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Pilato

Elio Lamia chiede a Ponzio Pilato se si rammenta di un certo Gesù, «jeune thaumaturge galiléen (…) mis en croix pour je ne sais quel crime». La risposta del procuratore è: «Jésus? murmura-t-il, Jésus, de Nazareth? Je ne me rappelle pas». Con queste parole si chiude il racconto di Anatole France Le procurateur de Judée (1902). Pilato vi appare come un uomo giusto, sobrio, incapace di capire gli eccessi e le favole del popolo che gli era stato affidato. La fama del più celebre governatore romano è però affidata a quella di una dottrina per lui incomprensibile, che lo ricorda solo per condannarne l’ignavia.

E invece è sua la parola più pulita e ironica dei Vangeli: «Devo forse aggiungere che in tutto il Nuovo Testamento c’è soltanto un’unica figura degna di essere onorata? Pilato, il governatore romano. Prendere sul serio un affare tra Ebrei -è una cosa di cui non riesce a convincersi. Un ebreo di più o di meno -che importa?…Il nobile sarcasmo di un romano, dinanzi al quale si sta facendo un vergognoso abuso della parola “verità”, ha arricchito il Nuovo Testamento dell’unica parola che abbia un valore -la quale è la sua critica, persino il suo annullamento: “che cos’è verità?”…» (Nietzsche, L’Anticristo).

Sul suicidio (e altri saggi scelti)

Sul suicidio
di David Hume
Introduzione di Gaetano Vittone
Edizione a cura di Giuseppe Torresi
Traduzione di Chiara Vitalone
Villaggio Maori Edizioni
Catania, 2008
Pagine 80

Le riflessioni di Hume sul suicidio ben si inseriscono nel quadro naturalistico che sottende tutto il suo pensiero. Se il suicidio è un “crimine” perché infrange il corso delle cose voluto dalla potenza divina, allora va giudicato altrettanto colpevole ogni e qualsiasi intervento sulla natura, le sue leggi, le sue manifestazioni:

Se disporre della vita umana fosse un diritto esclusivo dell’Onnipotente, tanto che fosse una violazione del suo ufficio per gli uomini disporre delle proprie vite, sarebbe ugualmente criminoso agire per la sua conservazione come per la sua distruzione. Se schivo una pietra che sta per cadere sulla mia testa, turbo il corso della natura e usurpo quella particolare funzione propria dell’Onnipotente, prolungando la mia vita oltre il tempo che, secondo le leggi generali della materia e del moto, Egli le aveva assegnato. (pp. 15-16)

Tra le altre argomentazioni a difesa del suicidio ve n’è una la cui verità è evidente, quella per la quale «nessun uomo abbia gettato via la vita, finché essa era degna di essere conservata» (20). È l’attenzione alla qualità dell’esistere a essere del tutto disprezzata dal fanatismo e dalla superstizione che vogliono legare gli umani alla sofferenza come se essa fosse un valore da perseguire invece che un male da, finché è possibile, evitare. A tale superstizione monoteistica Hume oppone l’etica naturalistica del mondo classico, ben riassunta nella parole di Seneca e di Plinio. Il primo ringrazia Dio «quod nemo in vita teneri potest» (Epist. 12, qui 67). Il secondo compiange gli dèi proprio perché non possono, pur volendolo, darsi la morte: «Deus non sibi potest mortem consciscere, si velit, quod homini dedit optimum in tantis vitae poenis» (Nat. Hist. II, 5, qui 69).

Nonostante la frequente ironia che esercita anche sul mondo classico, Hume è ben ancorato in esso. Lo dimostrano la difesa della serenità e della gioia contro ogni cupezza e malinconia su questa e su altre vite; il socratismo di fondo che gli fa dire come sia molto raro «che un uomo di gusto e di sapere non sia, alla fine, un uomo onesto, qualsiasi debolezza possa mostrare» (57); l’analisi di sentimenti quali l’innamoramento o il pregiudizio positivo che ogni specie e individuo nutrono nei confronti dei propri figli; la precisione con la quale riassume l’atteggiamento di fondo di una filosofia che pur detesta come la platonica.
È anche la capacità analitica che le è propria a fare della filosofia, compresa quella di Hume, un «antidoto supremo contro le superstizioni e la falsa religione», un farmaco che sa arrivare là dove gli altri falliscono. (11) Per Hume il suo limite è, semmai, di costituire un sapere e un atteggiamento troppo sofisticati per essere alla portata di tutti. La filosofia richiede, infatti, una natura a essa predisposta.

Questo importante libro rende quindi accessibili alcuni saggi di Hume non facilmente leggibili in italiano. La traduzione e la cura sono ottimi. L’introduzione di Gaetano Vittone si conclude con una citazione di Quine secondo il quale «la situazione humiana è la situazione umana» (5). Pur ritenendo tale affermazione iperbolica e parziale, riconosco che il filosofo scozzese ha colto molto della identità e della potenza umane quando ha sostenuto la centralità della mente nella costruzione del senso e del valore delle cose:

Tutte le differenze di condizione di vita dipendono dalla mente; e non esiste alcuna situazione che sia in qualche modo preferibile a un’altra. Il bene e il male, sia fisico che morale, sono del tutto relativi ai sentimenti e agli affetti umani. Nessun uomo sarebbe più infelice, se potesse mutare i suoi sentimenti. Come PROTEO, egli potrebbe sfuggire a tutti gli attacchi della fortuna, con la trasformazione continua del suo aspetto e della sua figura. (55)

La mente-proteo è dunque capace di fare del mondo il luogo del significato, uno spazio semantico e fenomenologico che è l’autentico spazio umano al di là di ogni oggettivo darsi della materia.

I Greci

Les_Grecs

Ai Greci non si “ritorna”, i Greci ci stanno davanti e vivendo da europei è verso di loro che andiamo. Alla Grecia antica dobbiamo la ricerca del senso (filosofia), la misura nel pensare e nell’agire, il coraggio dell’orrore, l’amore per la bellezza, lo sguardo disincantato ma anche amante sulla vita, la differenza, la molteplicità.
Nel mondo omerico come nella metafisica di Aristotele, nelle filosofie arcaiche come in quelle ellenistiche, «il n’ya pas dans le monde grec de revendication d’une vérité absolue et encore moins d’intention d’imposer cette vérité à d’autres» (G. Rachet in Les Grecs?, num. 23 di «Krisis», Paris 2000, p. 35). Il gusto per la differenza emerge specialmente nella concezione greca del divino. Nessun dio geloso, nessuna divinità esclusiva ma la più ampia apertura a una molteplicità di dèi, di culti, di concezioni e di riti. È quindi errato rappresentare la Grecia come un insieme monolitico. Essa è, invece, l’opposto di quella «reduction à l’Unique qui parcourt toute la civilisation chrétienne comme l’expression de sa nature propre» (Ivi, p. 39).
Louis Rougier scrive che «il n’y a pas de sagesse antique plus opposée, plus incompatible avec le christianisme et les deux autres grandes religions méditerranéennes, le judaïsme et l’islamisme, que la Metaphysique du Lycée. Le péripatétisme nie la création, la providence, l’immortalité de l’âme, les sanction d’outre-tombe et, logiquement, le libre arbitre, il rejette comme impensables, contradictoires et absurdes, les dogmes de la Trinité et de l’Incarnation» (Ivi, p. 147). Sembra quasi di sentire gli stessi argomenti e accenti coi quali Friedrich Nietzsche comunica a Franz Overbeck il proprio incontro con Spinoza: «egli nega la libertà del volere-; i fini-; l’ordine morale del mondo-; l’altruismo-; il male» (Epistolario, vol. IV, 1880-1884, Adelphi 2004, p. 106, lettera del 30.7.1881).

Dioniso

Generato dal serpente e dal toro, da Zeus e da Semele, da Era e da se stesso, Dioniso è la vita che uccidendosi rinasce. Solo chi fa a pezzi il dio e se ne nutre incorpora in sé parte della sua essenza e della sua vita. L’umanità è nata dalla fuliggine dei Titani inceneriti da Zeus per aver ucciso e divorato Dioniso. Tutti gli umani sono pertanto «fatti della medesima sostanza dei primi nemici del dio; eppure tutti hanno in sé qualcosa che viene proprio da quel dio, la vita divina indistruttibile» (Karl Kerényi). I Grandi Misteri celebravano l’uccisione del dio da parte dei suoi devoti, la conservazione di lui nei corpi dei fedeli e la sua periodica resurrezione. Iside ricompone le membra sparse del fratello-marito, Dio Padre restituisce la vita al Figlio, Apollo «il dio della luce che guarisce, proprio quello che poteva porre fine allo stato in cui si trova un dio sofferente, smembrato, morto ma anche temporaneamente pazzo, poteva aiutare [Dioniso] a riacquistare la sua integra vitalità» (K.K.)

I paradigmi mitologici è di noi che parlano, di noi alla ricerca di una vita perenne nelle forme della genetica, della clonazione, dell’evoluzione verso modi artificiali di esistenza e di intelligenza. Siamo sempre gli stessi nel mutare incessante della cultura e delle sue forme: grumi di tempo, concrezioni effimere della materia, Bìos precario della indistruttibile Zoé. Ecco Dioniso: «il prototipo dell’alta gioia di vivere» (Erwin Rohde), natura, potenza, tenebra splendente.

Dioniso

«Non mediante una sola strada…»

Il secolo della vittoria cristiana è un tempo di incertezza, paure, recessione economica. Con l’Editto di Milano (313) Costantino non solo trasforma il cristianesimo in uno dei culti ammessi ma stabilisce anche l’entità dei finanziamenti in suo favore. Nel 356 Costanzo II fa chiudere i templi pagani e ne sequestra i beni. Nel 380 Teodosio dichiara il cristianesimo religione di Stato e nel 391, infine, proibisce ogni culto pagano. Nel mezzo, l’ultima fioritura del mondo antico si esprime con l’imperatore Giuliano. Il suo tentativo di recuperare e far rivivere la grande tradizione del paganesimo più mistico e insieme più filosofico si scontra con un mondo morale che oscilla fra edonismo e superstizione.

Il vescovo cristiano Ambrogio contrasta in tutti i modi e con successo i tentativi del prefetto Simmaco di salvare l’Ara della Vittoria (384). Simmaco si appella alla tolleranza e alla pluralità di credenze della tradizione pagana: «suus enim cuique mos, suus ritus est…uno itinere non potest perveniri ad tam grande secretum» (Relatio III, 8-10); Ambrogio respinge tale invito. Un altro vescovo cristiano -Teofilo- si pone alla testa di chi vuol bruciare la Biblioteca di Alessandria (392), le Olimpiadi vengono chiuse (393) e i Misteri eleusini soppressi (396). Poco tempo dopo (415) e ancora ad Alessandria i cristiani aizzati dal vescovo Cirillo massacrano Ipazia nel modo raccontato da Damascio: «una massa enorme di uomini brutali, veramente malvagi […]..] uccise la filosofa […] e mentre ancora respirava appena, le cavarono gli occhi».

De Reditu

(Il ritorno)
di Claudio Bondì
Italia 2003
Con: Elia Schilton (Claudio Rutilio Namaziano), Roberto Herlitzka (Protadio), Rodolfo Corsato (Minervio), Marco Beretta (Rufio), Caterina De Regibus (Sabina), Roberto Accornero (Vittorino), Xhilda Lapardhaja (Sacerdotessa)
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Dopo il sacco di Roma compiuto dai Goti (410) -evento capitale che ispirò anche il De civitate Dei– l’ex praefectus urbi Claudio Rutilio Namaziano decide di tornare in Gallia per verificare i danni alle proprie terre ma soprattutto per tentare di organizzare una resistenza pagana contro i barbari e i cristiani.

Di questo viaggio è rimasto il racconto, dal quale Bondì ha tratto un film molto bello. Interiore, sobrio, raffinato, con qualcosa di arcaico e simile alla splendida Odissea di Franco Rossi. Vi si mescolano la fedeltà al Sacro contro il disincanto cristiano, la malinconia per la sconfitta ormai inevitabile, il tradimento e l’opportunismo delle classi dirigenti passate alla fede dei vincitori, il fanatismo e la miseria culturale dei monoteisti, la forza indistruttibile della natura e degli Dèi. Sullo sfondo di paesaggi che sembrano condividere il crepuscolo e la bellezza del paganesimo, Rutilio afferma che «chi crede in un unico Dio è disposto a parlare solo con lui e con chi è convinto della medesima verità» e il suo amico Protadio è consapevole che «siamo anime antiche».

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