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«Quell’antica luce risplende ancora»

Werner Jaeger
PAIDEIA. La formazione dell’uomo greco.
Vol. III Il conflitto degli ideali di cultura nell’età di Platone
(Paideia. Die Formung des griechiscen Menschen, Walter de Gruyter e Co., 1947)
Trad. di Alessandro Setti
La Nuova Italia, 1990
Pagine 540

Il grande affresco sulla παιδεία si chiude (dopo il volume I e volume II) confermando la complessa unitarietà della cultura e dell’antropologia greca nella quale etica, medicina, politica e arte fanno tutt’uno, pur rimanendo distinti nella conoscenza. Anche per questo l’immagine di Platone come puro dialettico è certamente errata. Già vecchio, egli si sottopone alla fatica di un terzo viaggio a Siracusa per confermare la praticabilità del progetto politico della Repubblica. Diversamente da quanto spesso si ripete, per Platone il corpo non è soltanto σῆμα della mente ma anche elemento imprenscindibile nella formazione dell’essere umano. La medicina greca non si compone di una molteplicità di saperi specialistici, dedicati alla cura di morbi particolari ma guarda all’armonia del corpomente. La malattia consiste precisamente nello spezzarsi di tale armonia. «In questo senso superiore l’ideale greco della cultura umana può definirsi anche come l’ideale dell’uomo sano» (pag. 76). Platone pone sempre l’accento sull’azione, sul vivere, su una corrispondenza stretta e costante fra il pensare e l’essere.
Jaeger difende l’autore delle Leggi dalle accuse che questo dialogo ha ricevuto di eccentricità, pedanteria o -con Popper- di totalitarismo. Egli mostra come anche nell’ultimo suo dialogo Platone avversa l’accentramento del potere nelle mani di uno solo. Lo studioso esorta a paragonare la teocrazia platonica non agli stati moderni ma a quell’impresa educativa che è la chiesa cattolica. Emerge qui la dimensione religiosa della lettura di Jaeger, vicina a quella di Eric Voegelin, il quale in Order and History fa anch’egli di Platone una sorta di profeta del cattolicesimo. Quella lettura di Voegelin non mi convinse e non mi persuade neppure questa parte dell’interpretazione di Jaeger, per numerose ragioni. La principale è che Platone vuole fondare un’istituzione educativa -lo stato- in questo mondo e non una chiesa rivolta per definizione a preparare alla trascendenza. Le forme ideali platoniche sono l’essenza degli enti mondani, non la fase propedeutica alla santità del cielo.
Ma Platone è solo uno dei protagonisti di questo volume. Gli si affiancano Isocrate, Senofonte, Demostene. Nella diversità e persino nel conflitto delle loro posizioni politiche –basti pensare al filomacedone Isocrate contrapposto all’intransigenza di Demostene verso le imprese di Filippo- pulsa la stessa dimensione educativa del sapere e la medesima visione aristocratica del mondo e della παιδεία.
Come per i Sofisti, anche per Isocrate sono tre i fondamenti dell’azione educativa: la natura, l’apprendimento e l’esercizio. Se uno dei tre viene a mancare, essa non può che fallire. Indispensabile è dunque l’insegnamento, ma esso risulta efficace solo dove la natura -e cioè il biologico- ha predisposto un terreno adeguato all’impresa. Si deve anche a questa realistica consapevolezza se in Atene, «città incomparabile» (85), «si raggiunse una media culturale così alta» (75). Isocrate ebbe il merito di sostituire alla antica nobiltà di nascita «una nuova aristocrazia intellettuale» (264). La perennità della παιδεία ellenica è inseparabile da un sentimento elitario della vita.
Se «quell’antica luce risplende ancora» (513) si deve anche a un legame fortissimo con la dimensione naturale dell’uomo. Da qui nasce un’antropologia del possibile e del raro, un umanesimo tanto pervasivo ed esigente quanto lontano dal pregiudizio umanistico dei moderni.

Anarchismo e paganesimo

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Anarchismo e paganesimo
in «Nel nome di nessun dio – Libertaria 2016»
a cura di Luciano Lanza
(Mimesis Editore, 2016, pp. 250)
Pagine 132-151

Pdf del testo

«Il paganesimo costituisce, nella varietà delle sue espressioni storiche che vanno dall’Oriente e dal Mediterraneo antichi sino ai politeismi polinesiani e africani, una forma nella quale l’umano esplica la propria tensione verso l’intero, prima di ogni dualismo e oltre ogni speranza»

Giallo

E.I.A.E. Et in Arcadia Ego
Fotografie di Giovanni Chiaramonte – Poesie di Umberto Fiori
Cucine del Monastero dei Benedettini – Catania
A cura di Sebastiano Favitta
Sino al 26 marzo 2016

Chiaramonte_Potsdam_1Il giallo di un eterno autunno, luminoso. Le Rovine, le Regge, la Natura tra Potsdam e Berlino. Lo sguardo di Giovanni Chiaramonte su tutto questo è sempre laterale, mai monumentale, straniante. Gli edifici, gli alberi, le architetture, i giardini della Germania del Nord appaiono immersi in un bagliore mediterraneo, nel lucore del meriggio panico, di quell’istante che è la vita nella sua pienezza tragica, nel suo essere qui, ora, senza senso alcuno al di là di se stessa, poiché Pan è l’identità animale di un umano che non è «soltanto occidentale, moderno, laico, civilizzato e ragionevole, ma anche primitivo, arcaico, mitico, magico e pazzo» (James Hillman, Saggio su Pan, Adelphi 2005, p. 32).
Nella pervasività del giallo di Chiaramonte gli spazi teutonici vengono metamorfizzati in un sogno ellenico. Persino la Porta di Brandeburgo è irriconoscibile e tutto è trasformato nella dolcezza della quale parla Qoèlet: «Dolce è la Luce e agli occhi piace vedere il Sole» (11,7).
L’Arcadia del nostro contento è questa, è l’eco della provenienza, perché -scrive Chiaramonte- «l’esistenza di ogni uomo e di ogni donna vive in realtà l’irreparabile divisione tra il luogo del proprio inizio e il luogo dell’origine: la vera dimora, fotografia dopo fotografia, mi è apparsa così l’incessante migrazione che ogni istante, ciascuno di noi deve compiere tra il luogo del proprio inizio e il luogo da sempre perduto dell’origine». La nostra dimora è il Tempo. Colonne, giardini, templi e ogni altro luogo sono le sue stanze.

Il funesto demiurgo

Il funesto demiurgo
di Emil Cioran
(Le mauvais démiurge, Gallimard 1969)
Trad. di Diana Grange Fiori
Adelphi 1991 (1986)
Pagine 161

«Conoscere è discernere la portata dell’Illusione» (p.153). In questa frase, come in tutto il pensiero di Cioran, convergono numerose esperienze: gnosi, catarismo, Schopenhauer, scetticismo, Stirner, buddhismo. Cioran offre a questo sapere la coerenza del suo modo di esistere e lo scintillio di una scrittura fredda e perfetta.
«Che l’esistenza sia viziata alla sorgente» (11) è il punto d’avvio di questo sedicente «parassita del Peccato Originale» (157). Non si tratta, però, di un dogma iniziale, del principio da cui si deduce un sistema. Si tratta, semplicemente, di una constatazione. I testi di Cioran è di questo fatto che danno conto, indagandolo con la spietata lucidità di un eremita della metafisica. Tutto serve a confermare e spiegare la tristezza del mondo: eventi privati, letture sparse e varie, indagini sui grandi sistemi, osservazioni sugli animali, sogni.
Tra le filosofie alcune emergono evidenti. Fu tipico degli gnostici e dei catari l’orrore per la carne e per l’insensatezza del generare, in quanto stolta imitazione dell’operato del funesto demiurgo che insieme alla vita plasma il dolore. «Procreare significa amare il flagello, volerlo conservare e favorire» (20), moltiplicare la presenza di quell’autentico «punto nero della creazione» che è l’essere umano (22), sterminatore di se stesso e degli altri animali. Quando accenna a questi ultimi, la prosa di Cioran è permeata di grande rispetto, di autentica ammirazione. È infatti una costante di tutte le filosofie antiumanistiche una più esatta e oggettiva valutazione di quel mondo non antropico che non esiste soltanto in funzione nostra.
Altra presenza ben visibile è quella di Schopenhauer. Direi che in ogni assunto di Cioran c’è qualcosa della sua saggezza. Qui, ad esempio, emergono le due idee fondamentali del filosofo di Danzica: il male insito nel principium individuationis, la volontà come fonte prima del dolore («nel benefico caos precedente alla ferita dell’individuazione»; «una sola malattia, la più tremenda di tutte: il Desiderio», pp. 104 e 130).
Lo scetticismo allontana Cioran da ogni discepolato, da qualunque infatuazione, anche per la più cupa delle filosofie, e gli fa apprezzare -segnale emblematico- il secolo dei Lumi. Lo scetticismo, infatti, «è un esercizio di de-fascinazione» per quanto anch’esso possa esser visto come «la fede degli intelletti ondeggianti» (pp. 146 e 152). La verità viene dunque dissolta insieme all’essere. I due temi della metafisica e di ogni filosofia spariscono nel nichilismo radicale di questo pensiero.
Cosa rimane, infatti, dell’essere al confronto con la sapienza del Buddha e con l’idea della morte? Non si tratta solo di respingere «questo mondo, il mondo degli antenati, il mondo degli dèi», come recitano antiche formule orientali (90) ma di pensare ossessivamente alla morte fino a desiderarla, fino al coraggio e alla sapienza dell’unico «bel suicidio. Il solo che meriti questo epiteto è quello che nasce da niente, che non ha un motivo apparente, che è ‘senza ragione’: il suicidio puro» (78-79).
Civiltà del suicidio fu quella classica, dei Greci, dei Romani. Al loro politeismo va la nostalgia di Cioran. Molteplicità di dèi significa più possibilità di scegliere significati e venerazioni, significa maggiore disincanto e tolleranza, vuol dire un clima culturale e religioso più respirabile, vuol dire una società più libera: «Nella democrazia liberale vi è un politeismo soggiacente (o, se si vuole, incosciente) e, inversamente, ogni regime autoritario ha in sé un monoteismo camuffato» (40). Il politeismo pagano possiede, inoltre, la misura dei limiti della Terra e dell’uomo che il cristianesimo ha fatto smarrire nella sua pretesa di un dio incarnato qui e fra noi: «L’Incarnazione è la lusinga più pericolosa di cui siamo mai stati oggetto. Ci ha concesso uno status fuori misura, del tutto sproporzionato rispetto a ciò che siamo. Innalzando l’aneddoto umano alla dignità di dramma cosmico, il cristianesimo ci ha ingannati sulla nostra insignificanza, ci ha precipitati nell’illusione» (43).
Il nichilismo di Cioran è dunque un elogio. Elogio dell’astenersi, elogio degli animali, elogio del paganesimo, elogio della nolontà, elogio anche dell’ignoranza come redenzione da ogni presunzione, elogio della morte su cui la riflessione è continua, martellante. Elogio, infine, del nulla; dell’unico stato lieto, dell’unica possibile felicità: «la dolcezza di prima della nascita, la luce della pura anteriorità» (114).  Ecco dunque la migliore definizione che Cioran abbia forse dato di se stesso: «Frivolo e incongruente, dilettante in tutto, avrò conosciuto a fondo soltanto l’inconveniente di essere nato» (160).
Nella disperata lucidità dei suoi pensieri, Cioran mostra un ultimo paradossale e intimo desiderio di felicità: «Se fossi certo d’essere indifferente alla salvezza, sarei di gran lunga l’uomo più felice che sia mai esistito» (156). È la salvezza, una qualche salvezza, il tarlo vitale di Cioran, la risposta al ‘perché non mi sono ancora ucciso?’. Questa suprema incoerenza ha prodotto i libri di Cioran. Ha prodotto testi e pensieri che schernendo ogni verità, dissolvendo tutto l’essere, si sono accostati più di tanti -come la gnosi, Schopenhauer, Nietzsche, Heidegger- alla più intima verità dell’essere. Sein zum Tode (essere per la morte), la filosofia come riflessione senza timori su ciò che conta, su ciò che in ogni caso è una certezza.

Educare

Werner Jaeger
PAIDEIA. La formazione dell’uomo greco
Vol. I L’età arcaica – Apogeo e crisi dello spirito attico

(Paideia. Die Formung des griechiscen Menschen, 1933)
Trad. di Luigi Emery; trad. degli aggiornamenti di Alessandro Setti
La Nuova Italia, 1978
Pagine XIII-719

Paideia_JaegerIdentità e distanza, eredità ed estraneità, modello e rifiuto sono soltanto alcune delle modalità che caratterizzano l’approccio moderno alla Grecità. Gli studi di Werner Jaeger consentono di comprendere meglio i Greci ma anche il nostro atteggiamento verso di loro. Jaeger si muove, infatti, tra una esplicita presa di distanza da ogni forma di classicismo antistoricistico e la profonda convinzione della natura esemplare del mondo greco. Egli intende costruire una storia della Bildung ellenica che vada oltre l’approccio letterario-formale e oltre quello soltanto politico-storico per cogliere invece i Greci come esperienza assolutamente centrale per l’identità culturale dell’Europa. La compenetrazione fra cultura e politica rappresenta l’orizzonte ermeneutico nel quale Jaeger esplicitamente si pone. Ciò gli consente una lettura corretta e sempre chiarificatrice dei rapporti fra individuo e comunità nel mondo ellenico, evitando indebite attualizzazioni di segno liberale o autoritario, nella consapevolezza della inscindibilità per i Greci di morale pubblica e privata. Anche questo elemento consentì loro di evitare quasi sempre gli eccessi della dipendenza da capi geniali e della subordinazione alla volontà delle masse e dei loro demagoghi.
Fra le chiavi di lettura utilizzate dall’Autore sono importanti: la convinzione della costanza nel tempo, dentro la ricchezza di tutti i suoi sviluppi, della forma originaria dello spirito greco; il suo affondare le proprie radici nella contrapposizione/complementarità di apollineo e dionisiaco; la centralità della misura di contro a ogni υβρις, la continua rammemmorazione dei limiti dell’paideia’educazione, infatti, ha senso soltanto come frutto ed espressione di un progetto sull’umano.
L’originalità educativa dei Greci consiste soprattutto nel fatto che essi non solo possiedono una paideia ma costituiscono nel loro stesso esistere, operare, produrre una paideia fra le più alte e complesse d’ogni tempo. E ciò perché essi sono «il popolo antropoplasta per eccellenza» (p. 15), la cui analisi dell’uomo rappresenta in primo luogo la chiarificazione delle leggi universali della natura umana. Natura umana: è precisamente quanto molti progetti educativi e politici della contemporaneità negano che possa persino esistere, frammentata e dissolta nelle infinite variabili storiche, sociologiche, psicologiche che fanno da alibi alla paura di capire chi e che cosa siamo. Nessuna, forse, delle produzioni culturali elleniche può essere compresa al di fuori di categorie come fato, carattere, necessità. La loro razionalizzazione produsse l’idea centrale di Tucidide -come di Platone- «che le vicende degli uomini e dei popoli si ripetono, perché la natura umana rimane la stessa» (p. 652). L’umano è infatti inseparabile dal cerchio più grande delle cose, dalla struttura generale dell’essere, dalla componente biologica della specie. Eraclito parla di tre anelli concentrici -l’umano, il cosmologico, il teologico- i quali fanno sì che l’umanità sia sottoposta come ogni altro ente alla legge che governa gli eventi.
Il significato pedagogico della Grecità consiste in gran parte nella radicale consapevolezza dei limiti di ogni pratica educativa. L’ira di Achille dimostra che contro la potenza dell’irrazionale, contro l’Ate divina, ben poco può fare anche il migliore degli educatori: l’antico maestro di Achille -Fenice- rimarrà inascoltato. Molto, certo, dipende dalla formazione ma moltissimo, l’essenziale, da ciò che si è già, fin dall’inizio, all’apparire nel mondo. Tale limite educativo è pertanto inseparabile dalla differenziazione di vari livelli all’interno dell’umano. Dato che questo è precisamente il nucleo di ogni questione sociale, si conferma la profonda unità per gli Elleni della dimensione pedagogica con quella politica, entrambe radicate sul terreno antropologico. Pur nella grande varietà delle loro esperienze sul potere, i Greci concordano nel far discendere la differenziazione sociale «dalla naturale diversità fisica e psichica degli individui» (p. 28). Ciò che veramente conta è -come dichiara il Pericle di Tucidide- che l’uguaglianza di fronte alla legge si accompagni all’aristocrazia del talento. Senza di essa -aggiunge Platone- «non vi sarà pace per la città e per l’intero umano genere» (Repubblica, 473 c-d). L’originalità politica dei Greci nel mondo antico consiste soprattutto nel superamento del privilegio di nascita sociale, di stirpe, di luogo, di ricchezza in favore dell’areté quale vera nobiltà della persona. Soltanto su questa base diventa possibile porre alla società, e quindi all’educazione, la meta di un infinito miglioramento degli uomini fino alla formazione di un’umanità superiore rispetto a quella del presente.
Si scioglie così e si chiarisce il magnifico paradosso educativo individuato da Jaeger:

Occorre ricordare come questa stessa aristocrazia greca dello spirito abbia tuttavia costituito il punto di partenza d’ogni cultura umana superiore e cosciente, e s’intenderà come appunto in tale intima antinomia tra il dubbio pensoso circa l’educabilità e l’indomabile volontà d’educare stia l’eterna grandezza e fecondità dello spirito greco (p. 527).

È lo stesso paradosso, o meglio la medesima complessità colta da Jacob Burckhardt nella sua formula sintesi della Grecità: pessimismo dell’intelligenza e ottimismo della volontà. Di fronte al riduzionismo comportamentista e di tutte le sue tecniche didattiche, rispetto a ciò che Jaeger definisce la «smania di livellamento della novissima sapienza pedagogica» (p. 37), la paideia dei Greci mostra ancora tutta la sua potenza teoretica e operativa.
Due sono i contributi centrali che questo volume offre a una pedagogia che voglia essere coraggiosa e unzeitgemäß, feconda perché inattuale. In primo luogo il ricordare che esiste una cultura non riconducibile alle capacità puramente tecnologiche e professionali e che l’invenzione di tale cultura la si deve ai Greci. E poi la tranquilla consapevolezza che i Greci ebbero (e che è radicata nella struttura biologica e sociale degli umani) del fatto che «nessuna forma di società può sopravvivere a lungo senza una accurata e cosciente educazione dei suoi membri più capaci e più valenti» (nota 6, p. 31).

[Del II volume dell’opera di Jaeger ho parlato alcuni anni fa: Paideia ]

Philosophiae Consolatio

BoetiusL’importanza e il peso della filosofia di Boezio (475-525) non stanno probabilmente nel valore intrinseco della sua riflessione ma nella particolare funzione assunta dalla sintesi che egli ha tentato della cultura classica.
Nei cinque libri del De consolatione philosophiae Boezio affronta i temi della Fortuna, dell’unità di Dio, del Male, della conciliazione fra libero arbitrio e onniscienza divina. Le soluzioni sono platoniche, sono agostiniane. «Ti è necessario ammettere che l’uno ed il bene siano la medesima cosa» (III, 11.9); il male non è che deficienza, scadimento di perfezione, è «nulla, dato che non può farlo colui che non c’è cosa che non possa fare» (III, 12.29). È ammirevole soprattutto l’altezza da cui Boezio parla di queste cose, il disprezzo per il volgo, per la stoltezza delle masse, inconfondibile segno della cultura e della mentalità classiche. Pertanto, nonostante gli espliciti attacchi alle filosofie ellenistiche, Boezio appare uno stoico allorché osserva che «nulla c’è di misero, se non quando tu lo valuti per tale, e viceversa felice è ogni tipo di sorte per chi la subisca serenamente» (II, 4.18); appare un epicureo quando sottolinea quante gravi angustie e quante poche gioie diano i figli tanto che «chi è senza figli è felice nella sua disgrazia» (III, 7.6).
Nonostante i cristiani si siano appropriati per intero della sua figura, Boezio rimane anche un antico pagano nel ribadire -come Pitagora come Platone come Aristotele- l’obiettivo della virtù filosofica: «diventare dei» (IV, 3.10). In questo intenso dialogo con la filosofia non viene mai fatto il nome del Cristo e non si trova alcuna condiscendenza nei confronti delle folle miserabili dei malvagi, delle masse che non pensano e vivono trascinate dall’errore, eleggono alle somme dignità politiche gli indegni, mutano opinione al mutar dei venti, meritano tutt’al più commiserazione essendo malate della malvagità che «brucia la mente, più atroce di qualunque debolezza fisica» (IV, 4.42) e alle quali, infine, viene tolta la stessa umana dignità:

…Ma l’apparenza che loro resta del corpo umano rivela che sono stati uomini fino a questo momento; ma, rotolati nel male, essi hanno perduto la natura di uomini…(IV, 3.15)

Boezio è stato davvero l’ultimo filosofo romano, l’erede di un sentire culturalmente aristocratico, al quale l’etica cristiana non riuscì a togliere l’orgoglio di un platonico.

Alieni

Mito e Natura. Dalla Grecia a Pompei
Palazzo Reale – Milano
A cura di Francesco Venezia
Sino al 10 gennaio 2016

160-P74Natura e materia. Altro non c’è nel mondo, altro non è neppure pensabile. La potenza inimmaginabile ed eterna della Terra e del Cielo genera tutte le forze che plasmano gli enti e si contendono il dominio sul divenire. I nomi degli dèi sono i nomi degli alberi e delle foreste, dei raccolti, delle acque, degli antri, dei vortici, delle stelle. Dioniso -una cui statua incoronata di pampini apre la mostra e la cui presenza tutta la pervade- è la vite; Apollo è palma e alloro; Zeus è la quercia; Atena l’ulivo; Demetra  è la spiga di grano. Da queste forze sgorga l’agricoltura come dono degli dèi: il vino, i cereali, l’olio, la frutta, l’ombra, lo stormire del vento tra le piante.
Circa centocinquanta opere dall’VIII sec. prima dell’e.v al II sec. dopo l’e.v. testimoniano di questa Stimmung, di questa potente tonalità dell’esistere e del pensare. Tra di esse un bel cratere ateniese con disegnate sul bordo delle navi da guerra che avanzano sul mare; un grande bacile con Viaggio di Nereidi su mostri marini per consegnare armi ad Achille, splendido anche perché policromo; un elegantissimo lekytos (vaso per unguenti) con sfondo bianco che raffigura Demetra con spighe nella mano e in compagnia della figlia Persefone; vari paesaggi nilotici ritovati a Roma; i lussureggianti giardini raffigurati a Pompei, a Paestum e in altre località, emblema della potenza che è il divino. Il Giardino delle Esperidi si trova all’estremo Occidente del mondo e rappresenta il luogo dove vivere felici. Non un paradiso eterno come retribuzione degli atti compiuti in qualche decina d’anni -contraddizione clamorosa che rende assurda ogni idea di premio o castigo dopo la morte- ma semplicemente e profondamente un luogo terrestre dove la felicità è possibile, dove l’animale che pensa è una cosa sola con la lussureggiante vegetazione, con gli altri animali, con gli dèi.
Ovunque l’interazione e l’integrazione tra architettura e paesaggio è profonda, lontanissima dallo stupro urbanistico ed ecologico del nostro tempo.
Infine, colma di gioia e di commozione è la Tomba del tuffatore, dipinta a Paestum nel V secolo. Un giovane spicca un tuffo da un piedistallo che forse rappresenta le porte dell’Ade. Nelle acque fioriscono delle belle piante e nella tomba sono raffigurate scene di vita. Il tuffo è anche una metafora del passaggio dalla vita alla morte. Questa magnifica opera è pervasa da una tale serenità e da un così intimo rapporto con gli elementi naturali da essere impensabile nel cristianesimo e negli altri monoteismi, tutti volti al macabro, al lugubre, al doloroso, al disprezzo della vita.
Davvero i Greci -e gli antichi in generale- rimangono degli alieni, nonostante secoli di studi su di loro. Rimangono alieni della serenità, del disincanto, della misura. Questa splendida mostra milanese ci fa almeno intuire perché tali siano e tali restino.

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