raccogliere alcune notizie da una fonte passabilmente oggettiva come il Televideo RAI per rendersi conto di che cosa stia avvenendo al popolo palestinese in quella che era ed è la sua terra.

Rappresaglia e stragi:

Assedio contro i palestinesi, definiti «animali umani»:

Richiesta da parte dell’attuale ministro italiano dell’istruzione di comminare pene detentive contro gli studenti che «inneggiano a Hamas»:

Bombe israeliane su un mercato palestinese:

Aggiungo una riflessione del tutto ragionevole del collega Andrea Zhok, professore associato di Filosofia morale alla Statale di Milano:

Chiudo con una pagina del numero 54 (anno XXVII, luglio/agosto 2023) della rivista Indipendenza, pagina nella quale Neturei Karta International (una associazione internazionale di ebrei ortodossi) condanna in modo assai chiaro il sionismo dello stato di Israele, giudicandolo incompatibile con la fede e con l’identità ebraiche.

Palestina on Fire

Tel Aviv on Fire
(Il banale titolo italiano è Tutti pazzi a Tel Aviv)
di Sameh Zoabi
Lussemburgo, Francia, Belgio, Israele 2018
Con: Kais Nashif (Salam), Yaniv Biton (Assi), Lubna Azabal (Tala), Maisa Abd Elhadi (Mariam)
Trailer del film

Tel Aviv è in fiamme per la Guerra dei Sei Giorni che nel 1967 vide la sconfitta del popolo palestinese e dei suoi alleati, sancendo così la nakba del 1948; Tel Aviv è in fiamme per il muro che fa della Striscia di Gaza una prigione a cielo aperto che rinchiude milioni di persone; Tel Aviv on Fire è anche una soap-opera seguitissima da arabi ed ebrei. Salam dà un contributo minimo a questa serie televisiva, come ‘esperto di cultura ebraica’. In uno dei suoi quotidiani transiti al confine israelo-palestinese, per trarsi d’impaccio dice all’ufficiale israeliano, mentendo, di essere lo sceneggiatore della commedia. Assi, l’ufficiale, comincia a proporgli sviluppi, battute, una vera e propria sceneggiatura, anche allo scopo di compiacere la moglie, che non perde una puntata del programma. Salam è chiaramente nei guai, non essendo lui il vero autore della serie televisiva ma, nonostante la sua chiara imbranataggine, riesce a cavarsela con un’idea davvero imprevedibile.
Il film di Sameh Zoabi affronta con toni da commedia la tragedia palestinese ma non manca certo di far emergere l’arbitrio e la ferocia della potenza militare occupante. Lo sguardo di Salam, perduto sino ad apparire spento e tuttavia resistente, è una efficace metafora della debolezza e insieme della forza di un popolo che il mondo ha lasciato da solo a combattere per non essere cancellato dalla faccia della Terra.

Cuori pesanti

The Idol
di Hany Abu-Assad
Palestina, Qatar, Gran Bretagna, 2015
Con: Tawfeek Barhom (Muhammad Assaf), Hiba Attallah (Nour bambina), Nadine Labaki
Trailer del film

A Gaza non è facile vivere e sopravvivere. Tanto più sembra impossibile aspirare a vincere il più importante concorso televisivo musicale che si tiene in Egitto:  Arab Idol. Ma Muhammad Assaf e sua sorella Nour sono abituati a correre, correre, correre, per sfuggire ai soldati e per raggiungere i loro sogni. Quando una malattia ferma la vitale e simpaticissima Nour, il fratello fa di tutto per regalare a lei e a se stesso il sogno. E ci riesce superando in modo rischioso e rocambolesco gli ostacoli più diversi: il muro eretto da Israele, la scarsità di risorse tecniche, l’intransigenza islamista, la rassegnazione. La sua bella voce gli apre le porte, la fortuna, la libertà.
Il film racconta una vicenda realmente accaduta, quella di un ragazzo diventato icona spettacolare del possibile riscatto di un popolo -i palestinesi- umiliato e offeso. Più fresco nella prima parte, quando Muhammad e Nour sono ragazzini, e più drammatico nella seconda, The Idol è certo un po’ televisivo e melodrammatico ma ha il merito di farci conoscere meglio la tragedia e la tenacia di un popolo che rischia il genocidio e i cui giovani anarchici hanno scritto un Manifesto dove si possono leggere parole come queste: «Siamo giovani dai cuori pesanti. Ci portiamo dentro una pesantezza così immensa che rende difficile anche solo godersi un tramonto. Come possiamo godere di un tramonto quando le nuvole dipingono l’orizzonte di nero e orribili ricordi del passato riaffiorano alla mente ogni volta che chiudiamo gli occhi? Sorridiamo per nascondere il dolore. Ridiamo per dimenticare la guerra. Teniamo alta la speranza per evitare di suicidarci qui e adesso. Durante la guerra abbiamo avuto la netta sensazione che Israele voglia cancellarci dalla faccia della Terra» (Libertaria 2016, Mimesis, Milano 2016, p. 106).

Valzer con Bashir

di Ari Folman
(Waltz with Bashir)
Germania, Francia, Israele, 2008
Disegni e animazioni: Yoni Goodman

valzerbashir

Ari Folman racconta la guerra nel Libano del 1982, vissuta da soldato diciannovenne dell’esercito israeliano. Racconta soprattutto il proprio non ricordare il massacro attuato dai falangisti cristiani con la complicità israeliana nei campi palestinesi di Sabra e Shatila, dove vennero sterminati donne, bambini, vecchi, col motivo di vendicare l’assassinio del leader falangista Bashir Gemayel. Folman ricostruisce i fatti con l’aiuto dei commilitoni e di un giornalista inviato di guerra. Dopo venticinque anni la ferita è ancora aperta in alcuni di loro. C’è chi sogna i 26 cani che ha ucciso perché non rivelassero la presenza dei soldati, chi giustifica tutto in nome del principio gerarchico (la stessa autodifesa di numerosi militari a Norimberga), chi afferma che la guerra è sempre stata questo…

La bellezza del film sta nelle sua tecnica, nei colori cupi e sgargianti coi quali restituisce l’orrore, nell’animazione a volte un po’ meccanica ma più spesso capace di rendere la mescolanza tra la dimensione reale e quella onirica degli eventi, nella profondità dei disegni. Un po’ banale l’insistenza sulla lettura psicoanalitica, necessario appare invece il passaggio conclusivo dall’animazione alla documentazione video di uno degli episodi più orribili del Novecento. È una buona cosa che con questo film, come con Il giardino di limoni di Eran Riklis, una parte della società israeliana cominci a fare i conti con i propri crimini. Meglio ancora sarebbe se non ne perpetrasse altri.

Il giardino di limoni

(Lemon Tree)
di Eran Riklis
Germania/Francia/Israele, 2008
Con: Hiam Abbass (Salma Zidane), Doron Tavory (Il ministro Israel Navon), Rona Lipaz-Michael (Mira Navon),  Ali Suliman (Ziad Daud)

giardino_limoni

 

Il ministro israeliano della difesa prende casa proprio al confine tra Israele e la Cisgiordania. Al di là abita una vedova che coltiva il limoneto lasciatole dal padre. Il destino del luogo è segnato e lo è, ovviamente, per «imprescindibili ragioni di sicurezza» che richiedono lo sradicamento degli  alberi. Aiutata da un giovane avvocato, Salma riesce a portare il caso sino alla Corte suprema di Gerusalemme. Si pone dalla sua parte anche la moglie del ministro, reclusa quasi quanto la sua vicina palestinese…

Gli alberi sono un simbolo. Raffigurano pace, convivenza, dignità. Tutte parole vuote dentro e dietro quel lungo e terribile muro che Israele ha eretto fra sé e la giustizia. Un Paese e degli uomini che hanno paura degli alberi non avranno mai pace. Il film è attento alle relazioni personali oltre che alla situazione politica della Cisgiordania. Ne risulta un’opera forse un po’ edulcorata rispetto alla realtà di un’occupazione brutale di territori altrui. Ma è un buon segno che il film sia di produzione israeliana -come il regista- e la protagonista sia un’attrice palestinese meritatamente nota.
Una piccola prepotenza come sineddoche di un sopruso ormai antico.

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