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Ravenna

Fu Ottaviano Augusto (I sec. a.e.v.) a comprendere quale vantaggio strategico sarebbe venuto a Roma dal controllo e dall’espansione di un borgo vicino al mare ma separato da una laguna a sua difesa. Da allora Ravenna divenne uno dei luoghi militari più importanti dell’Impero. Importanza che crebbe mano a mano che il baricentro della Roma imperiale si spostava a Oriente e quando la capitale della parte occidentale, Milano, non fu più difendibile, facendo appunto di Ravenna la nuova capitale (402).
A Ravenna fu deposto nel 476 da Odoacre l’ultimo imperatore romano. Nell’epoca romano-barbarica e bizantina, e come città bizantina, Ravenna raggiunse lo splendore del quale vive ancora. I suoi palazzi imperiali e le chiese romaniche sono infatti immersi nel tessuto urbano, come sua parte costitutiva e senza la quale sarebbe un luogo anonimo. Ovunque dominano il segno e la tecnica del mosaico, fragile anch’esso, certo, rispetto alla potenza del tempo ma capace di porre un attrito alla dissoluzione con la forza della pietra. Tra i sovrani romano-barbarici che ne consolidarono il ruolo di capitale, il nome di Teodorico, re ariano degli Ostrogoti (454-526), abita ancora nel Mausoleo che si trova poco al di fuori delle mura.

Una tomba di porfido, pietra riservata ai re, ne conserva il nome, solo il nome. Accanto al Mausoleo la rocca di Brancaleone eretta dai veneziani a difesa della città. Inoltrandosi da qui tra le strade di Ravenna, la prima chiesa che si incontra è una delle più eleganti, sobrie, raccolte e insieme trionfali: San Giovanni Evangelista. E da lì si dispiega poi la potenza dell’architettura bizantina che ha in San Vitale il suo trionfo. Un vortice di spire, di tessere, di mosaici, di santi e di sovrani, di simboli biblici e di luce che piove. Davvero una meraviglia ottagonale (immagine di apertura).

Sulla stessa tonalità della pietra romanica – dal colore così caldo, dalla tonalità così familiare ai nostri occhi abituati sin dalla nascita ad abitare architetture – vibrano le altre grandi chiese della città, tra le quali emergono l’armonia e il vuoto di Sant’Apollinare Nuovo.
Tra i luoghi non direttamente cristiani emergono la tomba di Dante, al quale i poteri fiorentini non concessero di morire nel luogo in cui era nato, e il recente, ricco Museo Classis che racconta la storia di Ravenna dalla fondazione al presente. Il Museo occupa gli spazi di uno zuccherificio chiuso nel 1982 e conferma tutte le potenzialità dell’archeologia industriale nel dare respiro all’antico.

Ho visitato questo museo una domenica mattina mentre la vicina Basilica di Sant’Apollinare in classe era chiusa (incredibilmente) e avrebbe aperto soltanto di pomeriggio. A poca distanza l’antico Porto di Classe è chiuso anch’esso alle visite in autunno. Chiusure sciagurate, che mostrano quanto Ravenna e l’Italia debbano ancora fare per rendere grazie alla propria storia, a un passato che è di fatto unico al mondo per la pervasività ovunque della civiltà romana, della sua determinazione, della sua misura, della sua ironia.

A Ravenna si comprende in modo persino abbagliante che cosa fecero i cristiani di questa radice e albero pagani. Che fossero bizantini, ariani o fedeli alla dottrina del vescovo di Roma, i cristiani si comportarono come strutture parassite, che in sé avevano ben poco da offrire, con le loro bizzarre storie di profeti crocifissi, ma che seppero trasformare queste bizzarrie in arte e in dottrina assorbendo per intero e in ogni punto della loro sostanza artistica e dottrinale il mondo romano e la filosofia dei Greci.
Come a Siracusa il Duomo è il tempio di Atena, come innumerevoli chiese sudamericane sono in realtà luoghi di venerazione degli antichi dèi precolombiani, così le pietre e le idee sulle quali sono costruiti gli edifici di Ravenna sono profondamente e per intero pagani. La cripta di una di queste chiese, San Francesco, è invasa dalle acque e vi nuotano proprio sotto l’altare dei pesci. Che l’elemento di Talete e i suoi animali stiano alla base dell’altare del dio cristiano è una visione veramente unica. Durante la visita a questa chiesa risuonavano le letture della messa cattolica. La prima lettura, tratta da Esodo, 17, 8-13 si chiude con queste parole: « ‘Giosuè sconfisse Amalèk e il suo popolo, passandoli poi a fil di spada’. Parola di Dio».
Questa parola di dio è di per sé senza misura, fanatica, ed è stata resa meno violenta soltanto dalla σοφία e dalla φρόνησις dei Greci, sulle quali si fonda anche la bellezza di Ravenna.

Angeli

Anatole France
La rivolta degli angeli
(La révolte des anges, 1914)
Trad. di Alessandra Baldasseroni
Lindau, Torino 2017
Pagine 301

La letteratura che conduce al fondo del reale, che saggia passo passo l’enigma delle vite e degli eventi, è sempre intessuta di filosofia, più esattamente è filosofia espressa con altro linguaggio, privo del rigore della forma ma intriso dell’evidenza degli eventi. Nel caso di Anatole France, a dare forza teoretica al suo narrare è la teologia. Così nel gioiello che ha per titolo Le procurateur de Judée (1902) e così nel suo ultimo magnifico romanzo, La révolte des anges.
Una teologia unita sempre, in France, alla passione politica. Lo sfondo della Terza Repubblica francese è infatti pervasivo sino a essere incombente ma l’autore ha sempre la capacità di trasformare ben precise vicende e contesti storici in una filosofia della storia, come quella che segna i capitoli 18-21 (dei 35 che compongono il libro) e che è esplicitamente volta a demolire la filosofia cristiana della storia elaborata da Bossuet. In questi capitoli, infatti, la storia del cristianesimo appare per quello che in gran parte è stata: storia di un successo criminale, nato nei deserti della Palestina con le tribù ebraiche, diventato ecumene per opera di ‘apostoli della tristezza’ come i monaci e i padri della chiesa, i quali «bruciavano i libri, rovesciavano i templi, incendiavano le città, estendevano i loro danni fin nei deserti» (p. 170), come confermano, tra gli altri, i recenti libri di Catherine Nixey e Giancarlo Rinaldi.
Il cristianesimo stava per tramontare nel fasto artistico e politico della Chiesa rinascimentale quando arrivarono due tristi figure a restituirgli per un poco forza e fanatismo: Lutero e Calvino, i quali vengono da France descritti con accenti nietzscheani: 

Ma, o disgrazia, o cattiva sorte, funesto avvenimento comunque, ecco che un monaco tedesco, gonfio di birra e di teologia, si drizza contro questo paganesimo rinascente, lo minaccia, lo fulmina, prevale da solo contro i princìpi della Chiesa, e, sollevando i popoli, li invita a una riforma religiosa che salva ciò che stava per essere distrutto […] .
Dopo questo grosso incappucciato, bevitore e attaccabrighe, venne il lungo e magro dottore di Ginevra. Imbevuto dello spirito dell’antico Yahweh, che si sforzava di riportare il mondo ai tempi abominevoli di Giosuè e dei Giudici d’Israele, maniaco freddamente furioso, eretico bruciatore di eretici, il più feroce nemico delle Grazie (181).

Nel suo discorso sulla storia universale France perviene ai primi anni del Novecento, a quel periodo di quiete apparente che preparò il macello della Prima Guerra mondiale e il suicidio dell’Europa. Descrivendo la Terza Repubblica, lo scrittore formula l’esatta diagnosi «che sotto il nome di repubblica, questo paese era costituito in plutocrazia, e che, sotto le apparenze di un governo democratico, l’alta finanza vi esercitava un potere sovrano, senza sorveglianza né controllo» (144).
A pronunciare queste parole è Sophar, uno degli angeli ribelli che popolano – non riconosciuti – la Terra. Da poco si è unito a loro Arcade, angelo custode dell’indolente e conformista rampollo di una ricca famiglia parigina, Maurice d’Esparvieu. Frequentando la magnifica biblioteca di famiglia – dove sono conservate bibbie, talmud, l’intera produzione dei padri della chiesa – l’angelo si è reso conto che il suo Signore è ben diverso da come ama presentarsi. Arcade, il cui nome celeste è Abdel, afferma infatti con chiarezza che il Dio degli ebrei e dei cristiani non ha

creato il mondo, tutt’al più ne ha organizzato una piccola parte e tutto quello che egli ha toccato porta l’impronta del suo spirito imprevidente e brutale. Non credo che egli sia né eterno, né infinito, perché è assurdo concepire un essere che non è finito nello spazio e nel tempo. Lo credo limitato, e anche molto limitato. Non credo più che egli sia il Dio unico; per moltissimo tempo, non l’ha creduto nemmeno lui: dapprima fu politeista. Più tardi il suo orgoglio  e le adulazioni dei suoi adoratori lo resero monoteista. Ha poco séguito nelle sue idee; è meno potente di quel che si crede. E per dirla tutta, piuttosto che un dio è un demiurgo ignorante e vano. Quelli che, come me, conoscono la sua vera natura lo chiamano Yaldabaoth (86).

È quest’ultimo, Yaldabaoth, il vero protagonista del romanzo, il funesto demiurgo delle tradizioni gnostiche, «un tiranno ignorante, stupido e crudele» (99), che non è affatto il creatore dei mondi ma è soltanto un’entità inferiore al divino, un facitore «ignorante e barbaro, che, essendosi impadronito di un’infima particella dell’Universo, vi ha sparso il dolore e la morte» (216) ma che gli umani continuano ad adorare, per quanto infelici siano, poiché «è spaventoso per loro il solo pensiero di cessare di essere. […] Gli uomini adorano il Demiurgo che ha reso la loro vita peggiore della morte e la morte peggiore della vita» (129).
Proprio perché il demiurgo è tanto ignorante quanto presuntuoso, opporsi a questo orrore significa praticare la conoscenza: «Non si regna sulla natura, non si acquista l’impero dell’Universo, non si diventa Dio che attraverso la conoscenza. […] Non sarà il coraggio cieco (nessuno in questo giorno ha avuto più coraggio di voi) che ci darà il potere dei cieli: è lo studio e la riflessione» (155-156). Parole, queste, pronunciate da Lucifero, il quale viene da France identificato – e mi sembra una notevole intuizione – con Dioniso, « il più grande degli Dèi» (268), che il suo Sileno attende quando tornerà «seguito dai suoi Fauni e dalle sue Baccanti a insegnare di nuovo alla terra la gioia e la bellezza, e a riportare l’età dell’oro. Camminerò raggiante di gioia dietro al suo carro» (189).
Alla cupezza, alla violenza, all’ignoranza di Yahweh, il quale «non era conosciuto nel mondo, che egli pretende di aver creato, che da alcune tribù miserabili della Siria, da lungo tempo feroci come lui, e perpetuamente condotte da una schiavitù all’altra» (167), questo romanzo oppone naturalmente la luce del Sacro incarnata dagli Dèi della Grecia.
Se, come afferma Arcade, «i Greci non s’ingannavano mai. I moderni sbagliano sempre» (91), è perché tra quelle genti la saggezza e la bellezza pervennero «a un punto che nessun popolo aveva raggiunto prima di loro, e al quale nessun popolo si è, da allora, avvicinato. Da dove viene, Arcade, questo prodigio unico sulla terra? Perché il sacro suolo della Ionia e dell’Attica ha nutrito questo fiore incomparabile? Perché là non vi furono mai né sacerdozio, né dogma, né rivelazione, e i Greci non conobbero mai il Dio geloso» (164).

Da questa compiuta consapevolezza gnostica derivano numerose conseguenze, che traspaiono con chiarezza anche in un’opera narrativa e non teoretica come questa. Tra tali fecondi risultati ricordo solo il superamento dell’etica, il riscatto della materia, l’aristocrazia della mente.
«La natura non ha principi. Essa non ci fornisce nessuna ragione di credere che la vita umana sia rispettabile. La natura, indifferente, non fa alcuna distinzione fra il bene e il male» (228-229). Natura composta di una materia che è soprattutto luce ed energia intercambiabili, come sostiene anche la fisica contemporanea, e dalla quale deriva la gioia del flauto di Sileno (diventato l’angelo Nectaire), il quale «cantava la natura, dava all’insetto e al filo d’erba la sua parte di potenza e di amore, e consigliava la gioia e la libertà» (295). Chi comprende tutto questo, i suoi presupposti e le sue implicanze, è veramente aristocratico poiché «l’indipendenza del pensiero è la più fiera delle aristocrazie» (187). Un’affermazione anch’essa interamente gnostica.
Tratto del tutto originale di questo libro è che tale densità e profondità di temi storici, filosofici e teologici è affrontata in modalità lievissime. Non soltanto perché di un romanzo si tratta ma anche e soprattutto perché è un romanzo intriso di ironia, di scetticismo, di disincanto. Ironia che si mostra anche nella chiusa di ciascun capitolo, apparentemente incongrua e banale rispetto a ciò che nei capitoli si racconta e anche per questo generatrice di straniamento, interrogativi, sorrisi.
Il culmine di tutti questi elementi, diversi e arricchenti, è raggiunto nell’ultimo capitolo «dove si svolge il sogno sublime di Satana» nella notte che precede l’inizio della nuova rivolta alla quale gli angeli gnostici invitano il loro antico capo. Lucifero fa un sogno che è un incubo. Il sogno della sua presa del potere, del precipitare il vecchio demiurgo nell’inferno ma poi diventare come lui. Da tale incubo «Satana si svegliò bagnato di sudore glaciale» (296) ma ormai lucido nella sua decisione. Il testo si chiude infatti con parole di grande saggezza e di intima bellezza, parole che spingono a combattere la tenebra prima di tutto non negli enti, negli eventi, nei processi dolorosi della storia ma dentro la mente che è pervenuta a intuire le loro ragioni.

Ora, grazie a noi, il vecchio Dio è spodestato del suo impero terrestre e tutto ciò che pensa in questo globo lo sdegna e lo ignora. Ma cosa importa che gli uomini non siano più sottomessi a Yaldabaoth se lo spirito di Yaldabaoth è ancora in essi, se essi sono, a sua somiglianza, gelosi, violenti, litigiosi, bramosi, nemici delle arti e della bellezza, che importa che essi abbiano respinto il Demiurgo feroce, se non ascoltano affatto i demoni amici che insegnano ogni verità, Dioniso, Apollo e le Muse? In quanto a noi, spiriti celesti, demoni sublimi, abbiamo sconfitto Yaldabaoth, il nostro tiranno, se avremo distrutto in noi l’ignoranza e la paura. […] È in noi, in noi soltanto, che dobbiamo attaccare e distruggere Yaldabaoth (297).

Un invito che è condizione per una vita serena.

 

Matera

Un luogo abitato sin dal Paleolitico, per la sua posizione strategica e agevolmente difendibile; per la roccia calcarenite della quale è fatto, facilmente scavabile e lavorabile; per le terre che lo circondano. Un luogo dalla storia complessa e tragica, ricco nei secoli XVI e XVII e poi progressivamente immiserito sino alle condizioni davvero impensabili descritte da Carlo Levi in Cristo si è fermato a Eboli  e da Rocco Scotellaro, il quale espresse la forza di questa terra e dei suoi abitanti nei versi di Sempre nuova è l’alba: «che all’ilare tempo della sera / s’acquieti il nostro vento disperato. / Spuntano ai pali ancora / le teste dei briganti, e la caverna – / l’oasi verde della triste speranza – lindo conserva un guanciale di pietra…».
Parole che descrivono e cantano l’identità di Matera e in generale della Lucania, identità che in questa città si raggruma. Di grotte, di palazzi, di chiese rupestri sono fatti i Sassi, i due quartieri ripidi e bianchi collegati dalle strade, dalle scale e dalle abitazioni della Civita. Sotto a queste strutture urbane, in una gola  precipite e scoscesa, scorrono le acque della gravina, un ampio torrente che non forniva di acqua la città ma che raccoglieva le sue deiezioni e che continua nella notte a riempire di suoni il silenzio delle strade.

Nel Sasso Barisano si trovano la chiesa romanica di San Giovanni, perpendicolare rispetto all’ingresso e alla piazza, ricca di affreschi ben conservati; la chiesa di San Pietro Barisano, la più grande fra le chiese rupestri, in gran parte spogliata dei suoi colori e con l’inquietante «Sepolcrario» dove scolavano i cadaveri degli ecclesiastici, in modo che la carne corruttibile evaporasse per lasciare la perennità delle ossa; l’imponente Sant’Agostino e il suo convento, costruiti a precipizio sulla gravina.
Dal Sasso Caveoso pende sulla gravina la chiesa di San Pietro, dalla quale partono le scale e i sentieri che vanno verso altre chiese rupestri (sono decine e decine in tutta la città); particolarmente ben tenuta tra di esse è S. Lucia alle Malve, dietro la quale si estende il Convicinio di Sant’Antonio con le sue cripte monacali. Al centro visivo e geometrico del Sasso sta il Monte Errone, sotto e dentro il quale si trovano i complessi della Madonna De Idris e S. Giovanni in Monterrone; di fronte a essi l’altro Sasso e la Civita appaiono riempiti di una identità che da ogni punto di Matera rende uniforme il paesaggio urbano e di una differenza che in ogni punto cambia diagonali, luce e prospettive.
Nella Civita gli spazi/chiese scavate nella roccia della Madonna delle Virtù e di San Nicola dei Greci, ambienti complessi su più piani, che affondano nella terra e si alzano in balconi naturali e luminosi; il Convento di S.Lucia che sembra pendere sul baratro del torrente.
Nel Piano emergono una chiesa – S. Francesco – romanica all’esterno e barocca nel suo interno e la Piazza del Sedile, dalla quale parte la strada che porta al più grande edificio religioso di Matera, il Duomo romanico con il suo campanile visibile da qualsiasi punto della città, con il grande rosone che sembra in movimento, con il colore bianco di dolcezza che i lunghi restauri hanno restituito allo sguardo che prima era opaco, scuro. Tornando a San Francesco, si scende verso l’elegante via Ridola, che ospita le chiese di S. Chiara e del Purgatorio e finalmente, un luogo non cristiano, il Museo Archeologico Nazionale intitolato a Domenico Ridola, che intuì, raccolse e conservò i tesori pagani di queste terre: magnifici vasi di ogni dimensione che raccontano i miti greci; una sezione permanente dedicata alla Collezione Rizzon, a Tiresia e ai poemi omerici (Tiresia, il mito tra le tue mani), ricostruzioni di insediamenti preistorici e reperti tra i più antichi che gli umani in questi luoghi abbiano inventato per vivere, coprirsi, nutrirsi, camminare. 

Alla fine della strada, in basso, sta l’antico Palazzo vescovile Lanfranchi, solenne e ampio, nelle cui sale è ospitato il grande dipinto di Carlo Levi Lucania ’61, un poema per immagini forse anche un poco retorico ma che con le sue centinaia di figure umane esprime con singolare efficacia la durezza della vita contadina in queste terre, la sua rassegnazione, il progressivo elemento di riscatto.
Di Levi, nei piani superiori, il Palazzo ospita numerose tele donate dall’artista: dagli inizi ispirati al realismo magico sino alle tendenze astrattiste degli anni Sessanta del Novecento; dipinti di pittori lucani, tra i quali è particolarmente intrigante l’opera del materano Luigi Guerrichio;  l’ampia raccolta del collezionista privato Camillo D’Errico, una antologia di storia dell’arte napoletana tra Sei e Settecento; numerosi oggetti d’arte sacra che affondano sino all’Alto Medioevo.
Dalla parte opposta della via si trova la Piazza Vittorio Veneto, con la Fontana Ferdinandea e soprattutto il «Palombaro Lungo», un’enorme cisterna che raccoglieva milioni di metri cubi d’acqua alla quale i materani attingevano per ogni loro esigenza di lavoro, di pulizia e di nutrimento. Oggi è visitabile con delle scale che tutta la attraversano e che danno plasticamente il senso della capacità che l’animale umano ha di trasformare ogni spazio, struttura e pietra in strumento di sopravvivenza nella storia.
Davvero unico è poi il MUSMA, il Museo della Scultura Contemporanea. Si trova nel cinquecentesco Palazzo Pomarici e si ramifica su due piani, tre cortili e sette ipogei, grotte che per secoli hanno ospitato conventi, stalle, magazzini, cantine e che ora alternano bronzi, pietre, ferri, ceramiche, marmi in quella che è forse l’espressione artistica più pura del presente, la scultura appunto, nella quale la materia è capace di diventare qualsiasi cosa, assumere le forme più diverse, comunicare la vibrazione nello spaziotempo che sempre la materia densa rappresenta.

Dietro il Duomo si trova anche la Casa Noha, donata dalle famiglie Fodale e La Torre al Fondo Ambiente Italiano (FAI), nelle cui stanze è possibile seguire un coinvolgente video che racconta la vicenda di Matera dalla preistoria al presente. Presente che è fatto anche dell’ospitalità dei suoi abitanti, rinnovati nei nomi ma in continuità con l’identità antropologica materana. Abitanti che hanno fatto della loro storia e della bellezza anche una fonte di reddito. La città è colma di viaggiatori e di turisti, i locali sono pieni, la prenotazione di una cena di fatto obbligatoria. Clamorosa smentita della stolta opinione di un commercialista di Sondrio, tale Tremonti, che da ministro delle finanze affermò che “con la cultura non si mangia”. Con la cultura a Matera si banchetta.
Tra questi abitanti ci sono Guido, proprietario del B&B «Madonna degli Angeli» le cui stanze si aprono sul magnifico paesaggio rupestre del torrente, e Pietro, gestore del ristorante «Dedalo», non soltanto una gioia per il gusto ma anche per il tatto e per la vista, con le pietre del suo ipogeo trasformate in sculture che rappresentano, tra gli altri, Demetra, Andromeda e soprattutto Dioniso. 

È questo uno dei segreti di Matera. Nessuno dei luoghi di culto cristiani è dedicato al Dio, alle sue tre persone, ma tutti sono rivolti ai santi e alla Grande Madre, della quale la Maria della Bruna conservata nella Cattedrale è simbolo chiarissimo e pacato. Si tratta dunque di una religiosità politeistica, l’elemento che fa del cattolicesimo la forma più teologicamente ricca ed esteticamente magnifica tra le tante della religione cristiana. Dietro la maschera dei santi e di Maria, nelle pietre di questo luogo abitano ancora gli dèi.
La visita di una città permette di solito di viaggiare lungo i secoli. Matera permette di farlo nei millenni.

Pagani e cristiani

Recensione a:
Giancarlo Rinaldi
Pagani e cristiani
La storia di un conflitto (secoli I-IV)
Carocci Editore 2020, pagine 492
in Vita pensata, n. 27, settembre 2022
pagine 85-88

C’è una vicenda, fondamentale per l’Europa, nella quale il detto secondo cui ‘la storia la scrivono i vincitori’ appare con evidenza in tutte le sue pervasive e immense conseguenze. Questa vicenda è quella assai complessa che si racchiude nel termine Cristianesimo.
Studiare la genesi del modo in cui questa religione si è presentata nei secoli e continua a presentarsi oggi significa comprendere sino in fondo l’importanza della metapolitica, dell’egemonia culturale, della scrittura che sopravvive e della scrittura che si inabissa. È noto che migliaia di testi della cultura greca e romana sono andati perduti. Meno noto è che la misura di questa perdita arriva sino a novanta testi su cento, forse meno noto ancora è che gran parte di tale perdita sia stata progettata, voluta e realizzata coscientemente dai gruppi, individui, istituzioni che vanno sotto il nome di ‘Chiesa’, la quale iniziò il IV secolo dell’e.v. «come soggetto perseguitato e lo chiuse come agente persecutore», una persecuzione contro l’intera civiltà antica.

Incarnazione

I Marmi Torlonia
Collezionare capolavori

Gallerie d’Italia – Milano
A cura di Salvatore Settis e Carlo Gasparri
Sino al 18 settembre 2022

Sarcofago con trionfo indiano di Dioniso (II sec. e.v.)

L’autentico desiderio religioso degli umani, quello immediato, quello che precede le teologie monoteiste, il bisogno veramente connaturato all’esserci e che accomuna le civiltà e le culture più diverse nello spazio e nel tempo, è sentire accanto a sé il divino – impresso nel marmo, nel bronzo, nel legno, nei muri, nelle pietre, nello spazio. Ovunque.
È tale esigenza che si vede, si tocca, si compie nelle opere che costituiscono «la maggiore raccolta privata di arte antica al mondo» (Guida alla mostra, p. 1), i marmi raccolti nei secoli dalla famiglia romana dei Torlonia. Nella sua presentazione video Salvatore Settis definisce il Museo Torlonia (fondato nel 1875) «una collezione di collezioni». Lo si vede bene anche in questa oculata e magnifica selezione di 96 delle  620 opere del Museo romano, provenienti da scavi effettuati dai Torlonia nei loro possedimenti e soprattutto dall’acquisizione di altre collezioni, come quelle dello scultore Bartolomeo Cavaceppi (XVIII secolo), di Villa Albani (stesso secolo), della collezione Giustiniani (XVII secolo) e di raccolte ancora più antiche (Cesi, Savelli, Cesarini, Pio da Carpi).
Il risultato è l’incarnazione, sono i corpi degli dèi accanto ai nostri, è la continuità somatica tra l’animalità e il divino, è la terra che dalle proprie argille, sedimentazioni, pietre, plasma i marmi nei quali uno sguardo insieme identico e diverso guarda i futuri attraverso il volto dei divini o gli occhi dei mortali.
La mostra si apre infatti con una galleria ellittica di busti che ripercorre i primi due secoli dell’Impero romano. Si ha l’impressione proprio di incontrarli questi umani ai quali il tempo diede un grande potere e il tempo glielo tolse, anche velocemente. I busti di Adriano (II sec. e.v.) e di Antinoo (XVIII sec.) (qui a destra), per quanto lontani tra di loro nel tempo rimangono sempre inseparabili.
Il ritratto di Antinoo porta il nome di «Dionysos-Osiride». Il grande dio della gioia è presente ovunque in questa mostra, in particolare in due opere: il Sarcofago con trionfo indiano di Dioniso (II sec. e.v., immagine a inizio articolo) e il grande Cratere con simposio bacchico, detto Tazza Cesi o Vaso Torlonia (II-I sec. a.e.v., qui a sinistra). In quest’ultimo, tra le altre raffigurazioni, un uomo stringe una donna da dietro prendendo nelle proprie mani i suoi seni e un gruppo di maschi osserva con passione una donna nuda distesa. L’intera opera è la pienezza del desiderio, è il piacere del corpo, sono gli abbracci, il sesso. Un altro figlio di Zeus, Eracle celebra ancora una volta e più volte le proprie fatiche, le sue vittorie.
E poi i gesti gloriosi e insieme rassicuranti di altri dèi, come la Atena Giustiniani-Carpi (II sec. e.v., alla fine del testo); l’armoniosa mescolanza tra l’antico e il barocco; l’intensità degli occhi e del volto della Fanciulla da Vulci (I sec. a.e.v., qui a destra), scene di commercio, di culto, di prigionia e di vittoria.
E soprattutto i gesti senza tempo e insieme colmi di tempo che identificano, segnano e caratterizzano le statue degli dèi, il loro καιρός.
Tutto questo divenne per più di mille anni, dal tempo di Costantino al XV secolo, del tutto insignificante. I marmi, le statue, gli dèi disseminavano le strade e i ruderi di Roma senza che nessuno desse loro importanza. Poi gli dèi tornarono e queste pietre sono diventate in ogni senso preziose. La Chiesa romana, padrona di quei luoghi, contribuì, mediante il mecenatismo e la passione di cardinali e papi, alla loro riscoperta, sanando in questo modo un poco le distruzioni che i primi cristiani vincitori attuarono in tutto il Mediterraneo. Tra le tante Chiese ispirate al mito del Nazareno, quella papista è certamente la più culturalmente consapevole, quella più vicina all’antico spirito pagano.
Ripeto dunque quanto scrivevo alcuni anni fa:
«Il paganesimo è vivo, nascosto ma vivo. Esso pulsa nei documenti antichi, negli inni delle civiltà più diverse, nella dimensione esoterica della dottrina cattolica e in quella popolare dei suoi culti: la Grande Madre, il Dio divorato – Dioniso – che risorge ogni volta dalla propria morte, il pantheon dei santi. Il paganesimo vive nei movimenti e negli individui che hanno ancora rispetto per la Natura e in essa percepiscono la perennità del Sacro. […] Pagana è l’identità fra il Tutto e il Nulla. Pagana è l’accoglienza di tutte le religioni, di tutti gli Dèi, di tutte le fedi, quel sentimento irenico che fa dire a Proclo : ‘Voi che reggete il timone della saggezza santa / dèi che accendete il fuoco del grande Ritorno […] Che infine possa vedere io / l’uomo che sono e il dio / immortale in me» (Inno a tutti gli Dèi).
I Marmi Torlonia appaiono e sono veramente sacri, costituiscono la materia nella quale vive il dio, materia che ė il dio.

Atena Giustiniani-Carpi (II sec. e.v.)

Gender

[Il testo è una riflessione a partire dal numero 51 (marzo 2021, pagine 204) della rivista Krisis, dedicato al tema dell’Amore. Discuto in particolare il contributo di Denis Collin, dal titolo La fin du désir et l’érotiquement correct. Collin è uno dei maggiori e più lucidi filosofi marxisti contemporanei, i cui testi mostrano quanto fecondo sia l’insegnamento di Marx quando viene elaborato per comprendere in modo critico le forme virulente e nascoste del liberalismo (e liberismo) del XXI secolo] 

L’amore ha uno statuto simile all’essere e al tempo, si dice in molti modi: «Le mot est polysémique, sa définition presque impossible, son histoire pleine de détours» (Damien Panerai, p. 3). I suoi tre principali significati sono:
φιλία, l’amicizia profonda, i legami familiari;
ἀγάπη, l’amore fraterno e universale, l’essere in comunione con qualcuno o qualcosa;
ἔρως, l’amore passione, l’amore desiderio, l’amore totale, l’unità corpomentale che noi animali siamo.
Non a caso quest’ultima parola, ἔρως, è «introuvable dans le Nouveau Testament grec» (Jean-François Gautier, 29). Ci sono poi altre forme, definizioni e significati dell’amore: l’amore trofeo nel quale l’amata, l’amato, l’amore stesso costituiscono un  titolo e un corpo da esibire; l’amore/innamoramento, intensissimo e dalla durata più o meno breve; l’amore/tenerezza frutto di una lunga consuetudine con l’oggetto amato; le tante, molteplici, radicali forme d’amore descritte da Stendhal e soprattutto la fenomenologia assoluta e completa del fatto amoroso che è l’intera Recherche proustiana.
L’ἔρως, il vero amore, è una potenza infinita, che «laisse dans les cœurs et les esprits des hommes des cicatrices d’impuissance» (Anthony Keller, 55). L’ἔρως è la più radicale forma di alterità, sia nel significato di un confronto/conflitto/relazione con l’altro da sé (con la Differenza), sia nel significato di una dimensione totalmente altra rispetto alle buone e moderate forme e norme del vivere sociale. E questo anche perché «l’amour est le royaume de la vulnérabilité, de l’abandon, de la faiblesse consentie, de la toute-puissance non de soi mais de l’autre sur nous» e perché «les cœurs parlant à l’unisson avec une intensité jumelle sont rares. L’expression d’un très grande amour, surtout quand il n’est pas partagé à hauteur égale, peut terroriser celui qui en est l’objet, le faire fuir»; l’esito è « une attitude à haut risque», è il dramma dell’abbandono e della fuga: «Se rappelle-t-on l’adage qui édicte: ‘Suis-mois, je te fuis, fuis-moi, je te suis’ ?»  (Anaïs Lefacheux, 109-110).

Anche per cercare di neutralizzare la potenza sovversiva e immedicabile dell’ἔρως sono nate nel corso della storia e in molte società (non in tutte) delle vere e proprie ‘Leghe di virtù’ che hanno cercato di ostracizzare il dio (Διόνυσος / Ἔρως). Numerose correnti e tendenze religiose ne costituiscono degli esempi chiari e influenti. Il cristianesimo è una di queste leghe moralistiche e virtuose. Si tratta di una tendenza radicata nella psiche dell’Occidente e camaleontica nelle sue espressioni. La più pericolosa tra quelle contemporanee è «le féminisme nouveau [il quale è] maintenant l’équivalent des anciennes ligues de vertu» arrivando persino, con «les fanatiques de #metoo» a chiedere l’inversione dell’onere giuridico della prova e che quindi sia l’accusato a dover dar prova della sua innocenza. Una barbarie giuridica che si origina dall’idea che «les hommes sont coupables par nature!» (Denis Collin, 72).
In generale il politically correct  si esprime anche come una pulsione di morte eroticamente corretta, la quale «s’inscrit pleinement dans le processus de ‘désublimation répressive’ analysé voilà plus de soixante ans par Herbert Marcuse. Loin d’une libération de l’Éros, il pourrait bien en signifier le déclin, vaincu par les forces de Thanatos, cette pulsion de mort qui taraude la société capitaliste d’aujourd’hui» (Id., 69); tale pulsione segna e determina una progressiva decadenza della libido e del piacere, tanto che «la conclusion ultime de la ‘ révolution sexuelle ’ est, paradoxalement, la fin du sexe, son éradication promise» (Id., 73).

Questa ondata di moralismo virtuoso e punitivo sembra avere a fondamento -come sempre– un vero e proprio odio verso la corporeità, il piacere, il sesso. Odio che si esprime anche come separazione/opposizione tra sesso, erotismo e amore, che sono in realtà la stessa dinamica espressa in forme diverse. Infatti «sans l’impulsion fondamentale de la pulsion libidinale, il n’y aurait pas d’érotisme, ni de sublimation amoureuse. […] Judith Butler est une idéaliste au plus mauvais sens du terme, et avec elle tous les champions du ‘ tout est construction sociale ’, puisq’elle prétend émanciper le rapport érotique de tout son fondement  naturel, ‘ matériel ’ pourrait-on dire» (Id., 74-75).
Le prospettive di Butler e di molti altri teorici della distinzione sesso/genere affondano nella tradizione dualistica della cultura occidentale per tendersi verso un culturalismo radicale, un volontarismo culturalista che disprezza o almeno ignora la potenza dei corpi ritenendo ad esempio che si possa «liquider les ‘ genre fixes ’ pour faire place à la liberté du ‘genre flottant ’. Je suis ce que je veux être à l’instant» (Id., 75). Chistine Delphy afferma con chiarezza che «ciò che è sociale non deve niente alla natura» e che «dietro la maschera della biologia è la società ad esprimersi come un ventriloquo» (Les Féminismes en question. Éléments pour une cartographie, 2005). Tesi, queste, talmente lontane dalla materia e dai corpi da  risultare del tutto sterili.
Il sentirsi maschi in un corpo di femmina e femmine in un corpo di maschio è certamente legittimo e anch’esso naturale ma questo non significa che la persona non abbia e non costituisca uno statuto ontologico che è maschile o femminile, senza incertezze. I maschi non hanno il ciclo mestruale, i maschi non vengono ingravidati, i maschi non partoriscono e non allattano. Le femmine non penetrano e non eiaculano con un pene. Dover ricordare simili ovvietà è segno di una inquietante negazione dell’animalità umana, sostituita dall’ennesima tendenza spiritualista che prende il nome di gender. È una delle tante tendenze del liberismo capitalistico, una delle molte espressioni del self-made-man, che costruisce da sé se stesso, la propria identità e il proprio mondo, una delle numerose tendenze dell’antropologia liberale che «postule l’interchangeabilité des individus, qui mène à leur atomisation» (David L’Épée, 103). 

Queste tendenze sono state analizzate a fondo da Eugenio Mazzarella in L’uomo che deve rimanere. La smoralizzazione del mondo (Quodlibet 2017). Il filosofo vi sostiene che «lo scenario ideologico che si apre è la pura e semplice smoralizzazione di massa del mondo, di cui la teoria del gender è oggi il ‘manifesto’ biopolitico più avanzato del work in Progress della reingegnerizzazione sociale in atto della sociogenesi ‘naturale’ fin qui attestata dalla ‘tradizione’. […] A scelta di un individuo che a priori, naturalmente e socialmente, non è ontologicamente nient’altro (o almeno tale si pretende) se non persona giuridica, fiction sociale titolare dei diritti che la società gli riconosce in una pattuizione ogni volta a determinarsi (pp. 43 e 45). La smoralizzazione della quale parla Mazzarella non è naturalmente un «banale immoralismo» ma costituisce la pretesa di rimoralizzare l’umano «su nuove basi tecnicamente e socialmente ‘escogitate’» (p. 48).
Simili confusioni ontologiche producono delle contraddizioni logiche come quella tra il gender e il trans. Se infatti ognuno è ciò che vuole essere, perché mai sarebbe necessario intervenire sugli organi genitali di un corpo/volontà che è già ciò che pensa di essere? «Les partisans des opérations de réassignation de genre apportent aux thèses de Butler et tutti quanti un démenti flagrant. On ne doit pas pouvoir être en même temps queer et trans» (Collin, 78). Dal punto di vista esistenziale, «c’est la haine de la nature et la haine de la chair qui animent ces gens. Rien d’autre. Et effectivement, ils son sürement très malheureux» (Id., 80).
E però, nonostante la grancassa mediatica del liberismo gender, nonostante le intimidazioni, l’arroganza e il fanatismo dei «commissaires politiques du sexuellement correct» (Id., 73), «en dépit des contrôles, des brimades et des interdictions, le désir finit toujours par se frayer un chemin» (Ludovic Maubreuil, 162). Nonostante i nuovi Pentèo che temono e disprezzano il piacere e vorrebbero ingessare le relazioni tra uomini e donne in una gabbia di norme fuori dalle quali gridano allo stupro, alla violenza, al maschilismo, alla molestia, nonostante questa barbarie puritana, Dioniso rimane il dio della ζωή, il trionfo del corpomente, la gloria del σῶμα.

Teofania

Recensione a:
Walter F. Otto
TEOFANIA
Lo spirito della religione greca antica
(Theophania. Der Geist der altgriechischen Religion, 1956)
Adelphi, 2021
pagine 184
in Diorama Letterario – numero 363 – Settembre/Ottobre 2021
pagine 39-40

Gli dèi non sono onnipotenti ma onnipresenti. È una presenza «avvertibile in maniera talmente immediata che non ne troviamo traccia in nessun’altra delle antiche religioni». Il divino è il sacro ctonio, terrestre, immanente, mondano, che splende e respira nel tessuto dei giorni, nella tensione verso la differenza, nell’accoglimento dell’identità del qui e dell’ora. Esso è ovunque.

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