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Wimoweh

Wimoweh – The Lion Sleeps Tonight
(The Tokens – 1961)

Una leggenda zulu narra che uno dei più importanti re di questo popolo, Shaka il leone, non è morto ma è soltanto andato a dormire e un giorno si sveglierà. Allo stesso modo non sono morti gli dèi, che si desteranno e restituiranno ai mortali la pienezza del tempo qui e ora.
E così di tanto in tanto vanno a dormire il sorriso e il gaudio della vita. In attesa del loro risveglio -ora, sùbito- cantiamo questo sereno e gioioso inno all’apparenza del mondo.

[audio:https://www.biuso.eu/wp-content/uploads/2017/08/The_Lion.mp3]

(A-weema-weh, a-weema-weh, a-weema-weh, a-weema-weh)
(A-weema-weh, a-weema-weh, a-weema-weh, a-weema-weh)

In the jungle, the mighty jungle
The lion sleeps tonight
In the jungle the quiet jungle
The lion sleeps tonight

Near the village the peaceful village
The lion sleeps tonight
Near the village the quiet village
The lion sleeps tonight

Hush my darling don’t fear my darling
The lion sleeps tonight
Hush my darling don’t fear my darling
The lion sleeps tonight

(A-weema-weh, a-weema-weh, a-weema-weh, a-weema-weh)
(A-weema-weh, a-weema-weh, a-weema-weh, a-weema-weh)

«Essere significa apparire. Quest’ultimo non è qualcosa di accidentale, qualcosa che abbia a che fare qualche volta con l’essere. L’essere è come apparire [Sein west als  Erscheinen]»
(Heidegger, Introduzione alla metafisica, § 38)

«Fammi la faccia, fammi la finta, basta chi lu me cori si cuntenta» è una verità che ho appreso dalle mie magnifiche nonne, Giuseppa Favazza e Rosa Biuso.

[Photo by Corentin Marzin on Unsplash]

«Una natura radiosa»

RUBENS e la nascita del Barocco
Milano – Palazzo Reale
A cura di Anna Lo Bianco
Sino al 26 febbraio 2017

Gli occhi scrutano da dentro il biondo dei capelli e il bianco incarnato della pelle. La testa di tre quarti s’allarga nella scura geometria del copricapo. Così ci guarda Rubens dal magnifico Autoritratto del 1623. Di quest’uomo, Jacob Burckhardt disse che fu un artista dalla «gigantesca fantasia» e «fu anche una natura radiosa», che dall’adesione all’etica stoica seppe trarre la saggezza dell’inevitabile e il riverbero della gioia.
Il suo Seneca morente è fatto di un corpo possente che abbandona con serena amarezza la vita. Quel Seneca che ritorna come nume nel busto che veglia sui Quattro filosofi, dei quali fa parte Giusto Lipsio, il più significativo esponente del neostoicismo. Rubens pensa che la terra del sapiente non sia questa o quella comunità ma la saggezza stessa, condivisa con chiunque se ne disseti. La sua azione di diplomatico presso le corti di Spagna e d’Inghilterra fu intessuta del suo amore per l’Europa, ritratta ne Le conseguenze della guerra come una donna in lutto e con le braccia alzate mentre Afrodite cerca inutilmente di fermare Ares. Un grido, un lutto, una lucidità meno note di Guernica ma altrettanto profonde a esprimere la tragedia dell’Europa devastata dalla Guerra dei Trent’AnniRubens_Los_horrores_de_la_guerra
Quella che è stata definita come la più grande novità in pittura dai tempi di Caravaggio si esprime nei corpi gloriosi che la riempiono. Gloriosi non nel senso paolino ma in quello greco. Sono infatti corpi ispirati a sculture classiche come il Torso del Belvedere, l’Ercole farnese, l’Afrodite al bagno del Museo Archeologico Nazionale di Napoli. Corpi intrisi di una carnalità piena, tesa, avvolgente e affascinante.
Rubens fa il contrario degli artisti e degli architetti che inglobarono i templi greci negli edifici cristiani (come si vede assai bene, ad esempio, nel Duomo di Siracusa). Rubens trasforma i santi cattolici in eroi e in divinità greche. Fa questo proprio perché è «una natura radiosa», la cui luce riempie ancora oggi lo spazio della pittura e si chiama Barocco.

«Così fanno i pagani»

«Avete inteso che fu detto: Amerai il tuo prossimo e odierai il tuo nemico; ma io vi dico: amate i vostri nemici e pregate per i vostri persecutori, perché siate figli del Padre vostro celeste, che fa sorgere il suo sole sopra i malvagi e sopra i buoni, e fa piovere sopra i giusti e sopra gli ingiusti. Infatti se amate quelli che vi amano, quale merito ne avete? Non fanno così anche i pubblicani? E se date il saluto soltanto ai vostri fratelli, che cosa fate di straordinario? Non fanno così anche i pagani? Siate voi dunque perfetti come  è perfetto il Padre vostro celeste» (Mt, 5, 43-48).
Quanti cercano di seguire davvero queste massime di Jeshu-ha-Notzri perdono una delle gioie della vita. Essa consiste nel vedere soffrire chi ci ha fatto soffrire; nel gustare la caduta di quanti produssero in noi lacrime, umiliazioni o tristezza; nel godere sino in fondo e con un sorriso della malattia, dell’abbandono, della rovina che afferra chi ci ha procurato dolore. A coloro che mi hanno ingannato, tradito, voluto del male -come costui, come uomini e donne che non hanno meritato il mio amore e la mia amicizia, come alcuni indegni soggetti incontrati in contesti professionali-, io auguro ogni sofferenza.
Ma in realtà i cristiani provano di frequente la gioia che qui sto cercando di descrivere. Loro che ben lontani dall’“amare i nemici” sono sempre stati i primi a massacrarli. Guerre di religione, roghi (Giordano Bruno sarà per sempre la maledizione dei papisti e Michele Serveto lo sarà per i protestanti), persecuzioni di streghe ed eretici, colonialismo, benedizione di tutte le guerre, complicità con i mafiosi e i pedofili, conflitti interni per il potere, sostegno a ogni sorta di tiranni, crimini vasti e di varia natura, costituiscono il contrappasso che condanna tali ipocriti. I cristiani negano la natura umana e però la praticano (e che altro potrebbero fare?), i pagani la seguono senza mentire, in primo luogo a se stessi:
«καὶ τὸ τοὺς ἐχθροὺς τιμωρεῖσθαι καὶ μὴ καταλλάττεσθαι (e vendicarsi dei nemici è più bello anziché riconciliarsi)»
(Aristotele, Retorica A, 9, 1367 a, 24).
«Ma ho forse torto a lamentarmi… la prova, io sono ancora vivo… e perdo dei nemici tutti i giorni!… di cancro, … di apoplessia, di ludreria… è un piacere come che si svuota il sacco!… non insisto… un nome!… un altro! ci sono dei piaceri nella natura…»
(Céline, Da un castello all’altro, in «Trilogia del Nord», Einaudi 2010, p. 24).
«οὐκοῦν ἐπὶ μὲν τοῖς τῶν ἐχθρῶν κακοῖς οὔτ᾽ ἄδικον οὔτε φθονερόν ἐστι τὸχαίρειν (gioire dei mali dei nemici non è né ingiusto né invidioso)»
(Platone, Filebo, 49 D).
«εἰ κεινόν γε ἴδοιμι κατελθόντ’Ἄϊδος  εἴσω / φαίνην κε φρέν ἀτερπου ὀιζύος ἐκλελαθέσθαι» [Se lo vedessi discendere dentro i recessi di Ade, / direi che un brutto malanno avrebbe scordato il mio cuore]. Questo dice Ettore di Paride, suo fratello, in Iliade, VI, 284-285.
Così fanno i pagani.

Anche qui Dioniso

Teatro Sant’Elena – Milano
Entrope
Riscrittura collettiva di Le Baccanti di Euripide
Compagnia D.R.A.M.A.S. (pdf)
Con: Davide Corrado, Riccardo Carrer, Serena Maierna, Michela Carrera, Riccardo Madini, Alessandro Grati
Scene di Eleonora Nardo
Regia di Alice Grati

«Anche qui vi sono dèi» rispose Eraclito a chi si stupì di vederlo in cucina, accanto al fuoco.
Anche qui il dio più teatrale appare in tutta la sua forza. Qui, dentro una compagnia di giovani attori non tutti professionisti; qui in un teatro piccolo, da poco rinnovato ma pur sempre esterno ai grandi circuiti, qui dove la riscrittura collettiva delle Baccanti ha intersecato i caratteri e le esistenze degli attori con il mito potente del dio che si fa spazio anche là dove non lo vogliono.
Spazio nel quale Dioniso irrompe a rivendicare il proprio diritto alla gioia, alla vendetta, al canto. I movimenti raffinati, statici e ironici del dio contribuiscono al carattere arcaico di questo spettacolo immerso in abiti antichi e postmoderni, con attori che si muovono in una scenografia di semplice eleganza, capace di trasformare dieci sottili colonne di plexiglas in un luogo sacro e luminoso.
Dioniso afferma di amare gli umani che non si rassegnano al proprio destino. E colpisce gli umani con l’inesorabile destino che lui stesso è. Dioniso blandisce e acceca, sorride e uccide. Dioniso è la vita stessa, una «vita indistruttibile» della quale è l’«archetipo», come ha mostrato Karl Kerényi.
Talmente indistruttibile da emergere ancora nei movimenti che la giovane regista ha inventato per rendere ampio e dinamico il ridotto spazio scenico a disposizione. Talmente indistruttibile è il dio da splendere in un testo che è una riscrittura a partire da Euripide ma che sa dire ancora qualcosa di sacro agli arroganti e dementi umani che lo respingono.

entrope

Gli dèi a Sambuca

Sambuca sta su un’altura nel cuore riarso dell’Isola. Ha la forma di un’arpa. Risuona di palazzi nobiliari, chiese di ogni età, quartieri saraceni, teatri ottocenteschi, il Museo archeologico di Palazzo Panitteri che ospita le tracce degli dèi -Demetra in particolare-, i laghi e i feudi intorno. E sopra, in alto, la città punica di Monte Adranone, quel che ne rimane tra il vento, i boschi, il sole. Un luogo dal quale la vista spazia verso il mare, verso l’interno, verso il cielo.
Andando a sud la costa e la città di Sciacca. E poi lo splendore di Selinunte, la più occidentale delle colonie greche, una delle più potenti. Il tempio G non venne mai eretto, troppo esteso, troppo imponente. I massi e le colonne gettate nella terra dicono quanto grande fosse il sogno divino tra gli Elleni. Guardando queste pietre si vede l’essenziale, si scorge il Tempo, la sua perennità, il suo divenire.

Ponzio Pilato

Il procuratore della Giudea
di Anatole France
(Le procurateur de Judée, 1902)
Traduzione e nota di Leonardo Sciascia
Sellerio, 1988
Pagine 48

France_ProcuratoreElio Lamia e Ponzio Pilato si intrattengono amabilmente durante una cena, ricordando il passato, la vita a Gerusalemme, il difficile governo della Giudea. Il procuratore difende il proprio operato, che era stato sempre rivolto a garantire la giustizia e le leggi, a promuovere anche in Giudea lo sviluppo e la pace che il dominio di Roma apportava alle Province dell’Impero. Ma essi, i Giudei -«questi nemici del genere umano» (p. 17)- «ignorano la filosofia e non tollerano la diversità delle opinioni» (26), fanaticamente certi di essere gli unici a conoscere il divino, seppure tra di loro continuamente in confitto sulla interpretazione delle proprie Scritture. Pilato presagisce che questo popolo non sarà mai domato, se non con la distruzione completa della Città santa e con la dispersione. Lamia è d’accordo con lui ma pensa che «in ogni cosa bisogna osservare misura ed equità» (29), ricorda anche le virtù nascoste di quel popolo e soprattutto la bellezza delle sue donne, la sensualità straripante di «un’ebrea di Gerusalemme», con le «sue danze barbare, il suo canto un po’ rauco e insieme dolce, il suo odore d’incenso, il suo vivere trasognato […] Era più difficile fare a meno di lei che del vino greco» (30-31). Questa donna fu da lui perduta quando lei si unì a «un giovane taumaturgo di Galilea»; Lamia chiede a Pilato se si rammenta di questo Gesù «crocifisso non ricordo per quale delitto». La risposta del procuratore è meravigliosa: « “Gesù” mormorò “Gesù il Nazareno? No, non ricordo» (31). E su queste parole si chiude il racconto, «che è un apologo -e un’apologia- dello scetticismo più assoluto (e quindi della tolleranza che ne è figlia)» (Leonardo Sciascia, p. 36).
La figura di Pilato è ricostruita con molta verosimiglianza. Un uomo giusto, ligio alla romanità, incapace di capire gli eccessi e le favole del popolo che gli era stato affidato. La fama del più celebre governatore romano è però affidata a quella di una dottrina per lui incomprensibile, che lo ricorda solo per condannarne l’ignavia. Invece anche a me la vicenda di quest’uomo sembra singolare, rispettabile e -come afferma Lamia- di grande interesse.
Sua è la parola più pulita e ironica dei Vangeli: «Devo forse aggiungere che in tutto il Nuovo Testamento c’è soltanto un’unica figura degna di essere onorata? Pilato, il governatore romano. Prendere sul serio un affare tra Ebrei -è una cosa di cui non riesce a convincersi. Un ebreo di più o di meno -che importa?…Il nobile sarcasmo di un romano, dinanzi al quale si sta facendo un vergognoso abuso della parola “verità”, ha arricchito il Nuovo Testamento dell’unica parola che abbia un valore -la quale è la sua critica, persino il suo annullamento: “che cos’è verità?”…» (F.Nietzsche, L’Anticristo, in «Opere», vol. VI tomo 3, Adelphi 1975, p. 229).
Questo bellissimo racconto di France spiega perché Pilato sia davvero degno d’onore.

Φοῖβος

Inno al Sole
da Musique de la Grèce antique
«Atrium Musicae de Madrid» diretto da Gregorio Paniagua

Poche tracce sono rimaste di ciò che per gli antichi Greci era musica.
Tra queste uno splendido Inno al Sole, a Phoibos, alla Luce.

[audio:https://www.biuso.eu/wp-content/uploads/2016/07/Inno_al_Sole.mp3]
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