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Inno a Dioniso

Museo Archeologico
Museo della cultura bizantina

Thessaloníki

Mosaici, colonne, statue, porte, tombe, meravigliosi gioielli, oggetti d’uso quotidiano, descrivono le esistenze e le tonalità di vita degli antichi abitanti di Thessaloníki. L’ideale della bellezza femminile era esattamente l’inverso di quello attuale. Esso consisteva infatti nel mantenimento di una pelle bianchissima: «For this reason, upper-class women avoided the Sun».
Thessalonìki_Museo_archeologico_erosAssai diverso era anche il modo semplice e naturale di vivere la sessualità. Su vasi e altri oggetti, infatti, sono dipinte delle esplicite scene erotiche; qualcosa che nelle società cristiane sarebbe semplicemente pornografia. Dalle steli funerarie -davvero numerose in questo museo- non traspare nessuna angoscia ma, semmai, la malinconia del saluto. È che Thessaloníki dedicava un particolare culto a Dioniso e ad Asclepio. Il cratere Derveni narra in modo splendido le nozze di Arianna e Dioniso, è un vero e proprio «hymn to the god Dionysus».
Il vicino Museo della cultura bizantina raccoglie nelle prime sale la prosecuzione del mondo classico in quello cristiano. Significativa testimonianza di tale compenetrazione non sono soltanto le architetture religiose ma anche il fatto che cristiani e pagani fossero sepolti negli stessi cimiteri. Poi il dominio politico dei cristiani e il loro esclusivismo biblico posero fine a tale molteplicità e moltiplicarono i segni del lutto e della tristezza. Le croci nazarene sostituirono il Sole pagano. E fu il tramonto di un mondo dedito alla Bellezza. Ma gli dèi sanno aspettare.

Jahvé

Il manifesto del 1 agosto 2015 ci informa di come dei coloni ebrei abbiano dato fuoco a una casa palestinese in Cisgiordania. Un bambino di 18 mesi è morto bruciato vivo. I genitori e un fratello di 4 anni sono ricoverati in ospedale.
Ali Dawabsheh è stato bruciato vivo a 18 mesi di vita. Eretz Yisrael, il Grande Israele promesso da Jahvé il maledetto ai suoi fanatici credenti, continua a mietere vittime in modo atroce. Con questa fede, nata nei deserti del Vicino Oriente, si è generato il culto dell’Uno contro la gloria della Differenza, si è generato il monoteismo più intransigente contro l’apertura pagana alla molteplicità degli dèi. Dall’ebraismo sono scaturiti il cristianesimo e l’islam, le tre forme della più radicale violenza che la storia mediterranea abbia conosciuto.
Céline ha ragione: «Bibbia il libro più letto del mondo…più porco, più razzista, più sadico che venti secoli di arene, Bisanzio e Petiot mescolati! …di quei razzismi, fricassee, genocidi, macellerie dei vinti che le nostre più peggio granguignolate vengono pallide e rosa sporco in confronto» (Rigodon, Einaudi 2007, p. 14).

Dio

aristotele_2La filosofia è per Aristotele conoscenza delle cause, degli elementi, dei principi primi del reale. Il mondo, infatti, è assai complesso e i concetti che cercano di darne conto non sono mai univoci. Anche per questo nella Fisica (trad. di A. Russo e O. Longo, Laterza 1983) lo Stagirita afferma che a dirsi «in molti modi» non è soltanto l’essere (A, 185 a) ma anche l’uno (A, 185 b), il divenire (A, 190 a), le cause (B, 195 a). Agli «antichi» che, «spinti dalla loro inesperienza» (A, 191 a), cercarono un principio o una modalità unica del divenire e dell’essere, Aristotele oppone delle indicazioni metodologiche molto precise. In generale, la sensazione è in grado di apprendere il particolare, il “pensiero” -invece- l’universale (A, 189 a); coniugando dunque sensazione e pensiero Aristotele cerca di costruire una teoria completa e plausibile del cielo, del movimento e del tempo.
«Che la terra sia immobile, valga per ammesso» (De caelo, Ivi, B, 289 b); qui l’empirismo mostra tutta la propria efficacia come anche i suoi limiti. Il constatare con i sensi l’immobilità e la centralità della Terra non rende per questo meno falsa tale concezione; avevano maggior ragione, invece, i Pitagorici con il loro fare “mistico e matematico”, poiché ritenevano «che al centro è posto il fuoco, mentre la terra è uno degli astri, e si muove in circolo attorno al centro, producendo in tal modo la notte e il giorno» (De caelo, B, 293 a).
Tra le due ipotesi alternative della sfericità o piattezza del nostro pianeta, Aristotele opta per la prima: la Terra è «una sfera non molto grande, perché altrimenti non renderebbe così rapidamente visibile il mutamento degli astri, quando noi ci spostiamo di così poco» (De caelo, B, 298 a). Incorruttibile, ingenerato, eterno, il cielo è mosso di moto uniforme (De caelo, B, 289 a), formando con la Terra tutta la materia; la quale è soggetta a trasformazione sul nostro pianeta e che invece nel resto del cosmo è immodificabile perché perfetta. Fuori del cielo non si dà luogo, né vuoto, né tempo.
L’eternità del movimento è gemella dell’eternità del tempo. Una tesi, questa, che separa con chiarezza la prospettiva aristotelica da quella cristiana, in particolare agostiniana, per la quale il divino è fuori dal tempo. Per Aristotele, invece, il divino è il tempo stesso: «Ma se sono impossibili l’esistenza e il pensiero del tempo senza l’istante, e se l’istante è una certa medietà e ha simultaneamente principio e fine -principio del futuro, fine del passato-, è necessario, allora, che ci sia sempre un tempo […] Ma se c’è un tempo, è ovviamente necessario che ci sia anche un movimento, dato che il tempo è un’affezione del movimento» (Θ, 251 b).
Tuttavia non è di solo movimento che il tempo si compone. Aristotele coniuga infatti il tempo della materia con quello della psiche. Lo Stagirita riconosce un’aporia di fondo che fa apparire il tempo come esistente e insieme inesistente poiché «una parte di esso è stata e non è più, una parte sta per essere e non è ancora. E di tali parti si compone sia il tempo nella sua infinità, sia quello che di volta in volta viene da noi assunto. E sembrerebbe impossibile che esso, componendosi di non-enti, possegga un’essenza» (Δ 218 a). Impalpabile e sfuggente, il tempo sembra anche motore della corruzione e della fine (Δ 221 b e 222b) ma soprattutto esso è presente ovunque e «in ogni cosa, sulla terra e nel mare e nel cielo» (Δ 223 a).
Nel mondo oggettivo della quantità, il tempo irrompe con la misura scandita dalla mente:

Si potrebbe, però, dubitare se il tempo esista o meno senza l’esistenza della mente. Infatti, se non si ammette l’esistenza del numerante, è anche impossibile quella del numerabile, sicché, ovviamente, neppure il numero ci sarà. Numero, infatti, è o ciò che è stato numerato o il numerabile. Ma se è vero che nella natura delle cose soltanto la mente o l’intelletto che è nella mente hanno la capacità di numerare, risulta impossibile l’esistenza del tempo senza quella della mente […]. Ma il prima e il poi esistono in un movimento, e appunto essi, in quanto sono numerabili, costituiscono il tempo. (Δ 223 a)

L’ordine fisico e la razionalità matematica della Natura trovano dunque nel tempo il loro emblema, la realtà più piena, la prova della unità di ogni ente e dimensione. Tempo e movimento, insieme, costituiscono ancora una volta l’eternità. Tale è il cosmo ordinato dei Greci: eterno come il tempo, essendo il tempo Dio.
Oltre che del movimento, il tempo è anche «numero della sfera, perché mediante questo si misurano gli altri movimenti ed il tempo medesimo» (Δ 223 b). Una circolarità che coniuga la mente e l’Universo nell’istante eterno: «Anche questo nome di αἰών si direbbe pronunciato dagli antichi quasi per divina ispirazione: si dice infatti αἰών di ciascuno l’ultimo termine che circoscrive il tempo di ogni singola vita, al di fuori del quale non c’è più nulla secondo natura. Parimenti, anche il termine perfetto di tutto il cielo, che contiene ed abbraccia la totalità del tempo e l’infinità di esso, anche questo si dice αἰών, e prende questo nome da αιει εἶναι [essere sempre], immortale e divino» (De caelo, A, 279 a).
La materia è eterna, il tempo è sempre. Materia e tempo sono Dio.

Leonardo / L’intero

Leonardo da Vinci 1452-1519
Palazzo Reale – Milano
Sino al 19 luglio 2015

Il mondo di Leonardo da Vinci. Una parte, certo, di quel mondo ma esposta con cura e in un intelligente percorso, che si snoda soprattutto attraverso i disegni. Vi sono il suo maestro Andrea del Verrocchio e i contemporanei Filippino Lippi, Botticelli, Perugino, Bramante, Luca Pacioli. Vi sono -nelle due ultime sezioni- l’eredità di Leonardo (con gli allievi che dimostrano l’abisso che c’è tra un artista assoluto e i suoi imitatori) e il mito di Leonardo, con la Gioconda ridipinta da Duchamp, Warhol, Baj e soprattutto con una assai bella Donna con la sua perla, di Corot (1858-1868 ca. ) decisamente pervasa da spirito leonardesco.
Quest’uomo fu pittore, ingegnere, mago, filosofo. Fu una confluenza di storia e natura. Leonardo raccolse il mondo antico, con il quale il suo confronto fu costante, nonostante non conoscesse né il greco né il latino. L’Uomo vitruviano sta lì a dimostrarlo con la potenza della sua perfezione geometrica. Ma sempre per Leonardo «l’imitazione delle cose antiche è più laudabile delle moderne».
Storia sono gli eventi che Leonardo dipinse, la varietà di invenzioni già in parte progettate da ingegneri precedenti o coevi ma portate da Leonardo a una plausibilità tecnologica che non aveva più nulla di fantasioso. Storia sono anche l’astrologia e l’esoterismo, da Leonardo coltivate con la curiosità che sempre immetteva nella vita. Storia sono alcuni sorprendenti disegni ideali: città a livelli sovrapposti, altre con canali perpendicolari tra di loro, una Milano divisa in 10 sezioni. La bellissima Città ideale di Anonimo conservata a Urbino (e qui esposta ) non è la città di Leonardo, al quale interessava sempre anche la realizzabilità di tutti i suoi progetti. E gli interessava soprattutto l’unità dei saperi, riflesso e forma dell’unità del mondo.
Per Leonardo infatti arte e scienza coincidono anche perché l’arte è il modo più profondo ed efficace di comprendere e comunicare la natura. L’unità del mondo naturale e artificiale non è un concetto, non è un’ipotesi o un auspicio. Per Leonardo è una realtà. I riccioli del Battista, ad esempio, sono fluidi come acqua che scorre tra le terre. La pittura è per lui «figlia di natura» e la natura è energia senza posa che produce, annienta, trasforma ogni essente.
Dai grandi affreschi ai piccolissimi disegni, l’artista dedica alle sue opere la stessa cura, la medesima potenza. Perché la pittura è soprattutto «cosa mentale». I ritratti, ad esempio, restituiscono i «moti mentali» della persona. Così, il Ritratto di musico (1485 ca.) è collocato in questa mostra accanto al folgorante Sorriso dell’ignoto marinaio di Antonello da Messina. E sembra di entrare nei pensieri stessi degli umani. Umani dei quali Leonardo coglie con implacabile rigore anche l’inconsistenza. Le Cinque teste grottesche sembrano una plastica testimonianza dei tanti, dei troppi, i quali «altro che transito di cibo e aumentatori di sterco -e riempitori di destri- chiamar si debbono» (Leonardo, Pensiero 111, in Scritti letterari, a cura di A. Marinoni, Nuova edizione accresciuta con i Manoscritti di Madrid, Rizzoli, 1991, p. 76). Di fronte a costoro si levano i pochi che conducono una vita tale da potersi definire compiuta in qualunque momento essa si interrompa. Sono i pochi capaci di capire e di esser giusti, che per il socratico Leonardo è la stessa cosa. Questi uomini sono i «salvatici» e cioè «quel che si salva», coloro per i quali «imparare a vivere» coincide con l’«imparare a morire» (Pensieri 98 e 90, ivi, pp. 74 e 73).
Il naturalismo di Leonardo è uno dei fondamenti di una una moralità tanto rigorosa quanto concreta che identifica lo specifico dell’essere umano nell’azione e nel conoscere, nel porsi di fronte all’esistenza in modo sempre attivo e realistico, nel rifiuto di ogni inutile crudeltà. Leonardo era infatti vegetariano. Ed era un pagano. Il quale dipinge una potente Leda abbracciata al Cigno, con i quattro gemelli da lei generati (Elena, Clitemnestra, Castore e Polluce). Anche nella copia non leonardesca degli Uffizi questa donna ha lo stesso sguardo di una madonna. Sguardo che nel ritratto di Lucrezia Crivelli diventa movimento del corpo e degli occhi. Nel mondo di Leonardo il cristianesimo è paganizzato, l’essere è divenire.

Foristeri

Teatro Greco – Siracusa
Le Supplici
da Eschilo
Adattamento scenico in siciliano e greco moderno di Moni Ovadia, Mario Incudine, Pippo Kaballà
Musiche di Mario Incudine
Regia di Moni Ovadia
Con: Mario Incudine (Cantastorie), Angelo Tosto (Danao), Donatella Finocchiaro (Prima Corifea), Moni Ovadia (Pelasgo), Marco Guerzoni (Araldo degli Egizi)
Scene Gianni Carluccio
Costumi Elisa Savi
Sino al 28 giugno 2015

I cinquanta figli di Egizio sono decisi a prendere le cinquanta cugine Danaidi, anche contro la loro volontà. Le ragazze e il loro genitore fuggono e cercano rifugio ad Argo, terra d’origine di Io, loro antenata amata da Zeus e per questo perseguitata in tutti i modi da Era, anche quando Zeus trasforma la ragazza in giovenca per nasconderla agli occhi della dea. Le sue discendenti supplicano ora Pelasgo di dare loro ospitalità; dopo qualche titubanza il re la concede, anche se questo significherà guerra certa con gli Egizi.
Le Supplici descrive dunque la ἀνδρών ὕβριν (v. 528), la dismisura del maschio che non sa fare dell’Eros qualcosa di diverso rispetto all’accoppiamento che genera altri umani, altro dolore. I Greci sanno infatti che «iridescenti sono i guai» e «sempre cangiante tu vedrai l’ala del dolore» (vv. 328-329, trad. di Franco Ferrari).
Di tutto questo, e di molto altro, nulla resta nelle Supplici di Moni Ovadia e del compositore Mario Incudine. L’idea della contaminazione etnica, del testo tradotto in siciliano e in greco moderno, trasformato in canto (ritmate e cantate erano infatti in Grecia le tragedie) sarebbe stata molto interessante ma la musica è assolutamente inadatta, sviante, banale. Ovadia e Incudine avrebbero potuto optare per dei ritmi arcaici, o per delle cadenze orientali, o per strutture sperimentali. Per qualcosa che in ogni caso potesse restituire la distanza dei Greci. E invece la musica è quasi quella folcloristica tipo «Sciuri sciuri». Mi ha ricordato coloro che nel mio paese d’origine vengono chiamati i foristeri, venditori ambulanti di frutta e verdura che arrivano dai paesi limitrofi e si fanno notare per le strade diffondendo ad alto volume canzoni siculo-napoletane. In quel contesto va benissimo ma non altrettanto per i foristeri di cui parla Eschilo, la cui tragedia viene utilizzata come strumento di una visione del mondo «umanistica», vale a dire quanto di più lontano ci sia dall’Ellade.
Le-Supplici.-Donatella-Finocchiaro-ph-Maria-Pia-BallarinoSe gli Elleni «di nessun uomo si dichiarano schiavi, di nessun uomo sudditi» (v. 242), è perché la loro non è una libertà soltanto politica, non è la «democrazia» come la si spaccia lungo tutto questo spettacolo ma è una radicale libertà dalla consolazione, dalla speranza, dall’illusione dell’istante che si tramuta in disperazione del sempre. I Greci riconoscono la potenza, la liceità, la naturalità del desiderio che produce «la freccia di seducente sguardo» (v. 1005) ma sanno anche che solo un’entità non umana può evitare il dolore che ogni desiderio, anche realizzato, porta con sé. Sanno che soltanto «ogni atto dei numi è senza pena» (παν απονον δαιμόνιον, v. 110) e mai gli atti degli umani. Tutto questo rimane qui radicalmente estraneo, foristeri.

Cattolico

Piccolo Teatro Studio – Milano
Divine parole
(Divinas palabras)
di Ramón María del Valle-Inclán
Regia di Damiano Michieletto
Con: Fausto Russo Alesi (Pedro Gailo), Federica Di Martino (Mari Gaila), Marco Foschi (Séptimo Miau), Sara Zoia (Juana la Reina), Lucia Marinsalta (Poca Pena / Benita), Bruna Rossi (Rosa la Tatula), Cinzia Spanò (Marica del Reino), Gabriele Falsetta (Miguelin el Padronés), Nicola Stravalaci (Il cieco di Gondar / Milon), Petra Valentini (Simoniña)
Traduzione di Maria Luisa Aguirre d’Amico
Scene Paolo Fantin – Luci Alessandro Carletti
Produzione Piccolo Teatro di Milano – Teatro d’Europa
Sino al 30 aprile 2015

DivineParole_RussoAlesiDiMartinoValentini©MasiarPasqualiJuana la Reina campa portando nelle strade, nelle chiese, nei mercati il proprio bambino nano e idrocefalo, per il quale chiede l’elemosina. Morta lei lungo un sentiero, fratello e sorella si contendono «il carrozzino», fonte di guadagno. Se ne spartiscono la gestione sino a che la moglie del fratello -sagrestano della chiesa e del cimitero del paese- non affida il bambino ad altri per stare un poco con il suo amante, un satanico avanzo di galera, che vive di violenza e di oroscopi. Fatto ubriacare, il bimbo muore, alcuni maiali ne divorano la testa, la donna viene scoperta e portata davanti al marito per la condanna. Il sagrestano però conosce il latino e dice, grida, sussurra «Qui sine peccato est vestrum primus in illam lapidem mittat».
Ambientato letteralmente nel fango di cui tutti i personaggi si macchiano e si impregnano (straordinaria la prestazione fisica degli attori), questo spettacolo cupo nella carne, privo totalmente di ironia, posto dall’inizio alla fine sotto il segno del peccato, è una perfetta rappresentazione della visione cattolica del mondo. È infatti talmente intrisa di fede cattolica la cultura europea che essa emerge anche in autori, testi e registi che da essa sono esplicitamente lontani. Ramón María del Valle-Inclán (1866-1936) fu uno degli scrittori ribelli e repubblicani della Spagna nell’apogeo della sua decadenza. Ma bevve evidentemente la superstizione cattolica  con il latte materno. Qui c’è tutto, infatti: gli ultimi, i poveri, i pezzenti ai quali le divinas palabras dei Vangeli sono destinate, che essi le ascoltino o meno. C’è l’esistere come sacrificio, il sesso come peccato, la punizione del peccatore e la misericordia verso la peccatrice. E poi quella frase che campeggia alla fine e che è evidentemente priva di qualunque senso -applicata alle società le distruggerebbe immediatamente-, o meglio ha il significato di affidare alla vita oltre la morte il compimento della vera giustizia.
Damiano Michieletto è il regista di un recente e splendido Ispettore generale; qui però abbraccia totalmente l’ideologia pezzentesca e funerea del testo, sino a -giustamente- tappezzare la scena di sacricuoridigesù. In un’intervista, Michieletto afferma che in Divinas palabras «la religione è vista in maniera misteriosa, folcloristica, pagana, e sempre in un dialogo continuo con la morte» (Programma di sala, p. 9). Ossessionata dalla morte come punizione del peccato, certamente; folcloristica non saprei; di misteriosa c’è forse l’intenzione; di pagano non c’è davvero niente. Espressione, piuttosto, dell’orrore cattolico verso la vita, che intesse quella fede nonostante essa dichiari il contrario. Un miserabile castigo di Dio, insomma.

Heidegger in Grecia

soggiorni_2Possiamo incontrare gli dèi ogni volta che il nostro muoverci e il nostro stare assume la forma del soggiorno. È questo il senso del viaggio compiuto da Heidegger in Grecia nel 1962. Un percorrere territori che fu un andare alla radice del suo pensare, un vedere in cui –nella dinamica del nascondimento che si mostra- l’ἀλήθεια, la verità, finalmente risplende nel corpomente, attraversato dalla vibrazione del sacro in cui il divino consiste.
Oltre l’archeologia, al di là della storiografia, il viaggio filosofico coglie la pienezza del soggiornare. Così a Neméa, in quell’ampia distesa dove le poche colonne rimaste del tempio di Zeus vibrano «come le corde di una lira invisibile dalla quale, forse, i venti traggono melodie di canti funebri che i mortali non riescono a udire –eco della fuga degli dèi» (Martin Heidegger, Soggiorni. Viaggio in Grecia [Aufenthalte, 1989], trad. di Alessandra Iadicicco, Guanda 1997, p. 24).
Partito da Venezia in nave, Heidegger tocca le prime isole –Cefalonia, Itaca-, poi Olimpia, Corinto, Creta, Rodi…ma in nessuno di questi luoghi trova ciò che sembra cercare. Finché non gli si apre Delo –la Manifesta- e il senso del viaggio si compie. Nell’isola deserta, assolata e silenziosa, si raccoglie e si nasconde il segreto della Luce. Quel luogo «custodisce il sacro e lo difende contro l’assalto di tutto ciò che è empio» (37), luogo intatto, rimasto libero dalla «crescente desolazione dell’esserci moderno» (50). L’Isola di Apollo è il cuore pulsante della Grecia –lo era un tempo, lo è per sempre- poiché in essa splende «quella inconfondibile luminosità dell’esserci greco, che cela e preserva in sé l’oscurità del destino» (55).
Il nostro destino, il Geschick del presente, vive nel rischio costante dell’insensatezza, proprio perché la ὕβρις –la tracotanza degli apparati tecnici- è per Heidegger l’opposto di ogni soggiornare, è un rubare alla Terra ciò che la Terra offre, senza riconoscere però, in cambio, la sua sostanza sacra. Questo significa che gli dèi sono fuggiti dal nostro spazio di vita, lasciando nella desolazione più profonda –perché inavvertita- ogni nostra impresa, ogni fare, ogni conquista.
Non alla ricerca dei singoli luoghi, dunque, è volta l’intenzione del filosofo ma all’interezza dello spazio greco, lo spazio in cui il divino soggiorna nella pienezza che si sottrae e che lo fonda. Ad Atene, quindi, va oltrepassata la caligine che nasconde quanto rimane della città antica, in modo da –entrati nello spazio della dea eponima- poter sentire quel «bagliore inafferrabile» che «comincia a far oscillare l’intera costruzione» e che la solleva «in una presenza saldamente delimitata, intimamente fusa con le scogliere che la sostenevano. Quella presenza era colma dell’abbandono del santuario. A esso, invisibile, si avvicinò l’essenza della dea fuggita» (46-47). La stessa apertura all’enigma, che nascondendosi si rivela, Heidegger la vive a Capo Soúnio, dove «le poche colonne ancora in piedi offrivano al vento le corde di una lira invisibile: le faceva vibrare il dio di Delo che guarda lontano per accompagnare il canto che echeggiava sull’arcipelago delle Cicladi» (49).
Al centro del viaggio sta dunque Apollo, il dio «che trasformò l’elemento selvaggio e conciliò la sofferenza» (30) ma il libro si chiude con Delfi, il soggiorno si compie nel nome di Dioniso. Delfi non è i suoi specifici luoghi, i templi, i tesori, le fonti. Delfi è l’intero, la cui luce «non giungeva dai resti dei templi o dagli scrigni dei tesori, né dalle costruzioni disseminate lungo il pendio fino alla vetta, ma irraggiava dalla grandiosità della contrada stessa» che «sotto l’alto cielo dove l’aquila, uccello di Zeus, volteggiava attraverso l’aria chiara, si apriva come il tempio» (57-58). Delfi che Heidegger paragona alla coppa Exekías, con i delfini che accompagnano Dioniso. Quella coppa, Delfi e la Grecia tutta riposano «entro i limiti propri della splendida raffigurazione […], il luogo della nascita dell’Occidente e dell’epoca moderna, nascosto nel mondo insulare che lo circonda, resta affidato al pensiero rammemorante del soggiorno» (63).
Il soggiorno di Heidegger –in Grecia, nel mondo, nella filosofia- si configura così come un abitare il Tempo in forma pienamente pagana e cioè nei modi di un vivere familiare, iniziale, straordinario eppur misurato: «Quel soggiorno resterà irripetibile. Eppure non è trascorso» (44). Non lo è e non lo sarà. Con il viaggiare e con il tornare, Heidegger conferma ciò che ha sempre saputo, che «l’intera Grecia antica si trasformò in un’unica isola richiusa in se stessa e separata dal resto del mondo noto e ignoto. Il congedo dalla Grecia divenne l’avvento della Grecia. Ciò che era sopravvissuto portando con sé la garanzia del proprio restare fu il soggiorno degli dèi fuggiti che si apre al pensiero rammemorante» (62).
Di questo soggiornare, la filosofia è forma suprema.

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